Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 8 marzo 2004
la Repubblica, venerdì 5 marzo Un paio di giorni fa, mentre aspettavo il mio turno di una banale incombenza medica, ho assistito a una liberazione
• la Repubblica, venerdì 5 marzo
Un paio di giorni fa, mentre aspettavo il mio turno di una banale incombenza medica, ho assistito a una liberazione. Un detenuto anziano, grande e pesante, nel pigiama triste dei ricoverati, è arrivato con un passo strascicato fino al cospetto del dirigente sanitario. Il quale gli ha detto con una voce cordiale: «B, se ne va a casa!». La grossa faccia dell’uomo è diventata attonita, gli occhi gli si sono riempiti di lacrime, e il corpo è sembrato afflosciarsi. Poi ha sussurrato, tremando, come uno che abbia sentito male: «Vado a casa, professore?». «Sì, se ne va a casa!» - ha ribadito il bravo medico, che intanto gli si era accostato, per sostenerlo. Allora il grosso uomo anziano è piombato in ginocchio e ha afferrato il braccio del medico per baciargli la mano. stato accompagnato a una lettiga, gli hanno misurato la pressione, ascoltato il cuore, ispezionato il resto, come si fa quando ci si deve sincerare che qualcuno possa mettersi in un viaggio. Intanto lui ripeteva, come chiedendolo ora a sé soltanto: «Me ne vado a casa?». La sua casa è, ho saputo poi, in Calabria. Quale delitto l’avesse portato in carcere, non l’ho saputo. Non importa. Che cosa vada a fare a casa, lo so: a morirci. stato liberato per quello.
• Un uomo dal tristo pigiama d’ordinanza e dalla diagnosi infausta che venga liberato, e cada in ginocchio: non occorre sapere chi sia, né chi sia stato, per sentirsene - non dirò fratelli, ma qualcosa di meno e di più, simili, fatti dello stesso legno secco. Questa comunanza è una cosa che ci sfugge, fino a che una disgrazia non ci precipiti in una prossimità che abbiamo fatto tanto per sventare, frequentando buone scuole, abitando in buoni quartieri, facendo buone carriere. Un accidente, che ci faccia finire vicini a uno sconosciuto - chissà chi è, chissà chi siamo - in una sala di rianimazione, in un disastro stradale, in una cella di galera. Bene, è durato abbastanza, il preambolo. Ieri - ne ho vista la riproduzione sull’’Unità” - Roma è stata tappezzata di manifesti coi nomi mio e di Priebke, affissi dai promotori di una manifestazione per la grazia al vecchio signore tedesco.
• Non è neanche un accostamento: è la contrapposizione di un mio presunto privilegio alla persecuzione di Priebke. Bene, è di questo che parlerò, di Priebke e di me. Vedete quante volte lo riscrivo, lui e me, uno accanto all’altro. Non che mi sia abituato: non ci si abitua mai del tutto. La prima volta fu tanti anni fa, fu il procuratore Borrelli a evocare il paragone, parlando del tempo che passa. Non voglio usurpare una forza che non ho, non sono l’uomo di fil di ferro che dice il mio caro amico Giorgio Bocca. Vomito anch’io: cerco di farlo al riparo della sudicia tendina di plastica che divide in due la mia cella -di qua scrivo, di là mi faccio il caffè, mi lavo, vomito. Lo stesso legno secco. Se voi non lo sapete, vi auguro di saperlo il più tardi possibile. Qualche tempo fa Guido Ceronetti ha scritto cose gentili sul mio conto, e le ha concluse auspicando che usassi della mia voce per chiedere clemenza per Priebke. Non so se fosse un pensiero ragionevole, io ci rimasi male perché avevo scritto più volte, e da molti anni ormai, le cose cui Ceronetti mi invitava. Lo rifaccio, benché immagini facilmente che qualche persona perbene, misurandomi sul proprio metro, mi addebiti un interesse privato: al diavolo.
• La domanda - così ne scrissi alcuni anni fa, su queste pagine - era ed è rimasta questa: perché non mandiamo questo vecchissimo uomo, che abbiamo stanato in Patagonia e portato qui e condannato, a morire accanto alla sua vecchia donna a quel paese? A questa domanda alcuni pochi avevano risposto presto con nettezza: fra quelli che ricordo, Anna Maria Ortese, su questo giornale - che, prima di morire arrivò a evocare il nome di ”agnello”, per lei supremo, a proposito della sorte di quel vecchio. Io avevo allora, e la conservo, l’opinione espressa nitidamente da Tullia Zevi, responsabile allora della comunità ebraica: noi, disse, teniamo al principio della imprescrittibilità dei crimini di guerra nazisti, dunque al processo e alla condanna all’ergastolo; non teniamo a che il condannato resti in galera e ci muoia. In Ortese e in Ceronetti c’era una dichiarata compassione per una persona così distante dalla stagione di orrore che lo aveva trascinato. Nella Zevi c’era un ripudio per lo spirito vendicativo, un disinteresse per l’espiazione personale così tardiva e superflua. Superflua per tutti, se non per l’eventuale attaccamento dei prossimi delle vittime al surrogato estremo e infimo di risarcimento procurato dalla sofferenza dell’antico criminale.
