Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 10 ottobre 2001
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Italia
Dimenticate quello che avete imparato a scuola
• Dimenticate quello che avete imparato a scuola. Il mondo non è una sfera. O perlomeno non è sempre stato tondo. E poi chi ha detto che sopra c’è il Nord e sotto il Sud? Per lungo tempo è stato naturale segnare l’Est in cima. Persino i continenti si sono moltiplicati solo da pochi secoli, prima erano tre, come i figli di Noè. Solo qualche sovversivo ipotizzava l’esistenza di un quarto mondo. Siete confusi? Bene. Motivo in più per visitare, fino al 6 gennaio prossimo, la mostra di Milano sulla storia della cartografia ”Segni e sogni della Terra”, l’unico appuntamento di una manifestazione che celebra i cent’anni di fondazione della casa editrice De Agostini. Camminando tra astrolabi iraniani del Cinquecento e imponenti mappe medioevali, navigando a vista nei saloni della mostra di Palazzo Reale si capirà perché, pur senza risolvere equazioni matematiche, lo spazio e il tempo sono dimensioni interdipendenti. Non c’è bisogno di una lavagna per dimostrarlo, basta il buon senso.
Per gli antichi greci il mondo era poco più grande del Mediterraneo, perché poco più del Mediterraneo conoscevano. Allo stesso modo, gli indigeni della Polinesia probabilmente immaginavano che in tutto il Pianeta le uniche terre emerse fossero i pochi atolli che potevano raggiungere con le piroghe, perché solo di questi pochi scogli avevano effettivamente conoscenza.
Il mondo è stato a lungo la più astratta delle cose conconcrete. C’era chi lo vedeva piatto e tondo come una pizza, chi a forma di scrigno, con sopra un coperchio di stelle, chi rettangolare, come un enorme vassoio.
• Lo sforzo per raffigurare il proprio ambiente è sempre stato elevato, in ogni epoca, ma anche le distorsioni sono state tante e macroscopiche. «Congetture, possibilità, teologie, convenienze politiche, illusioni. A lungo - spiega Marica Milanesi, docente di Storia della geografia all’Università di Pavia - le carte geografiche erano un mosaico nel quale si dovevano far combaciare diverse tessere. Solo partendo da questo punto di vista lo studioso oggi può comprendere alcuni presunti misteri. Per esempio, i cartografi di solito amplificavano le scoperte dei navigatori nel XVI secolo. Quindi sulle carte apparivano coste che dovevano essere ancora esplorate. Il motivo di questo comportamento era principalmente politico. Scoprire un territorio spesso significava avere il diritto di sfruttarlo, e quindi si cercava di farlo apparire il più grande possibile». Per lo stesso motivo, mentre ancora echeggiava il grido «Terra!» di Colombo, erano già tanti quelli che sostenevano che in America c’erano andati da decenni.
• Inoltre le carte topografiche, i mappamondi, sono stati una metafora della realtà, e quindi spesso della realtà hanno assunto vezzi, idee, preconcetti. E anche necessità. La conferma a queste teorie gli storici della geografia l’hanno trovata sul campo. Il professor Cosimo Palagiano, dell’Università di Roma, racconta: «C’era un solo mezzo idoneo per scoprire come i nostri antenati più lontani cercassero di rappresentare il territorio sul quale vivevano. Era quello di rifarsi agli usi delle tribù primitive che ancora popolano il nostro pianeta; le scoperte che ne sono scaturite sono risultate molto interessanti». Nel deserto si utilizzavano mappe dove erano riportati con grande evidenza pozzi e oasi. Gli indigeni delle isole Marshall, nei loro rudimentali portolani, davano importanza a venti costanti, banchi di pesce e secche. «Ovviamente - continua il professor Palagiano - il più grossolano degli approcci sarebbe quello di immaginare il frutto di questi primitivi esercizi come qualcosa di molto simile a quello che ora consideriamo una carta geografica. Come prima cosa veniva sempre considerata una porzione di territorio assai ristretta, del quale però era essenziale conoscere ogni segreto, perché vivendo a stretto contatto con la natura l’orientarsi era essenziale per la sopravvivenza. La realtà è raffigurata così come appare agli occhi dei primitivi. Non c’è una grande astrazione. I singoli punti di riferimento sono descritti dettagliatamente».
• I primi reperti cartografici che conosciamo sono quelli provenienti dalla Mesopotamia. In queste primitive mappe l’elemento cardine è l’acqua, perché dove c’è questo elemento si possono rendere fertili i campi, si può sviluppare un insediamento. Ai babilonesi si deve pure la prima carta del mondo, dove le terre emerse sono raffigurate come un’isola circondata dal mare. Nelle società ramificate la misura e la rappresentazione del territorio diventa essenziale. A volte però le carte non ci sono arrivate e dunque oggi possiamo solo immaginarne la struttura. Un esempio per chiarire. Possediamo pochi reperti cartografici di epoca egizia, ma sappiamo che la civiltà delle piramidi aveva già in uso un sistema di tassazione basato sulla proprietà fondiaria e faceva perno su funzionari che si dedicavano alla misurazione e alla stima delle proprietà immobiliari per stabilire l’ammontare delle imposte.
