Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 23 febbraio 2004
il manifesto, giovedì 15 gennaio Jean Cocteau cominciò a ordinare i frammenti che compongono Oppio nel letto di una clinica, a Saint-Cloud
• il manifesto, giovedì 15 gennaio
Jean Cocteau cominciò a ordinare i frammenti che compongono Oppio nel letto di una clinica, a Saint-Cloud. Era il dicembre del 1928: aveva circa quarant’anni e da cinque cercava di disfarsi dell’ingombrante ricordo di Raymond Radiguet, il primo tra i suoi «figli adottivi», il solo, forse, che avesse amato veramente e che, come Jean Marais, sembrava in grado di splendere di luce propria. Si erano conosciuti «ad una mostra, con Max Jacob», il tifo e l’abuso di alcolici lo avevano soffocato, ventenne, la notte di Natale del 1923. «Dopo la morte di Radiguet», scriverà in una lettera indirizzata a Jean Paulhan, «sono morto anch’io. Tutto mi sembra uguale, e se mi capita di pubblicare ancora qualche riga, è solo a causa degli amici che mi circondano, e mi organizzano una vita artificiale». A Saint-Cloud, in compagnia di Raymond Roussel, anche egli ospite ingrato, pronto a rimangiarsi l’ennesimo proposito di farla davvero finita con la mescalina e i barbiturici, Cocteau soffiò sulla fiamma del proprio malessere, nella speranza di farne scaturire quella specie di «disordine creativo» grazie al quale più di una volta, in precedenza, era riuscito a liberare la propria indole di geniale pasticheur dalle gabbie di una logorante e «maniacale diligenza nello scrivere».
• Come l’astinenza da oppio (sull’«opiophilie coctélienne», Emmanuelle Retaillaud-Bajac ha scritto La Pipe d’Orphée. Cocteau et l’opium, Hachette, 19 euro, 238 pagine) - annota ancora Cocteau - anche quella particolare forma di «poesia allo stato puro», che talvolta sembra coincidere con il caos, talaltra, secondo le parole di Antonin Artaud, con una vera e propria assenza d’opera, può dare «un senso di nausea a colui che la sente crescere dentro». Rimettendo in circolo una dose, non di rado eccessiva, di «malessere, lo mescola al paesaggio, all’amore, al sonno, ai nostri piaceri». Avvinto da questa febbre bianca, lo scrittore finisce per «non sognare più», muovendosi «sulle sabbie mobili e qualche volta la sua gamba affonda nella notte oscura della morte».
• Mentre «il mondo si disindividualizza e si orienta sempre più verso il plurale», ricorda Jean Cocteau, l’autore continua ad «esasperarci» con la sua insistente presenza, con le sue rivendicazioni, accontentandosi di riuscire a rinchiudere - quando gli riesce - la propria vitalità, e, con essa, ogni possibilità di «esplorare il mondo», in una forma qualsiasi, declinata secondo la ben nota litania della specie e dei generi. Come «l’oppio deve renderci, quel tanto che basta, visibili all’invisibile, facendo di noi degli spettri che spaventano altri spettri», così la scrittura dovrebbe abbandonarci alla deriva, in balìa di processi creativi che sarebbe illusorio pensare di dominare semplicemente «facendo ordine nel paradiso della propria ragione», armati di retorica e di tante buone intenzioni.
• Si tratta, anche qui, fin dove possibile, di sottrarre, di piegare, di produrre tagli nascosti, piccole lacerazioni nell’ordine del discorso e nelle concrezioni che si vanno via via formando, facendo scorrere, sotto l’apparenza di un olio ben tirato sulla tela (il neoclassicismo, il ritorno all’ordine: parole chiave per Cocteau), le ombre di quei «corpi dalle superfici nere» che avevano attirato lo sguardo di Walter Benjamin, spettatore dell’Orfeo portato in scena a Parigi, da Georges e Ludmilla Pitoëff, nel giugno 1926. Forse, si lascia andare Cocteau (richiamandosi implicitamente alle ben note parole del Tempo ritrovato: non ci sono libri da «inventare», ma solo segni da tradurre, per questo «il dovere e il compito di un grande scrittore sono quelli di essere un traduttore») si potrebbe arrivare ad immaginare una traduzione di Proust nelle forme elementari di una lingua «selvaggia» in cui «pagine e pagine si vedrebbero ridotte a una riga sola: Swé, ad esempio, significherebbe Dalla parte di Swann»... Raggiunto quello stato di vuota euforia, Cocteau riprese a scrivere e a disegnare senza sosta, confessando, in una dichiarazione fin troppo gridata per non apparire sospetta, di volersi dedicare, accantonando ogni altro «svago», esclusivamente a «letture di verbali, di matematica, di geometria, di testi specialistici».
