Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 8 marzo 2004
la Repubblica, giovedì 26 febbraio A cena alla ”Trainera”, una trattoria della calle Lagasca che frequento da quasi una vita, tre amici spagnoli mi dicono in coro: «José Maria Aznar è il nostro Berlusconi
• la Repubblica, giovedì 26 febbraio
A cena alla ”Trainera”, una trattoria della calle Lagasca che frequento da quasi una vita, tre amici spagnoli mi dicono in coro: «José Maria Aznar è il nostro Berlusconi. La stessa protervia, la stessa vocazione autoritaria». Ma il giudizio è profondamente sbagliato. vero, i due hanno qualche tratto in comune. L’aggressività nel confronto con gli avversari politici, l’intolleranza delle critiche, l’autosoddisfazione.
Ma per il resto, quante ed enormi differenze. L’uno, lo spagnolo, è proprio quel che Berlusconi detesta: un politico di professione, freddo, scostante, che s’è man mano rivelato come uno dei più rocciosi e capaci uomini di governo apparsi in Europa da molto tempo a questa parte. Mentre l’italiano resta, dieci anni dopo, quel che era al momento della sua ”entrata in campo”. Un politico improvvisato, e perciò arruffone. Un dilettante che s’affida esclusivamente al suo istinto populista. E tutto sommato molle: tracotante solo a parole, nei fatti incapace di tener testa sinanche al leghista Calderoli. No, José Maria Aznar è fatto di un’altra pasta. E i successi dei suoi governi di centrodestra sono indiscutibili: stabilità politica, crescita economica, prestigio internazionale.
• Nessuna meraviglia quindi che alle elezioni politiche del 14 marzo la maggioranza degli spagnoli - così dicono i sondaggi - voterà per la terza volta consecutiva a favore del partito di Aznar. Voterà per il Partido popular, ma non potrà votare per Aznar: perché questi non si ripresenta. Si fa da parte, rinuncia al potere. L’aveva annunciato dopo la vittoria alle elezioni del 2000, come una necessaria, salutare misura d’avvicendamento al vertice del partito e del governo. E dopo aver insediato con un rituale quasi monarchico il successore, che è Mariano Rajoy, uno dei suoi fedelissimi, adesso mantiene l’impegno.
Credo che il gesto piaccia agli spagnoli, sempre sensibili a quel che essi chiamano il «porte digno» - l’atteggiamento severo, dignitoso - dell’uomo pubblico. L’altra sera a cena, persino i miei amici anti-aznariani hanno dovuto ammettere d’esserne impressionati. E anche lo storico Javier Tusell nel suo libro L’Aznarato, un libro molto critico nei riguardi dell’era Aznar, vede in quest’uscita di scena una specie di «grandeza»: qualcosa che era difficile attendersi da un personaggio giunto al governo del paese, otto anni fa, privo del minimo carisma, l’aspetto scolorito, l’eloquio impacciato. «Don nadie» (il signor nessuno), lo scherniva allora il leader socialista Felipe Gonzàlez. E ancor oggi, Tusell lo definisce nel suo libro con un aggettivo sferzante: ”grigiastro”.
• La prova che il ”grigiastro” ex ispettore della Finanze, il signor nessuno, abbia ben governato, la ho in questi giorni a Madrid quando leggo sui giornali che i sondaggi sul voto del 14 marzo danno la vittoria al centro-destra. Perché un anno fa il centro-destra sembrava spacciato. Gli spagnoli che nel febbraio 2003 si dichiaravano contrari alla guerra in Iraq, e quindi avversi alla politica del governo Aznar (una politica di pieno appoggio agli Stati Uniti e alla guerra), erano infatti il 92 per cento. Non il 60, il 70, il 75: erano il 92.
Eppure quell’avversione sembra adesso essersi sciolta come neve al sole. Le imponenti manifestazioni pacifiste che la sinistra portò in strada un anno fa, e quelle riapparse nell’ultima settimana in varie città spagnole (con qualche migliaio di partecipanti al posto delle centinaia di migliaia d’un anno fa), non hanno provocato spostamenti decisivi nelle intenzioni dell’elettorato. I sondaggi indicano infatti che dovendo scegliere tra pacifismo e qualità del governo, gli spagnoli sono orientati a scegliere la seconda.
