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 2004  marzo 08 Lunedì calendario

Il Sole-24 Ore, giovedì 4 marzo Se il Club di Roma esistesse ancora, oggi molto probabilmente sentenzierebbe che il pianeta ha i giorni contati

• Il Sole-24 Ore, giovedì 4 marzo Se il Club di Roma esistesse ancora, oggi molto probabilmente sentenzierebbe che il pianeta ha i giorni contati. Sarebbe difficile, infatti, per coloro che trent’anni fa, subito dopo la crisi petrolifera del 1973, elaborarono la teoria dei ”limiti fisici allo sviluppo”, pensare che ci sia un Paese che ogni anno, aumenta di un tasso a due cifre la propria domanda di energia. Se poi questo Paese è la Cina, il modello è destinato ad andare sicuramente in tilt. D’altronde, per costruire infrastrutture a più non posso, sviluppare un mercato domestico da centinaia di milioni di teste, decidere di diventare la piattaforma industriale del mondo intero, e vendere automobili come se fossero noccioline, bisogna bruciare energia. Tanta energia, molta più di quanta il Celeste Impero sia in grado di produrre con le proprie risorse naturali. Ecco perché, da quando Pechino ha imboccato il sentiero della crescita, la bilancia energetica mondiale è cambiata drasticamente. «Questa fame di energia ha scatenato una vera e propria corsa all’oro; Shell che investe 2,5 miliardi di dollari nel mezzo del Paese per cercare nuovi pozzi di petrolio dimostra che per i grandi dell’energia la Cina è un’ambiziosa scommessa da tentare a tutti i costi, anche se l’esito appare oggi ancora molto incerto», spiega Alain Sepulchre, ricercatore del ”Centre d’Etudes Francais sur la China contemporaine”.
• Eppure, fino solo alla metà degli anni ’90 la Cina era ancora autosufficiente sotto il profilo energetico. Ma poi il boom dell’economia ha stravolto tutti i vecchi equilibri trasformando nel giro di pochi anni il Paese in uno dei più voraci divoratori di petrolio, gas naturale e carbone del mondo intero. Un dato su tutti: nel 2003, la Cina ha sorpassato il Giappone diventando il secondo consumatore mondiale di petrolio alle spalle degli Stati Uniti: 5,46 milioni di barili al giorno. Consumi in espansione. vero sono solo un pugno (0,03) di barili in più di quelli consumati l’anno scorso dal Sol Levante. Ma gli esperti dicono che il gap tra i due giganti asiatici è destinato a salire rapidamente. Grazie alla continua espansione dell’economia, infatti, nel 2004 la Cina contribuirà per almeno un quarto alla crescita della domanda mondiale di oro nero portando i propri consumi a 5,79 milioni di barili al giorno, prevede l’International Energy Agency (Iea). «Non c’è dubbio. Nei prossimi anni, sarà la Cina a determinare l’evoluzione del mercato energetico mondiale a tutti i livelli: esplorazione, produzione, distribuzione» osserva Eva Chu, economista di Bnp Paribas Peregrine.
• Purtroppo per Pechino, però, madre natura non ha avuto nei confronti del Celeste Impero la stessa generosità mostrata con le altre due superpotenze, Russia e Stati Uniti. Nonostante le dimensioni sterminate del suo territorio, la Cina è infatti povera di giacimenti petroliferi. Per questa ragione, il nuovo colosso dell’economia planetaria è stato costretto orientarsi su un combustibile naturale di cui invece è piuttosto ricco, il carbone. Ciò spiega perché il secondo consumatore di energia del mondo abbia un portafoglio tanto sbilanciato: 65 per cento carbone, 25 per cento petrolio, gas 3, nucleare 1,4 e altre fonti 5,6 per cento. Vista la scarsità domestica di oro nero, per sostenere l’esplosione dell’economia nazionale negli ultimi anni Pechino ha aumentato in misura esponenziale gli approvvigionamenti di greggio dall’estero. Anche a questo riguardo i dati e le stime della Iea rendono bene la portata del fenomeno. Nel 2003, la Cina ha incrementato di oltre il 31 per cento le proprie importazioni di petrolio. E in futuro lo shopping oltremare di oro nero lieviterà sempre di più: se oggi l’import di petrolio copre circa poco più di un terzo del fabbisogno di greggio cinese, entro il 2030 questa quota supererà l’80 per cento, sostiene l’agenzia parigina.
• La politica energetica è diventata negli ultimi anni un affare serissimo per il governo che si è posto come obiettivo strategico una doppia diversificazione. «La Cina vuole ampliare il mix dei combustibili utilizzati per coprire il fabbisogno energetico nazionale: in questo quadro, entro il 2020, il contributo del gas naturale dovrebbe più che triplicare passando dall’attuale 3 al 10 per cento», dice Gualtiero Damia, esperto del settore energetico. Inoltre, Pechino sta tentando anche di allargare il più possibile le fonti geografiche di approvvigionamento. Oggi circa la metà del petrolio importato dalla Cina viene dal Medio Oriente. Troppo per due buone ragioni. Perché il Celeste Impero rischia di legare a doppio filo le sorti del proprio sviluppo industriale a una delle regioni del mondo a più elevata instabilità politica. E perché nel caso in cui un domani la Cina dovesse venire ai ferri corti con gli Stati Uniti (chi si occupa di geopolitica deve ipotizzare tutti gli scenari, anche i peggiori), per questi ultimi sarebbe un gioco da ragazzi chiudere i rubinetti del greggio bloccando le rotte navali che transitano dal Sudest asiatico.