• «Quando disegno», annota, «l’infermiera mi dice: ”Lei mi fa proprio paura, ha una faccia da assassino!”». Scrivere per lui significa «disegnare, legare le linee in modo che diventino scrittura, o slegarle, in modo che diventino disegno. Scrivo: cerco di delimitare esattamente il profilo di un’idea, di un gesto. Tutto sommato, accerchio fantasmi, trovo i contorni del vuoto, disegno». Lo stile, in fondo, come sottolineato a suo tempo da Roland Barthes, è sempre qualcosa di grezzo, uno scarto in cui consiste, propriamente, «la ”cosa” dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione, la sua solitudine». Ciò detto, è sempre possibile che «un autore preferisca la sicurezza dell’arte alla solitudine dello stile».
Cocteau avrebbe voluto portarla davvero fino in fondo questa «mancanza», questa lingua senza scarti, resa comune, non dall’automatismo meccanico da cui viene generata (un indizio in tal senso, è il rapporto, che resterà sempre problematico, tra Cocteau e gli esperimenti linguistici delle avanguardie), ma dalla sua materia «fatta di cifre, di note d’albergo, di panni sporchi»: quella materia che già nella narrazione di Le Potomak, nel 1919, gli aveva consentito di individuare l’origine del suo desiderio di scrittura in quelle «crisi in cui è lo stesso organismo che si vede cambiare». Ci riuscì solo in parte, servendosi di tutti i mezzi espressivi che gli passavano tra le mani, e di tutti i campi in cui gli fu concesso di transitare (il circo, la musica, la grafica, il cinema, lo sport).
• A questo ultimo aspetto di creatività eccentrica, che costituisce il nucleo forte di un Cocteau meno noto, è dedicato il secondo numero della rinnovata serie dei ”Cahiers Jean Cocteau”, edito da Passage du Marais, per la cura di Brigitte Borsaro. Il volume, titolato ”Jean Cocteau: le cirque et le music-hall” (2003, euro 29), raccoglie testi, immagini, documenti rari che testimoniano anche aspetti ormai poco noti del suo universo: dagli allenamenti col pugile Al Brown, che lo scrittore convinse a tornare sul ring, portandolo a riconquistare il titolo di campione del mondo dei pesi gallo, all’esperienza delle canzonette, quando fare canzone significava misurarsi con Ella Fitzgerald, Edith Piaf e Charles Trenet, fino ai numeri dei circensi fratelli Fratellini o alla seduzione del travestito americano Barbette, a cui dedicò un memorabile articolo, pubblicato, nel luglio 1926, sul numero 154 della Nouvelle Revue française.
• «Vander Clyde Esq. alias Barbette, è un giovane americano di ventiquattro anni, dall’aspetto un po’ ingobbito come gli uccelli, l’andatura leggermente impedita (senza dubbio per via dell’estrema piccolezza di mani e piedi). La cicatrice che solleva il labbro superiore sopra una dentatura irregolare gli viene da una caduta dal trapezio. Soltanto la stupefacente arcata sopraccigliare che sovrasta occhi inumani fa cadere l’attenzione sulla sua persona, anonima quanto poteva esserlo, per strada, Nijinsky.... Persino alla fine del trucco, prezioso come una scatola di matite nuova fiammante, con le mascelle ricoperte da una pellicola di smalto luccicante, il corpo imbianchito e irreale, questo bizzarro giovane demone, questo Saint-Just in sogno, questo cocchiere della morte resterà un uomo, legato per un capello al suo doppio. Soltanto quando si calcherà in testa la parrucca bionda, fermata da un semplice elastico intorno alle orecchie, assumerà - una manciata di forcine strette fra le labbra - le minute pose di una donna che si pettina. Si alza, cammina, si infila gli anelli. La metamorfosi è compiuta. [...] La ragione del successo di Barbette viene da quel suo rivolgersi agli istinti di numerosi pubblici come se fossero un uomo solo e dal riunire oscuramente esigenze contrastanti. Perché piace a quelli che vedono in lui la donna, a quelli che indovinano in lui l’uomo e a quelli che hanno l’animo toccato dal sesso soprannaturale della bellezza. Dopo anni di vago americanismo, quando la capitale degli Stati Uniti ci lasciava ipnotizzati, mani in alto come davanti a un revolver, il numero di Barbette mi mostra finalmente la vera New York, con le piume di struzzo del suo mare e delle sue fabbriche, i suoi edifici di tulle, la sua precisione, la voce da sirena, e tutti i suoi addobbi, le sue piume d’elettricità».
• Abbandonata la clinica, Cocteau ricominciò a muoversi circondato da una schiera di adulatori, che se ne contendevano i favori. «Le persone che mi avvicinano e scoprono i miei piccoli segreti», confesserà con un poco di amarezza, «mi compiangono, si indignano: non conoscono i vantaggi di una leggenda assurda. Anche quando mi si brucia, si brucia un manichino che non mi rassomiglia affatto. Una cattiva reputazione dovrebbe essere mantenuta con più amore e più lustro di una ballerina».