Solo nel mondo classico la cartografia diventa una disciplina finalmente liberata da ragioni puramente pratiche, le uniche che fino ad allora avevano spinto l’uomo a rappresentare e misurare un territorio. Da quel momento, oltre alla cartografia navale (le mappe per i naviganti erano un concentrato di informazioni sugli approdi sicuri, sulle coste etc.), si sviluppa una prima ricerca teorica, che ha come oggetto l’intero Pianeta. La Terra viene finalmente studiata nel suo complesso e, insieme al problema della sua origine, si cerca anche di comprenderne la forma, di misurarne le dimensioni.
• A partire dal IV secolo a.C. la geografia viene finalmente correlata ad altre discipline, come la matematica e la geometria. Eratostene, direttore della Biblioteca di Alessandria, non solo sostiene la sfericità della Terra ma ne calcola la circonferenza. Ci riesce misurando le differenze dell’ombra proiettata da un’asta verticale a mezzogiorno del solstizio d’estate ad Alessandria e a Siene, due città che lui supponeva sulla stessa longitudine. Le differenze di lunghezza delle ombre in proporzione a quella delle aste, messe in relazione con la distanza tra le due città, permise un calcolo ben approssimato. Inoltre, per la sua rappresentazione del mondo, utilizza un reticolato di linee orizzontali e verticali che sono un’evidente intuizione del sistema di paralleli e meridiani introdotto molti secoli più tardi. Dopo Eratostene, Tolomeo elabora un insieme strutturato di opere astronomiche e geografiche. I suoi studi e le sue conclusioni rappresenteranno per quindici secoli il principale punto di riferimento dei cartografi impegnati a rappresentare il mondo.
Nell’antica Roma lo sviluppo degli studi sulle dimensioni del Pianeta subisce una brusca battuta di arresto. Con il consueto pragmatismo i romani svilupparono piuttosto una serie di metodi per la corretta misurazione dei terreni e istituirono una classe di funzionari, i Mensores, che avevano il compito di determinare l’ampiezza degli appezzamenti, tracciare le planimetrie dei nuovi insediamenti urbani e assegnare i campi da coltivare disponibili ai nuovi coloni e ai veterani delle campagne di guerra.
• Tutti i rilevamenti e gli estimi di questi geometri ante litteram erano fatti partendo da punti di riferimento sulle linee Est-Ovest e Nord-Sud, individuati grazie all’uso di meridiane portatili e della groma, lo strumento tipico dei Mensores. Le carte così elaborate (formae) venivano poi incise su lamine di bronzo e in duplice copia. Una rimaneva nella colonia, o nella comunità, l’altra veniva mandata a Roma per essere conservata nel tabularium, una sorta di ufficio del Registro. Purtroppo non possediamo formae originali, anche se ci sono giunte le descrizioni particolareggiate di quelle mappe.
Così sappiamo che sulle formae non solo venivano riportate le esatte misure delle regioni, ma anche i monti, i fiumi e i boschi, grazie all’uso del colore. Forse l’esempio più significativo è rappresentato dalle Formae Urbis Romae, i cui frammenti sono conservati nel cortile del Museo Capitolino. Il reperto riproduce, con grande precisione, in scala 1/300, la pianta della città. Oltre a questo tipo di cartografia, i romani sviluppano, inizialmente per fini militari, i cosiddetti itinerari. Si tratta sostanzialmente di cartine stradali, molto accurate per quanto riguarda le informazioni utili ad un viaggiatore: distanze, stazioni di ristoro, condizioni delle strade, centri termali, empori, etc.
• Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente la concezione cristiana del mondo si intreccia con la tradizione classica, tramandata però acriticamente e privata dei suoi fondamenti scientifici. Ovviamente, in questo periodo la cartografia si sviluppa in due direzioni divergenti. Da una parte i portolani e le carte nautiche, che dovevano risultare funzionali e attendibili per rendere più sicura e agevole la navigazione; dall’altra, le imagines mundi: raffiguravano l’intero Pianeta, riportavano terre bibliche come il Paradiso terrestre ed erano viziate da visioni antropomorfe (la Sardegna, ad esempio, era rappresentata a forma di piede). Spesso Gerusalemme, città Santa, era al centro del pianeta, mentre l’Est, poiché in quella direzione sorgeva il sole, che veniva associato per similitudine alla luce divina, era sistemato al posto del Nord. Nel Medioevo gran parte delle rappresentazioni del mondo vengono elaborate non da cartografi ma da letterati o chierici (le due figure spesso coincidono), per avvalorare le interpretazioni degli autori classici o per poter ornare le cattedrali con immagini universali. Persino gli itinerari usati dai pellegrini sono molto meno precisi di quelli dei romani. L’antico imperativo funzionale viene mitigato da informazioni fantasiose e leggendarie che trovano il loro posto anche sulle mappe. Mentre in Occidente il sapere classico viene rielaborato in chiave cristiana, la cultura islamica si sviluppa rapidamente e i maggiori progressi si devono proprio agli scienziati arabi, che elaborano anche una serie di carte itinerarie ben dettagliate.