• Posizioni tutte altamente rispettabili - anche l’ultima, forse più di tutte rispettabile e amabile, anche quando se ne dissenta. C’è poi, ma sembra non esserci, ”la giustizia”. Anzi, più francamente: non c’è. In questo caso specialmente, essa era stata dal principio soppressa dal peso di una responsabilità storica e umana. L’andamento dei processi mostrò che ne era rimasta soverchiata. Una giustizia assoluta, cioè sciolta dai condizionamenti, avrebbe condannato Priebke e l’avrebbe rimandato a casa un minuto dopo. Una giustizia relativa nel senso dei precedenti e delle comparazioni, l’avrebbe variamente prescritto. Una giustizia relativa nel senso dei condizionamenti politici e di opinione, l’avrebbe condannato e assicurato alla galera: è quello che è rocambolescamente successo, alla fine, a furor di popolo. Solidarizzai con quel furor di popolo, ma sapendo che violava un principio. L’ultima sentenza contro Priebke raddrizzava, piegandola dalla parte opposta, la sentenza storta precedente. I principii sono inderogabili, e questo è a sua volta un principio: ma non significa che ciascuno di noi non si rassegni per una volta a una deroga, o addirittura non se la auguri. Purché non si faccia passare la deroga per un’osservanza del principio. Oppure, ci può essere un conflitto fra due principii, magari appartenenti a codici diversi. Un minuto dopo la sentenza, sarei stato sollevato se Priebke fosse stato rimandato a casa sua. Non ha alcuna importanza, ai miei occhi, che uomo sia oggi, quali pensieri esprima o taccia sul suo passato, quali condoglianze o perdoni accetti o rifiuti di pronunciare. Riguarda lui. Forse riguarda i parenti delle vittime, ammesso che diano peso a ciò che lui dice o tace: non so. Per me non ha alcuna importanza. Non importa niente che uomo sia, ma che sia un uomo: un vecchio uomo innocuo e superfluo per chiunque, se non per la propria vecchia donna e per sé.
• Nessun calcolo politico, storico, giudiziario è più pertinente, se non la constatazione della protratta e provvisoria e imbarazzante esistenza in vita di un uomo. Così pensavo, anni fa ormai.
Non ho mai cambiato quella opinione, e caso mai, il tanto tempo che è trascorso l’ha rafforzata. Sono venute da me le persone impegnate alla difesa e al sostegno a Priebke, mi hanno annoverato fra i destinatari di iniziative pubbliche - libri memoriali, cassette... Non ho letto i libri, non ho guardato le cassette. Non mi sembravano importanti per il punto in questione. Nella sua lettera al tribunale che lo giudicava, Priebke evocò l’atomica di Hiroshima, il bombardamento di Dresda, le fosse di Katyn: quel repertorio di orrori bastavano ad assolvere Priebke agli occhi di Priebke per una bagattella come le Fosse Ardeatine. Il vecchio nazista non farà più a meno di questo modo di pensare.
• Ma che cosa pensiamo del suo destino futuro non può aver niente a che fare con lui, la sua faccia, le sue parole pubbliche, i suoi sentimenti segreti. affare nostro. Lui aveva 33 anni alle Fosse Ardeatine, ha ora novantadue anni, e quasi altrettanti ne ha la sua moglie malata. Non si tratta di sapere come e dove vivranno, ma dove e come moriranno. Se vogliamo che la notizia, sempre più imminente, ci dica che è morto in un arresto domiciliare romano, o in una casa lontana sua e della sua donna. Nel primo caso pochi ne proveranno una gioia, e sarà comunque amara, molti ne proveranno solo un disagio, a tanti non importerà niente. Io preferisco che se ne sia già andato, che muoia a casa sua. Che qualcuno gli abbia detto, a quel suo viso impietrito: «Se ne va a casa!». Le persone della comunità ebraica romana scusino la mia indiscrezione, ma mi piacerebbe tanto che fossero loro a dire che non è questo che sta loro a cuore, il titolo di ergastolano e il luogo nel quale Priebke lasci questo mondo. E benché il perdono sia un sentimento e un gesto meraviglioso, non è neanche del perdono che si tratta qui, ma di voltare le spalle e il viso alla scena nella quale si consumerà il tempo estremo di uno che si prestò a essere un odioso nemico.
• Anche di Walter Veltroni sono amico abbastanza da dirgli che una manifestazione in favore di Priebke, qualunque ignobiltà possa esservi inalberata - per esempio, un manifesto col suo nome e il mio - merita un’alzata di spalle, non una mobilitazione per impedirla. Non sarà una vergognosa giustificazione del militare che obbedisce agli ordini a procurare o inibire una misura di umanità nei confronti dell’antico nazista. Né è consolante che anche su questo si riproduca la fedeltà dei partiti alla propria geografia e demagogia, magari quella geografia riaggiustata per la quale la sinistra dà per imprescrittibile una persona e non un reato, e la destra la scavalca in intransigenza, perché così vogliono i tempi. Si chiede la grazia per Priebke: non so né se sia giusto, né se sia saggio. Penso però che anche fuori della grazia uno Stato abbia risorse legali per trasformare degli arresti domiciliari in Italia per ragioni di età e di salute in un’espulsione a un quartiere di Bariloche. Cambierà di poco, la pagina di giornale che racconti la morte di un decrepito, un legno secco della storta pianta umana. Quanto a me, e all’imprevista oscena confidenza che si è andata stabilendo fra quell’uomo e me, io sto dalla parte in cui tanto accanito concorso ha voluto mettermi, contraffacendo la parte che mi ero io stesso scelto, nei miei momenti più generosi - degli ultimi, vogliamo dire, dei dannati? Dapprincipio si prova un ribrezzo, a volte una solitudine greve, poi ci si abitua, benché non del tutto. E alla fine, anche potendo scegliere, non si tornerebbe più dall’altra parte.
Adriano Sofri