Tra questi ammiratori appassionati, «che spesso si arrampicavano sui lampioni per riuscire a scorgerlo in lontananza», vi era un giovane che all’anagrafe risultava col nome Jean-Maurice Ettingausen, ma che tutti conoscevano col cognome della madre, Sachs. Maurice Sachs era nato nel 1906 da una famiglia di origini ebraiche. Quasi non conobbe suo padre, e ancora bambino era stato affidato a un collegio. Sognava di fare l’editore. Nel frattempo, si arrangiava come garzone, e, dopo molte insistenze, riuscì a trovare un impiego presso la Librairie des Quatre Chemins, in rue Godot des Quatre Chemins. Nel 1928, sarà proprio Sachs, in una piccola collana da lui diretta presso la libreria di Vadimir Walter, a pubblicare Il libro bianco, paravento dietro al cui anonimato (non lo firmerà mai, al contrario di quanto fece André Gide, con la ristampa, nel 1924, di Corydon) Cocteau si sentì libero di gridare che «l’amore va reinventato», la vita rivissuta, la sofferenza allontanata. Niente nomi, solo un titolo, una storia, una confessione, scritta nel 1927, degna di finire sotto i ferri della peggiore censura.
Il libro bianco è una raccolta di esperienze pericolose, quelle esperienze, vi si legge, che «il mondo accetta nel campo dell’arte, perché non le ritiene pericolose, ma condanna nella vita», confessione estorta a se stesso, perché qualcuno, come in uno specchio, vi si riconosca.
• Il primo incontro tra Sachs e Cocteau avvenne nel 1924. Da poco, Cocteau aveva riabbracciato la fede cattolica. «Non c’è dubbio», ricorda Sachs nella Decade dell’illusione. Parigi 1918-1928, (volume ora tradotto da Manuela Maddamma per Meridiano zero, 2002, 13,50 euro, 240 pagine; segnalo che la versione si appoggia su quella in lingua inglese, che si può a tutti gli effetti considerare l’originale, di Gwladys M. Sachs, The Decade of illusion, Paris, 1918-1928. Knopf, 1933; mentre il testo in lingua francese, originariamente intitolato L’Age tricolore, apparve nel 1936 per Denoël et Steele), «che la conversione di Cocteau, che non era veramente tale poiché egli aveva ricevuto il battesimo cattolico alla nascita, fece sensazione. La gente di mondo sorrideva e si chiedeva se avrebbe preso i voti cattolici, si preoccupavano per una riconciliazione così piena d’insidie. Solo Maritain sosteneva questa nuova fede. I giovani, sbalorditi, videro inginocchiarsi colui al quale così spesso loro stessi avevano affidato l’anima. Questa conversione addensò nubi pesanti e tempestose. Cocteau, che appariva come l’indipendenza fatta persona, si decretava dipendente. Lo si emulò, in un vasto delirio di entusiasmo e abnegazione».
• Trascinò Sachs con sé. Gli fece conoscere i coniugi Jacques Maritain e Raïssa Maritain che, nella loro casa di Meudon, ricevevano molte visite, agevolavano altrettante conversioni, dispensavano un numero indefinito di sacramenti, in virtù di uno speciale privilegio accordato loro dal papa. Molti intellettuali, spesso di origine ebraica, corsero da loro, in quegli anni, e scelsero la conversione. A titolo d’esempio, si possono ricordare Max Jacob, Jean-Pierre Altermann, che divenne consigliere spirituale di François Mauriac, ma anche Pierre Reverdy (una interessante fonte di informazione, a tal proposito, è il volume di lettere inviate da Sachs ai Maritain, Correspondance. 1925-1939, a cura di Michel Bressolette e René Mougel, Gallimard, Collection Les Cahiers de la NRF, euro 45, pp. 334).
Il 29 agosto, anche Sachs ricevette il battesimo. Fu Cocteau a fargli da padrino. Personalità inquietà, Sachs era stato per un certo periodo in cura presso il dottor René Allendy, un omeopata amico di Artaud, precursore sui generis della psicoanalisi in Francia, cultore di discipline esoteriche, nonché autore di studi ancora oggi tradotti in molte lingue. Nel 1933, Sachs sarebbe riuscito ad ottenere la direzione della collana ”Detective” da Gallimard. Avrebbe pubblicato ancora dei libri (forse solo Il sabba, edito in Italia da Sugar negli anni ’70, merita di essere ricordato), ma si sarebbe allontanato sempre più da Cocteau, finendo la sua vita miseramente. Partito come volontario per la Germania, iniziò a collaborare come delatore con la Gestapo. Aver venduto l’anima al diavolo, non gli salvò la vita. Il 14 aprile 1945 venne fucilato presso il campo di reclusione di Fuhlsbüttel. Nessuno, pare, rivendicò mai i resti.
Marco Dotti