• Certo, definire cosa sia esattamente un buon governo non è mai facile.
Ma c’è una frase di Walter Lippmann, un maestro del giornalismo americano, che può aiutare ad intendersi: «Ogni comunità», diceva Lippman,«aspira ad essere governata. Autogovernata se possibile, ben governata se la fortuna l’assiste, ma in ogni caso governata». E in questi otto anni José Maria Aznar non s’è perso in chiacchiere. Ha governato. Ha avuto lo spirito d’iniziativa, la costanza, la competenza che sono mancati invece a tanti governi europei.
L’economia spagnola ha spiccato infatti - in direzione liberista, ma in una cornice di stabilità sociale - uno sbalorditivo balzo in avanti. L’aumento della ricchezza è risultato il doppio di quello ottenuto mediamente negli altri quattordici paesi dell’Unione europea. S’è avviato un circolo virtuoso, e la Spagna ne è emersa come uno dei paesi più dinamici e creativi del passaggio di secolo. Sicché gli spagnoli sono oggi più prosperi di otto anni fa. Non a caso i concessionari delle case automobilistiche hanno brindato l’altro giorno al loro massimo record, 99.000 auto vendute a gennaio.
La prima cosa che si coglie a Madrid in questa vigilia elettorale, è dunque la previsione d’una possibile nuova vittoria del centro-destra. Ma poi affiorano altri segnali, altri umori: e a poco a poco ci s’accorge che l’immagine della Spagna solida e tranquilla cui tutti avevamo guardato con ammirazione sino a un anno fa, si è adesso bruscamente, inaspettatamente aggricciata. Al punto che ho la sensazione di non aver mai trovato questo paese, negli ultimi dieci anni, così concitato e diviso.
• Intanto, il tumore dei nazionalismi (che i sociologi potevano definire sino all’altro ieri un «disordine a bassa intensità») minaccia la metastasi: perché adesso anche dalla Catalogna salgono richieste sempre più somiglianti a quelle già da tempo massimaliste, vale a dire separatiste, del Paese basco. In più, ecco i terroristi dell’Eta inserirsi di forza nella campagna elettorale. Come ad adombrare l’idea d’una intesa col governo regionale di Barcellona, che è capeggiato dai socialisti catalani, l’Eta s’è infatti impegnata a sospendere gli attentati nella sola Catalogna. Col risultato che l’ombra d’un dialogo sotterraneo con i terroristi è ricaduta sull’intero partito socialista, indebolendo le già scarse speranze d’una vittoria delle sinistre.
Ma pur mettendo da parte - data la sua cronicità - il problema dei nazionalismi, è la vita politica spagnola nel suo complesso che si presenta molto più turbolenta e aggressiva di com’era alla vigilia delle elezioni del 2000. Allora, la ricerca di consensi da parte dei popolari e dei socialisti aveva puntato verso il centro: e infatti le campagne elettorali dei due partiti avevano avuto accenti pragmatici, misurati, rassicuranti. Mentre oggi è in atto una forte polarizzazione. Una tendenza allo scontro, che a tratti - soprattutto per la virulenza del linguaggio con cui i due schieramenti politici si scambiano ogni giorno accuse e contraccuse - sembra configurare una spaccatura all’italiana.
Ne parlo con il sociologo Arturo Pérez-Dìaz, autore della Lezione spagnola, un libro di cui recentemente s’è molto discusso in Italia.
• Introdotto da Michele Salvati in modo da marcare le differenze tra la vita pubblica spagnola e quella italiana, il saggio di Pérez-Dìaz descrive il decorso della miracolosa transizione post-franchista. La capacità di compromesso delle varie famiglie politiche, lo sforzo che esse fecero per impedire che la memoria della guerra civile avvelenasse la nascente democrazia spagnola: l’affermarsi d’un atteggiamento di moderazione sull’intera scena pubblica, un progressivo ”incivilimento” della politica. Tutto quel che in Italia, commentava Salvati, purtroppo non esiste.