• La realizzazione di questo ambizioso disegno strategico è stato affidato dal governo ai principali gruppi petroliferi nazionali: Petrochina-China National Petroleum (Cnpc), Cnooc e Sinopec. Le ”Tre Sorelle” hanno in mano oltre il 90 per cento del mercato dell’energia cinese, sono molto aggressive, si fanno concorrenza tra loro anche se hanno zone di influenza diverse: Petrochina e Cnpc coprono il Nord e il West del Paese, Sinopec il Centro e il Sud, mentre Cnooc è attiva prevalentemente nell’esplorazione offshore. Tuttavia, al di là delle rivalità, i loro sforzi hanno un fine comune: rompere a ogni costo la dipendenza energetica della Cina dal resto del mondo. Nuove fonti. I modi per raggiungere l’obiettivo sono due. O si cercano nuove fonti di approvvigionamento a tutto tondo - petrolio, gas naturale, gas liquefatto (Lng) - all’interno del Paese, come accaduto con i giacimenti di gas naturale scoperti nello Xinjiang. Grazie a un maxi-gasdotto lungo oltre 4mila chilometri che è già in costruzione, entro il 2005 il gas naturale potrà essere convogliato dalla remota provincia dell’Ovest fino sulla costa Est del Paese.
• Oppure bisogna andarsele a cercare all’estero, possibilmente non troppo distante da casa. Così si spiega il grande attivismo mostrato negli ultimi anni sul mercato internazionale dalle Tre Sorelle cinesi, che sono state protagoniste di uno shopping selvaggio sia di diritti di esplorazione che di giacimenti già a regime. E che al tempo stesso hanno messo in piedi una serie di accordi finalizzata a creare una rete di pipeline avente come centro di gravitazione proprio la Cina. Ciò significa estrarre gas naturale in Australia e in Indonesia, liquefarlo e trasportarlo sotto forma di Lng ai terminali del Guangdong e del Fujian per poi da qui convogliarlo nel resto del Paese tramite gasdotti. Oppure, realizzare delle joint venture nella vicina Russia o nelle Repubbliche Centro Asiatiche per costruire nuove pipeline che dovrebbero servire a trasportare gas e petrolio nel cuore dei centri urbani e industriali cinesi.
• Gli accordi. In questa logica finora Pechino ha firmato due importanti accordi. Il primo con la Russia per la realizzazione del più grande gasdotto del mondo: oltre 4.800 chilometri di lunghezza, 20 miliardi di dollari il costo previsto. La costruzione della ciclopica pipeline, destinata a portare il gas naturale dal Lago Baikal fino a Pechino, inizierà dal 2005. Il secondo con il Kazakhstan per la realizzazione di un oleodotto lungo oltre 3 mila chilometri che dovrà trasportare petrolio dai ricchi pozzi di Aktyubinsk fino a Urumqui, nel lontano West cinese.
• Un terzo progetto che sembrava ormai pronto a partire è invece diventato oggetto di un feroce braccio di ferro con il Giappone. La scorsa primavera, la solita Cnpc sembrava aver raggiunto un accordo con il gruppo russo Yukos per la realizzazione di un oleodotto per trasportare il greggio dai giacimenti siberiani di Angarsk fino ai terminali di Daqing. Ma Tokyo, la cui voracità di energia è pari a quella cinese, ha fatto una controfferta ai russi proponendo di finanziare la costruzione di una pipeline più lunga, costosa e alternativa a quella cinese per convogliare l’oro nero fino al porto di Nakhodka, sulla costa russa che si affaccia sul Mare del Giappone. A giudicare dalle dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dalle autorità russe, è probabile che alla fine la spunti chi è disposto a offrire di più in termini finanziari, ovvero il Giappone. Tuttavia, quale che sia l’epilogo della disputa petrolifera sino-giapponese, l’incidente di Angarsk dimostra quanto sia importante e complessa al tempo stesso la gestione politica di questi maxi-progetti energetici trasnazionali.
• Non è un caso, infatti, che da quando l’approvvigionamento energetico è diventato una questione vitale per la sostenibilità della crescita economica cinese, per Pechino l’Asia Centrale si sia trasformata all’improvviso in una regione di importanza strategica cruciale. Gli sforzi prodotti di recente dal governo cinese per rafforzare la Shanghai Corporation Organization - un’alleanza tra Cina, Russia, Kazakhstan, Kirgyzstan, Tagikistan e Uzbekistan nata per fini di sicurezza comune contro il terrorismo islamico, ma che si è via via occupata sempre di più di cooperazione economica regionale - ne sono la dimostrazione. Energia come problema politico, dunque, oltre che economico per la Cina di domani. Una Cina che, se le previsioni dei più ottimisti sulle prospettive di crescita del Paese si avvereranno, entro il 2020 potrebbe diventare la prima potenza economica mondiale (oggi è la quinta), scavalcando anche gli Stati Uniti. Luca Vinciguerra