• Solo nel Cinquecento, grazie ai grandi navigatori, la percezione del nostro pianeta riceve un impulso fondamentale. Le scoperte geografiche di Colombo, Vasco de Gama, Magellano non vengono riportate subito sulle carte, per motivi di opportunità politica e militare, ma contribuiscono comunque allo sviluppo di una nuova geografia, che ha nel fiammingo Mercatore il suo esponente di punta e nell’Atlante il suo prodotto più evoluto. Da quel momento l’evoluzione della scienza geografica è senza soluzione di continuità. Navi sempre più efficienti permettono l’esplorazione di tutti i mari, mentre nel Settecento gli inglesi mettono a punto un orologio imbarcabile così preciso che permette, in combinazione con il sestante, di individuare le longitudini dei luoghi.
Poi è storia recente, che non si è ancora conclusa. Una dimostrazione? Solo nel 1992 sono stati corretti grossolani errori presenti sulle carte geografiche: un altipiano inesistente in Amazzonia e un immenso canyon fantasma segnalato nel Sudan. Questo è stato possibile grazie ai rilevamenti tridimensionali del satellite Ers 2. Difficile biasimare i nostri antenati. Loro il mondo lo potevano sorvolare con un solo mezzo: la fantasia.
• Gino Paoli ha fatto entrare il cielo in una stanza, nella Bibbia disperano, ma non escludono, di riuscire a far passare un cammello per la cruna di un ago. Chi pensa però che comprimere l’incomprimibile sia una magia, appannaggio solo di profeti e musicisti, farebbe meglio a visitare le stanze di Palazzo Reale a Milano. questo infatti il palcoscenico della mostra nella quale si celebra l’impresa titanica della De Agostini che, ingegnandosi con trigonometria e compassi, da cent’anni condensa il mondo intero in poche pagine. Ad affrontare questa missione impossibile fu un piemontese testardo e pignolo, il geografo biellese Giovanni De Agostini che, nel giugno del 1901, fondò la casa editrice che ancora porta il suo nome. Del resto la passione per la geografia era diffusa nella famiglia De Agostini. Il fratello di Giovanni, Alberto Maria, era un salesiano a cui si deve l’esplorazione di molte zone della Patagonia.
La prima opera dell’istituto fu l’Atlante scolastico moderno, pubblicato nello stesso anno della fondazione. Ma le ambizioni erano altre. Solo tre anni dopo, infatti, viene stampata quella che resta l’opera più conosciuta della De Agostini, il Calendario Atlante. Il successo convince i dirigenti dell’azienda a dare una cadenza annuale alla pubblicazione dell’opera, che è giunta alla 97esima edizione. Sarà però la terza opera della De Agostini, una grande carta d’Italia commissionata dal Touring Club, composta da 58 tavole, a essere fatale, nel bene e nel male, all’azienda. Da una parte infatti il lavoro raccoglie le lodi del pubblico e degli esperti per l’eccezionale precisione e accuratezza, dall’altra, contemporaneamente alla consegna dell’ultima tavola, nel 1914, l’istituto rischia il fallimento per i troppi debiti contratti con la Banca Popolare di Novara.
• Dopo la Grande Guerra la società viene messa in liquidazione e nel 1919 rilevata da due soci, Marco Adolfo Boroli e Cesare Rossi, che decidono di investire denaro in uomini e mezzi, tanto che, qualche anno dopo, è proprio la De Agostini ad acquistare il primo impianto rotocalcografico d’Italia. Fiore all’occhiello della nuova gestione è il primo Grande Atlante Geografico del 1922 che, in breve tempo, diventa il più consultato d’Europa. Nel corso di un’udienza privata concessa ai due nuovi proprietari della De Agostini, la prima copia del Grande Atlante Geografico viene donata a re Vittorio Emanuele III. «Nella lunga e cordiale udienza - scrive nella cronaca dell’avvenimento un quotidiano dell’epoca - il Re si interessò grandemente ad ogni particolare della difficile e preziosa industria, che finalmente ha redento il nostro paese dal giogo straniero anche in questo campo». Lo stile un po’ retorico del redattore non nasconde comunque una verità importante. Prima di quel lavoro della De Agostini, l’ultimo Atlante italiano era stato realizzato dall’editore Pagnoni e risaliva a più di 60 anni addietro; inoltre era stato giudicato da subito di qualità alquanto scadente. Il successo del nuovo Atlante De Agostini, anche sui mercati stranieri, permette alla casa editrice di diversificare la produzione. L’azienda riceve un duro contraccolpo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando Cesare Rossi, epurato perché accusato di aver collaborato con i tedeschi, cede la sua quota alla famiglia Boroli. Da quel momento, per l’Istituto inizia un nuovo corso. Viene particolarmente sviluppato il settore dei libri per ragazzi e delle collane d’arte e inoltre comincia la penetrazione nel mercato dei testi scolastici.
