Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 3 gennaio 2000
Il pm Pierguido Soprani di Ferrara sta conducendo un’indagine sul centro di ricerche biomediche applicate allo sport diretto dal professor Francesco Conconi
• Il pm Pierguido Soprani di Ferrara sta conducendo un’indagine sul centro di ricerche biomediche applicate allo sport diretto dal professor Francesco Conconi. Soprani ha cominciato ad indagare insospettito dagli atti di un convegno sul doping svolto in Norvegia nel 1993: Conconi aveva illustrato i risultati dei suoi esperimenti su 22 atleti di livello amatoriale. Nel primo numero del mensile ”GQ” (ottobre 99) vennero però pubblicati i testi del ”file Epo” contenuto nel computer del laboratorio di Conconi (provenivano da un sequestro dei Nas): si trattava di una lista nella quale venivano illustrati gli effetti di trattamenti dopanti su campioni quali i ciclisti Marco Pantani, Claudio Chiappucci, Gianni Bugno, Maurizio Fondriest e gli sciatori (fondo) Manuela Di Centa, Silvio Fauner, Maurilio De Zolt, Marco Albarello. Soprani ha confrontato i dati ”Norvegia 93” con quelli del ”file Epo” ed ha notato una strana serie di coincidenze: il numero dei soggetti ”trattati” (23), quello dei test eseguiti (148), il numero degli atleti ”non trattati” (il cosidetto gruppo di controllo, 110 individui per 254 misurazioni in entrambi i casi). Sarebbero identiche anche le medie aritmetiche di alcuni valori modificati dopo il trattamento (recettore solubile della transferina: 3,35 con deviazione standard di 1,13 per i ”trattati” e 1,91 con deviazione standard 0,45 per i ”non trattati”). Conclusione di Soprani: Conconi si faceva bello a spese del Coni (aveva un contratto per centinaia di milioni l’anno, da qui i molti che parlano di ”doping di Stato” tipo Cina e Germania Est) fingendo di dare la caccia ai dopati ed intanto usava gli esperimenti per rendere invincibili i suoi clienti.
• Gianluigi Barsottelli, trentaquattrenne di Camaiore, professionista dal ’93 (nessuna vittoria) è il primo pentito della mega inchiesta di Soprani. Cosa faceva a Ferrara? «Facevo i test di valutazione e le analisi del sangue quasi tutti i mesi. Si cercava sempre qualcosa per andare più forte, quando agli inizi degli anni 90 si sparse nel gruppo la notizia dell’Epo e della sua efficacia, cominciai anch’io a prenderla».
Ma chi le propose per la prima volta la cura?
«Nessuno in particolare. Nel gruppo, ripeto, lo sapevano tutti cosa faceva la differenza. Se ne parlava spesso, in generale».
E lei come faceva?
«Facevo da solo. Mi procuravo l’Epo in Svizzera. Costava cara: circa 140 mila lire la fiala. Dopo un po’ ho dovuto smettere perché non me lo potevo permettere».
Ma per le dosi come si regolava?
«Un po’ a occhio: una mezza fiala ogni due giorni, così...». [...]
Nonostante il trattamento, però, non sembra abbia fatto grandi risultati. Perché?
«Non saprei. Non andavo. Forse sbagliavo le dosi. Non ne facevo abbastanza di Epo. Oppure non avevo le qualità per fare il ciclista».
• Il ”Corriere della Sera” del 28 dicembre ha intervistato il professor Sandro Donati, grande censore del doping: «Coni e Federazioni coinvolte, portando molti atleti a raggiungere risultati bene al di sopra delle loro capacità normali, hanno innescato un meccanismo terribile e irresponsabile. Facendo cioè diventare il doping un immenso fenomeno commerciale e industriale. Altrimenti l’Epo non sarebbe al secondo posto tra i prodotti più venduti al mondo e l’ormone della crescita al settimo. E a Nicosia, il 22 maggio di quest’anno, non sarebbe avvenuto, come hanno dichiarato subito le autorità cipriote, il furto di 4 milioni di fiale di Epo destinate al mercato nero dello sport. Ma il sospetto, a questo punto, è un altro e ben più grave».
Quale?
«Tutti coloro che hanno utilizzato e utilizzano doping sono sganciati dalle grandi aziende farmaceutiche? O sono ad esse strettamente collegati?».
• Roberto Beccantini sulla ”Stampa” di mercoledì: «Se nel doping siamo arrivati a questo punto è anche perché i professionisti dell’anti-doping hanno fatto di tutto per spingere l’opinione pubblica a ”tifare”, inconsciamente, per i simil-Cagliostro e i loro cangianti clienti. Ogni volta che parla, Torquemada-Donati ci mette una tale enfasi e sfoggia un tale giustizialismo da tracimare nel linciaggio: dell’intero esercito nemico se non, almeno, dei singoli obiettivi, delle singole persone».
