Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 9 maggio 2004
uando arriva a Guernica, la mattina del 26 aprile 1937, Francisco Lazcano ha ancora bene in mente le parole con cui è stato congedato la sera prima dal presidente dei Paesi Baschi José Antonio Aguirre
• uando arriva a Guernica, la mattina del 26 aprile 1937, Francisco Lazcano ha ancora bene in mente le parole con cui è stato congedato la sera prima dal presidente dei Paesi Baschi José Antonio Aguirre. «Sei tu il delegato del governo sulla piazza di Guernica. Sai cosa devi fare». Infatti subito si mette all’opera. La cittadina basca è ormai al centro delle operazioni di guerra: c’è il fronte a 15 chilometri, e solo passando attraverso Guernica le truppe in basche in ritirata possono ripiegare e riorganizzarsi per difendere Bilbao.
Il minimo che ci si può attendere è un bombardamento, probabilmente con gli aerei tedeschi della legione Condor che, privi d’insegne, martellano dal cielo i repubblicani.
Come prima cosa quindi Lazcano va nello storico palazzo che ospita il municipio. Tra l’altro la Casa de la Juntas di Guernica è per i baschi è un monumento importantissimo. Lì fino al 1876 si riunivano le assemblee generali della Biscaglia. Dunque, Lazcano arriva, si presenta e chiede conto della situazione al sindaco, che gli risponde all’incirca: «Qui va tutto bene. Oggi è lunedì, quindi c’è il mercato e poi un atteso incontro di pelota. Verrà un sacco di gente e sarà quasi un giorno di festa». Lazcano, racconterà poi, non crede alle sue orecchie: «Ma dove vive questo ottuso, sulla luna?».
Dopo una sfuriata organizza picchetti armati sulle quattro strade che portano al paese, quattro come i punti cardinali. Quindi Lazcano è chiarissimo coi gudaris (il nome dei soldati baschi) comandati dei blocchi stradali: «Dovete rimandare indietro chiunque, senza eccezioni». Infatti quand’è giorno di mercato dalle campagne i contadini raggiungono la piazza principale di buon’ora con le loro cose da vendere.
• guernica si prepara
Quella non è l’unica decisione importante presa da Lazcano la mattina del 26 aprile. Sospende la partita di pelota del pomeriggio. Ubilla I e Ubilla III e i loro avversari Arrien e Cortabitarte si sfideranno un altro giorno, magari dopo la fine della guerra. Infine fa sgomberare la città da tutti i veicoli, facendoli parcheggiare subito fuori, sotto le fronde di un bosco di querce che li avrebbe nascosti, nel caso, agli occhi degli equipaggi dei bombardieri e dalle foto dei ricognitori.
Di sicuro il nuovo delegato sa che quei pochi mezzi sarebbero potuti diventare essenziali per sgomberare velocemente la popolazione. Dispone pure che, come consuetudine, l’arrivo degli aerei nemici venga annunciato dalle campane delle due chiese di Guernica suonate a martello.
Lui, del resto, l’attacco se lo aspetta da un momento all’altro, anzi gli sembra addirittura che gli insorti stiano temporeggiando troppo, e quindi agisce di conseguenza. Per arrivare in paese ha lasciato il giorno prima Zaldibar, ormai in mano al nemico, ed è passato per Arbacegui e Guerricaiz mentre erano cannoneggiate. Il nuovo delegato sa dunque bene tre cose, l’ultima delle quali conseguenza delle prime due: la guerra è vicinissima, Guernica è spacciata. L’unica strategia possibile è limitare i danni.
• Dall’altra parte
Lo stesso mattino, dall’altro lato del fronte, ci sono tre uomini con divise di diversi colori che cercano di fare il punto della situazione. Il più contrariato dei tre è di sicuro il comandante Von Richtofen, il nipote del Barone Rosso, e quel che più conta il capo della Legione Condor della Luftwaffe, l’aviazione di Hitler. A tenergli testa il generale Mola, che gode di tutta la fiducia di Franco. In mezzo, come spesso gli capitava, il generale italiano Piazzoni. Le ragioni dello scontro tra il tedesco e lo spagnolo sono le solite. I nazisti vorrebbero andare per le spicce, vincere velocemente la guerra senza farsi tanti scrupoli e poi tornare a casa. Questo è l’unico modo che vedono per risparmiare tempo e quattrini.
Franco però fa orecchie da mercante. Promette di accelerare le operazioni, concorda tabelle d’invasione con gli alleati e poi se ne infischia. Per lui è essenziale evitare quando possibile devastazioni e carneficine. Ed è pure logico; lui in Spagna deve restarci, per governare. Meno danni fa meglio è.
Torniamo ai tre ufficiali; Von Richtofen è inviperito, per l’ennesima volta l’esercito spagnolo non è stato capace di rispettare il piano di marcia. Le ricognizioni aeree di Guernica provano il passaggio delle truppe repubblicane, in precipitosa ritirata. Le strade a sud del paese devono essere bloccate se si vuole chiudere la rete e mettere nel sacco i gudaris. Questa volta nessuno si oppone alla strategia dell’ufficiale tedesco, dunque si decide che nella mattina i bombardieri attaccheranno le strade che dal fronte arrivano a Guernica, circa sette chilometri prima della città. Poi toccherà nel pomeriggio all’incrocio stradale a est della cittadina e al ponte su cui si è costretti a passare.