• L’iniziativa che si dimostra veramente rivoluzionaria è un’altra. Nel gennaio 1959 viene lanciato Il Milione, la prima opera acquistabile in edicola, suddivisa in 360 fascicoli settimanali. Il successo è strepitoso, tanto che il fascicolo numero uno de Il Milione viene venduto in 120 mila copie, un vero record per l’epoca. Nascono poi le collane i collezionabili, di cui la De Agostini è ancora leader del mercato. Da quel momento l’espansione della casa editrice è costante. Senza perdere l’originaria vocazione per le pubblicazioni scientifiche, nel corso degli anni Sessanta l’Istituto registra un grande successo anche nel campo delle enciclopedie. In quel periodo la cultura e l’alfabetizzazione sono un’aspirazione molto diffusa, e così la possibilità di acquistare, a rate, costose opere di divulgazione determina il grande successo di molti titoli lanciati dalla casa editrice. Oggi la De Agostini, che mantiene il cognome del fondatore, è molto cambiata. un gruppo editoriale su scala internazionale, con più di 100 società. Tra le altre attività, pubblica riviste in lingua francese, tedesca e inglese. Ultimamente sta sviluppando anche il settore on-line. Sia come sia, le carte geografiche rimangono sempre il fiore all’occhiello, che nei cento anni di storia di questa casa editrice non è mai appassito.
• La carta più discussa è quella disegnata nel 1513 dall’ammiraglio turco Piri Reis. conservata nel museo Topkapi di Istanbul, ma ci sono anche altre carte geografiche che hanno dato il via a spericolate teorie storiche. Riportano con decenni e a volte secoli di anticipo terre che dovevano essere ancora scoperte, a volte anche con una certa precisione. Persino il grande Mercatore, uno dei più grandi cartografi della storia, qualche volta ha licenziato mappe contenenti veri enigmi geografici.
Le spiegazioni di questi misteri dividono archeologi e storici della geografia. Una scuola, in verità minoritaria, ma che ha grande appeal sul pubblico, grazie anche a una serie di best seller, parte proprio da queste carte misteriose per proporre una nuova visione della storia dell’umanità. La teoria, a grandi linee, è questa: le mappe che riportano continenti che dovevano essere ancora scoperti sono state realizzate copiando carte sorgenti, andate poi perdute. Ad elaborarle, in origine, sarebbe stata una civiltà tecnicamente molto avanzata, spazzata via da un incredibile cataclisma (il diluvio universale ricordato dalla Bibbia). Secondo i sostenitori di questa teoria, questo spiegherebbe perché, nella carta di Piri Reis, l’Antartide ha un profilo simile a ello del continente privo dei acci: la carta del 1513 sarebbe copia di un antichissimo originale, risalente ad un’epoca nella e, risalente ad un’epoca nella quale l’Antartide era effettivamenun continente fertile, con un clima temperato.
• Ma la scienza ufficiale propende per spiegazioni decisamente più ortodosse. La prende per spiegazioni decisamente più ortodosse. La professoressa Marica Milanesi, dell’Università di Pavia, non vuole nemmeno sentir parlare di civiltà scomparse e cataclismi: «Per carità, quelle sono fantasie. La spiegazione è molto più semplice. Nel ’500, epoca a cui risalgono la maggior parte delle carte discusse, i cartografi disegnavano tenendo ben presenti esigenze politiche, teorie teologiche e al tutto aggiungevano una buona dose di fantasia». Può fare qualche esempio? «Qualcosa di simile al Canale di Panama appare spesso su quelle carte. Ma nessuno poteva certo prevederne la costruzione. Semplicemente, quei cartografi materializzavano un desiderio. Loro speravano che esistesse davvero un passaggio, e lo disegnavano. Altre volte era segnata l’Antartide perché si riteneva certa l’esistenza di altre terre emerse. Gli antichi ne erano sicuri: Dio aveva creato il pianeta per gli uomini e quindi non ci poteva essere solo acqua oltre le terre già scoperte. Vagheggiare civiltà evolute scomparse, più che archeologia è marketing. Un’operazione che fa leva sul sensazionalismo per vendere più copie».