• Tra gli atleti accusati più o meno velatamente c’è Francesco Moser, ex campione del mondo di ciclismo che nel 1984, dopo una accurata preparazione col professor Conconi (si sottopose ad una serie di autotrasfusioni), strappò il record dell’ora che apparteneva da più di dieci anni ad Eddy Merckx (il risultato, che all’epoca parve sbalorditivo, fu in parte attribuito all’uso di avveniristiche ruote lenticolari). Francesco Moser è stato intervistato da Gian Paolo Ormezzano sulla ”Stampa” di martedì: «Si vogliono fare dei processi al ciclismo e allo sci di fondo sulla base di esperienze scientifiche che, ammesso che le rivelazioni siano esatte, sono avvenute quando l’incremento dei globuli rossi nel sangue attraverso pratiche varie non era proibito. Sarebbe come se io venissi accusato di non aver pagato l’Ici quando questa tassa non esisteva». Maurizio Fondriest, altro ex campione del mondo di ciclismo: «Questa vicenda mi sembra Tangentopoli: un gran polverone che poi finisce in niente [...] In questi momenti tirano nel mucchio [...] Che tu sia pulito o meno, se hai il nome legato a una persona devi aver fatto chissà che cosa, quindi devi dare spiegazioni. E questo basta alla gente per farti colpevole».
• Sempre sulla ”Stampa” di martedì Gian Paolo Ormezzano fa una proposta: «Per il doping e per quella sua escrescenza che si chiama eritropoietina l’unica soluzione è una specie di amnistia. Una specie, perché non sempre si tratta di reati [...] Proponiamo un ”punto e a capo” severo, con subito il via a una campagna di: a) massima informazione; b) massima prevenzione presso i giovani, vittime della loro incoscienza e dell’altrui spregiudicatezza; c) massima lotta ai mercanti illegali; d) massima attenzione alla posa di alcuni semplici paletti o se preferite divieti [...] Perché il doping con i suoi succedanei è ormai dovunque, da far pensare che chi non viene scoperto è quasi sempre più furbo, meglio assistito, più fortunato [...] Siamo al punto in cui troppe campagne rischiano di essere demagogia pura. Non possiamo da una parte compiacerci dei primati, della telespettacolarizzazione dello sport, del denaro che da tutto ciò proviene, della vetrina che tutti insieme abbiamo creato e poi fare finta che gli elementi inquinanti che il denaro ha con sé debbano stare fuori, lontani dal nostro mondo. Accettare non vuol dire subire, vuol dire cominciare a disciplinare».
• D’accordo per l’amnistia Candido Cannavò, direttore della ”Gazzetta dello Sport”: «Sarebbe difficile incolpare e punire degli atleti che si sono rivolti a un istituto, com’è quello del professor Conconi, che era stato accreditato da Cio e Coni, cioè dagli organi che governano lo sport». Emanuela Audisio di ”Repubblica” chiede un severo esame di coscienza dei presunti colpevoli: «Voltiamo pagina e ricominciamo da capo, ma prima chi, pur incolpevolmente, ha abusato di sostanze illecite deve ammetterlo e confessarlo, facendo i nomi dei prodotti usati, di tecnici conniventi e medici compiacenti».
• Le principali vittime del doping sono però i giovani dilettanti disposti a pagare qualsiasi prezzo pur di diventare professionisti ricchi e famosi. Dall’ultimo numero di ”GQ”: « uno dei primi giorni del luglio 1996. Un ciclista dilettante di 20 anni, M.V., che corre con la squadra italiana Vellutex Vigorplant, si ritira da una tappa dei campionati d’Italia a causa di un forte malore. Il direttore sportivo della squadra, Olivano Locatelli, è furibondo. E per punizione lo obbliga a percorrere 200 chilometri senza sosta. Gli concede solo una borraccia d’acqua. Uscendo da una curva M.V. evita l’impatto con un furgoncino Ape. E cade. Soltanto che l’Ape non c’è. stata un’allucinazione [...] Almeno tre volte M.V. si sente male durante le gare, che svolge a ritmo di una ogni due giorni. Sviene. Cade. Ma Locatelli non lo ascolta. Lui deve solo correre. E far vincere gli altri. Finché a metà ottobre 1996, a Piacenza, al traguardo di una competizione regionale, perde conoscenza e rovina al suolo. Lo soccorre un’autoambulanza. Ha la lingua rovesciata all’indietro. Si riprende in ospedale, dove gli riscontrano varie extrasistoli. Nessuno della squadra va a trovarlo.
Il 20 ottobre torna a casa. E racconta tutto ai genitori. Passano due settimane, il 9 novembre, mentre pattina sul ghiaccio con gli amici, cade di schianto e perde conoscenza. Lo intubano, il cuore si ferma. Riescono a rianimarlo a fatica. Lo portano d’urgenza all’ospedale di Chiavenna. Il 27 novembre lo ricoverano a Trento. La verità è ormai sotto gli occhi di tutti. M.V. ha rischiato di morire di doping con la promessa di passare da dilettante a professionista. [...] Locatelli comincia a dare pasticche misteriose a M.V. nei primi del 1996: sono di animine, un farmaco a base di caffeina non venduto in Italia, con forti controindicazioni per chi ha disfunzioni cardiache. Si aggiungono le compresse di Celestone, un cortisonico. E poi, tutte insieme, anche durante le corse, Optalidon, Bentelan, Corton Acetato, Esafosfina, Sinsurrene forte, Maxicortex 2000, iniezioni endovenose di ferro...» (dal verbale dei Nas, ora agli atti di un’inchiesta della procura di Lecco).