• primi aerei
A Guernica le campane fanno sentire la loro voce alle 16 e 30. Una vedetta scorge, in uno dei rari squarci tra le nuvole di quella giornata uggiosa e ventosa, la sagoma di un bimotore, e da l’allarme. Dopo pochi istanti il piccolo Heinkel tedesco si abbassa sul ponte e sgancia il suo carico, mancando il bersaglio di parecchie decine di metri.
Più in alto, a 3800 metri di quota ci sono tre Savoia Marchetti dell’aeronautica italiana. Al comando della piccola squadriglia il capitano Gori Castellani. Nelle tasche del suo giubbotto da volo ha i piani di un preciso lavoro. Su un foglio piegato in quattro c’è l’ordine: ”Bombardare il ponte di Guernica. Il paese per evidenti ragioni politiche non deve essere colpito”. Gori Castellani respira profondamente l’aria sporca d’olio e benzina della carlinga, si sporge, vede sotto di lui l’aereo tedesco, lascia che si allontani e poi, quando è in posizione apre i portelli ventrali e dà il comando ai suoi gregari; 36 bombe da 50 chilogrammi fischiano verso Guernica; dovrebbero distruggere il ponte, ma fanno cilecca. Il vento soffia forte e le spinge fuori bersaglio. La maggior parte esplode nei campi, alcune invece distruggono dei depositi della ferrovia, ma lasciano intatti i binari. Gori Castellani però questo non lo sa, lui dopo aver sganciato gli ordigni ha la vista coperta dalle nuvole. E comunque dà tutta potenza ai motori e torna alla base.
• Alle 5 della sera torna la calma
Lazcano è arrivato appena in tempo a Guernica. I suoi ordini si sono rivelati importantissimi per mettere in salvo la popolazione. Come sente le campane suonare la gente fugge sulle colline circostanti, oppure si mette al riparo negli otto rifugi della città. Sono stati costruiti a regola d’arte da Castor de Uriarte, l’architetto municipale. A dirla tutta, sette sono stati costruiti come Dio comanda, con le travi di pino del tetto coperte da lamiere d’acciaio e da sacchi di terra. L’ottavo invece è un po’ raffazzonato, perché la lamiera, nonostante sia stata più volte sollecitata a Bilbao, non è mai arrivata. Comunque, ora sono le 17, e il bombardamento sembra sia finito. Con pochi danni.
• Arrivano i condor
Invece no. Qualche minuto dopo, sul cielo sopra Durango, poco lontano, il tenente pilota Ricci gira in tondo con il biplano Fiat CR32. Ha l’ordine di fare da scorta a dei bombardieri tedeschi che vanno a Guernica. Ricci aspetta e alla fine vede molto più i basso un ricognitore tedesco. Pensa forse che i tedeschi hanno cambiato i piani e decide comunque di abbassarsi e scortarlo su Guernica, dove l’apparecchio della legione Condor scatta delle foto. Lo riaccompagna per un tratto, poi torna all’aeroporto dal quale è decollato. Appena sceso gli si fanno incontro gli ufficiali della base: «Ricci torna subito in volo, hanno telefonato i tedeschi, i loro Junkers sono in ritardo e li devi raggiungere».
Il caccia si dirige a tutto motore verso Guernica, però arriva in tempo solo per vedere 18 trimotori tedeschi che tornano indietro dopo aver lasciato cadere una ventina di tonnellate di bombe sugli obiettivi. Nessuna aveva colpito il ponte o la ferrovia, ma avevano devastato la città. Se Ricci guardasse l’orologio, come forse ha fatto, vedrebbe che sono le 18 e 30.
«Era stata un’operazione negativa - dirà poi a riguardo l’asso della luftwaffe Adolf Galland - l’abitato aveva subito gravissimi danni e noi avevamo l’ordine di evitare obiettivi civili. Nella legione Condor non si parlò mai volentieri di Guernica». Le bombe lanciate dai tedeschi avevano ucciso i civili, e gli spezzoni incendiari, piccoli ordigni che cadendo a terra penetravano negli edifici generando un fortissimo calore avevano incendiato le case, che erano costruite in gran parte di legno.
Infine chi era rimasto fuori dai rifugi, o era uscito anzitempo, era stato bersaglio dei Messerschmitt di scorta, che si erano lanciati in volo radente mitragliando tutto ciò che si muoveva.
Comunque, finito il bombardamento Lazcano fa evacuare la città. Che in breve, grazie agli automezzi nascosti nel bosco e alla ferrovia rimasta intatta, viene abbandonata. All’appello però mancano almeno 100 persone, probabilmente di più, circa 130. Di sicuro poco meno di 50 sono rimaste sepolte sotto il crollo del rifugio, quello ancora da completare, colpito da una bomba da 250 chili. Altre sono morte in un’ala dell’ospedale crollata. Altre ancora in un fosso lungo la strada, dove si erano nascoste dopo essere state sorprese dall’attacco.