Ma quando vado a trovarlo e gli dico che avverto nella politica spagnola una tensione, una frattura che non m’aspettavo, Pérez-Dìaz mi dà subito ragione. «Sì, è così», dice: «S’ascoltano linguaggi sempre più inquietanti. Com’è ovvio, l’ambito in cui la radicalizzazione si presenta più forte, sino a comunicare l’impressione d’un dramma incombente, è quello dei nazionalismi. Proponendo un piano che farebbe delle loro province un ”libero stato” semplicemente ”associato” alla Spagna, i nazionalisti baschi puntano adesso non più a una modifica bensì alla rottura del quadro costituzionale. E il giorno in cui a Madrid ci fosse un governo di minoranza, la crisi potrebbe farsi gravissima...».
• «Il fatto», continua Pérez-Dìaz, «è che con le elezioni regionali del novembre scorso in Catalogna, e la formazione d’un governo delle sinistre (socialisti, repubblicani e verdi), il quadro s’è improvvisamente intorbidato anche a Barcellona. Non solo Luis Carod-Rovida, leader del secondo partito nel governo catalano, Sinistra repubblicana, ha incontrato i terroristi dell’Eta: ma quando polemizza con Madrid, lo fa al grido di ”No pasaran”. Il leader socialista, Pasqual Maragall, parla anche lui di 1936. Nelle manifestazioni contro la guerra in Iraq si sono riviste dopo quasi settant’anni le bandiere della Repubblica, e sono risuonati i vecchi slogan sulle ”due Spagne”. Insomma, c’è gente che sta giocando col fuoco: e questo è qualcosa di nuovo, d’imprevisto».
• C’è una differenza quindi, e non da poco, tra la Spagna d’un anno fa e quella d’oggi. Un anno fa il morbo nazionalista cercava d’aggredire l’organismo d’un paese politicamente sano. L’espansione economica, il patto anti-terrorismo firmato nel 2001 da popolari e socialisti, i grandi cortei che dopo ogni attentato dell’Eta sfilavano al grido di ”Adesso basta”, fungevano da anticorpi rispetto alla spinta disgregatrice del nazionalismo basco. Mentre oggi la Spagna appare più confusa, vacillante.
Non perché i suoi governi non siano riusciti a risolvere la questione basca («Quel che affascina e spaventa nel problema basco», scriveva una ventina d’anni fa Juan Aranzadi, «è che ad esso non c’è soluzione»): anzi, dal punto di vista strettamente operativo il governo può vantare un certo successo, visto che l’Eta è riuscita ad ammazzare l’anno scorso solo tre persone, e non la trentina che ne aveva ammazzato mediamente negli anni scorsi.
• No, gli annunci di tempesta sono altri. Il riaffacciarsi delle contrapposizioni ideologiche, e il fatto che i due schieramenti politici stiano conducendo buona parte della campagna elettorale proprio sul terreno dei nazionalismi. I popolari sbandierando il pericolo della disgregazione, ed ergendosi a soli garanti dell’unità spagnola. E i socialisti tentando, con lo slogan dell’’Espana plural”, con uno zoppicante progetto di riforma costituzionale in senso federalista, di pescare voti nelle regioni dove più arde la febbre del separatismo.
questo, se non mi sbaglio, quel che Pérez-Dìaz intendeva per «giocare col fuoco».
Certo, le campagne elettorali arroventano ogni clima politico. Tra qualche mese, archiviato l’esito delle elezioni, tutto potrebbe rientrare nella normalità. Ma ripeto: non avevo mai trovato la politica spagnola, da molti anni a questa parte, così perturbata e vociante. Così incapace di tornare a dibattere con la misura, la razionalità, il pragmatismo che ci avevano indotti a parlare d’una ”lezione spagnola”.
Sandro Viola