• Le prime notizie
Il primo vero reportage sul Guernica è quello del quotidiano di Bilbao ”La Tarde”. Un anonimo giornalista, sul posto la mattina del 27, racconta nell’edizione pomeridiana di 18-20 aerei tedeschi che bombardano la città, di un numero imprecisato di vittime, tante ma comunque meno di quelle che verrebbe da immaginare guardando la città in macerie. Sul giornale la macchia di inchiostro grigiastro della censura copre il commento ai soccorsi. Sono lenti e male organizzati e questo è meglio tenerlo nascosto. Insieme a lui, o poco dopo, arriva a Guernica un gruppetto di 5 giornalisti stranieri (Steer, Corman, Holme, Watson e Monks), che vede ciò che ha visto l’inviato de ”La Tarde”, ma scrive articoli molto diversi. Il 28 aprile il mondo si sarebbe sentito raccontare un’altra storia. Quella diventata vera.
Ora si deve ricordare che in Spagna ci sono le migliori firme del giornalismo mondiale: Dos Passos, Bernanos, Orwell, Hemingway. E pure i corrispondenti arrivati a Guernica sono molto seguiti: Steer ad esempio pubblica i suoi lavori su ”New York Times” e ”Times”. Beh, questi giornalisti sostengono la causa repubblicana, senz’altro giusta, e quindi spesso si sentono in diritto di scrivere ciò che è più utile alla loro causa, invece di ciò che accade. Non solo, ma nella guerra civile spagnola l’attività di propaganda e di orientamento dell’opinione pubblica occidentale è importantissima, perché i governi delle altre democrazie europee non si sono impegnati in prima persona. I repubblicani (e chi li sostiene all’estero) dunque sperano che intervengano nel conflitto spinti dall’indignazione dei loro elettori.
E comunque i giornalisti italiani e tedeschi, che scrivono della stessa guerra ma dalla parte di Franco, sono ancora più faziosi. Quindi, per quanto le sparino grosse i giornalisti anglosassoni, nessuno ha un prestigio tale da poterli smentire.
• Il mito di Guernica
Torniamo ai nostri cinque corrispondenti di celebri e autorevoli testate europee. Trovandosi di fronte a una città rasa la suolo e a parecchi morti, confezionano servizi simili, in cui ci sono già tutti gli ingredienti del mito di Guernica. L’articolo di Steer, pubblicato il 28 sul giornale di Londra e su quello americano, è ricco di dettagli. Inventati. Secondo lui Guernica è una città aperta, ovvero priva di fortificazioni e esclusa dagli scontri per decisione dei belligeranti. Gli aerei tedeschi martellano per tre ore la città, sganciando 3000 ordigni, con l’obiettivo di distruggere la ”città santa” dell’indipendenza basca e demoralizzare la popolazione. C’è il mercato, quindi la gente è in piazza e ogni esplosione causa una carneficina. Ci sono parecchie centinaia di morti. L’aviazione tedesca cerca in ogni maniera la strage. Questo articolo, finito tra le mani della gente che conta, in America come in Inghilterra, e ripreso centinaia di volte da giornali minori, fa piovere sui Franco un uragano di proteste.
In realtà Guernica è un obiettivo militare, le vittime sono molte meno, il mercato non c’è. La casa de la Juntas, il monumento più rappresentativo, è una delle poche costruzioni che si salvano. Poco importa, da ora Guernica è la città martire.
Il Generale Franco, colto in contropiede, travolto dalle proteste degli altri paesi europei, nega. Nega proprio tutto, il bombardamento e pure l’esistenza di aerei tedeschi. E allora chi ha distrutto Guernica? Secondo Franco gli stessi baschi repubblicani. Hanno dato fuoco alla città per far cadere la colpa sugli insorti. Questo dice e questa versione sostiene fino alla morte. Quindi alle bugie, verosimili, di Steer e degli altri corrispondenti, Franco risponde solo con un’altra bugia, però incredibile.
• La moltiplicazione delle vittime
Intanto, il numero dei morti cresce. In ogni articolo aumentano di qualche unità. Corman su ”Ce Soir” parla di 800 morti. Monks (’Daily Express”) arriva di slancio a 1000. E più la catastrofe è grande più l’opinione pubblica si mobilita. Albert Einstein ad esempio firma un manifesto di protesta insieme al segretario di Stato del Presidente Hoover, Henry Stimson. Il 13 maggio i morti, per il madrileno ”ABC”, sono parecchie migliaia. Poi le approssimazioni si fermano: a Guernica ci sono stati 1654 morti e 889 feriti. Queste cifre, precise come fossero vere, sono false. Le menzogne sono attendibili solo se grandi e dettagliate. E infatti, in ogni articolo rievocativo, in ogni didascalia sotto il quadro che Picasso dipinse su commissione per commemorare la strage, su ogni libro di storia, si è da allora ripetuto, fino a farlo diventare vero: i morti di Guernica sono 1654. I feriti 899.
Andrea Greco