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 2002  aprile 04 Giovedì calendario

Sei appena stato arrestato come possibile autore di un omicidio

• Sei appena stato arrestato come possibile autore di un omicidio. L’interrogatorio, condotto da due poliziotti cocciuti come mastini, ti fa sudare. Ma hai le labbra sigillate. Conosci i tuoi diritti. Allora, con un sogghigno, ti infilano sulla testa una specie di retina per i capelli, lungo la quale sono disposte dozzine di minuscoli elettrodi, e ti mettono a sedere di fronte a un computer. Sullo schermo cominciano a susseguirsi lampi di immagini, inframmezzate da domande a scelta multipla. Flash! La foto di un muro di mattoni. Flash! «Che cosa c’è oltre questo muro?» Flash! «Cemento e pece?» Flash! «Sabbia e ghiaia?» Flash! «Erba e sterpi?». Non hai risposto nulla. Hai perfino cercato di non pensare. Eppure... spiacente amico, ma il tuo cervello ti ha tradito. Non ha potuto fare a meno di trasalire dentro di te, riconoscendo quell’immagine che rievocava il ricordo di aver superato con un balzo il muro di mattoni, proseguendo la fuga in un cortile ingombro di sterpi e di erbacce. Una fantasia degna di un romanzo di Orwell? No, perché questa tecnica è stata effettivamente impiegata nel corso di una perizia recentemente svolta per conto di un tribunale in una contea nello Iowa. ’apparecchiatura per l’encefalogramma è stata costruita nei laboratori universitari con finanziamenti della CIA. Il dipartimento della difesa degli Stati Uniti sta finanziando ricerche che prevedono l’impiego di scanner multimilionari per ottenere immagini di un cervello impegnato in determinati compiti. Altri laboratori impiegano metodi a minor contenuto tecnologico, come per esempio il semplice test dei tempi di reazione, che possono tuttavia costituire un modo sbalorditivamente affidabile per mettere in luce quella ”coscienza sporca” che si preferirebbe tenere nascosta agli altri.
• chi d’accordo e chi no. Il campo delle macchine della verità (o poligrafi, o meglio lie detectors, ossia ”rivelatori di bugie”, come li chiamano gli inglesi) ha da tempo bisogno di un vigoroso scrollone. Si discute da un pezzo sulla legittimità del poligrafo, vale a dire la versione originale e più tradizionale di macchina della verità: uno dei punti più dibattuti è il fatto che sia basato su reazioni emotive, come le mani sudate e la variazione della pressione sanguigna o dei ritmi di respirazione. I responsi del poligrafo possono essere usati dalla difesa nei tribunali statunitensi, e l’Unione americana per i diritti civili stima che ogni anno venga eseguito oltre un milione di test. Molti però ritengono che il poligrafo sia inaffidabile: basta consultare Internet, per scoprire come sia possibile ingannare la macchina semplicemente stringendo le natiche o mordendosi la lingua. Comunque questo tipo di test viene tuttora impiegato su vasta scala dalle forze dell’ordine negli Stati Uniti, in Israele e in Giappone. Negli Stati Uniti, il suo uso è previsto nella procedura impiegata dall’FBI e dalla CIA per l’arruolamento di nuovi dipendenti, e il governo federale sta spingendo perché all’esame del poligrafo vengano sottoposti anche gli scienziati che dovranno lavorare nei laboratori di ricerca nazionali. E se si riuscisse a penetrare nella testa della gente? Lasciamo perdere le reazioni emotive, che si possono simulare facilmente. Spostiamo invece la nostra attenzione sulle differenze dei segnali cerebrali, che rivelano quando qualcuno sta mentendo; oppure sondiamo direttamente l’informazione che il mentitore cerca di nascondere.
• Polpastrelli e database. Già migliaia di anni fa, in Cina, i burocrati dei palazzi reali legalizzavano i documenti premendo il polpastrello su un sigillo di cera bollente. Oggi l’impronta è acquisita con speciali sensori, elaborata attraverso algoritmi, confrontata con quella di riferimento e memorizzata in un database. Sistema veloce e piuttosto preciso. Lo scorso gennaio, però, un giudice statunitense di Filadelfia ha ritenuto che le impronte digitali non fossero una prova scientifica per identificare con assoluta certezza tre narcotrafficanti.
• P300, ovvero menzogna. Tutto è cominciato all’inizio degli anni ’90, quando la CIA ha assegnato un piccolo finanziamento a Emanuel Donchin, uno psicologo dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, e al suo studente Lawrence Farwell, perché scoprissero che cosa si poteva ottenere con un test EEG. L’EEG, o elettroencefalografo, impiega elettrodi ultrasensibili per misurare le fluttuazioni del potenziale elettrico determinate dall’attività della corteccia cerebrale. Donchin era un esperto di un particolare e caratteristico picco del tracciato dell’EEG, denominato P300, che compare circa un terzo di secondo dopo che si è osservato qualcosa di significativo. una specie di clic mentale di riconoscimento. Quel che più conta è automatico e del tutto prevedibile. Come era possibile che un P300 smascherasse una bugia? Ci sono due modi per usare un poligrafo. La procedura standard consiste nel porre anzitutto una domanda lievemente imbarazzante ma generica, come: «Ha mai guidato dopo aver bevuto un bicchiere di troppo?». Questo stabilisce un valore base per la lettura del tracciato, prima di saltare a domande più serie come: «Ha mai avuto contatti professionali non autorizzati con persone di nazionalità estera?». Il principio che sta alla base di questo sistema è che solo i soggetti colpevoli reagiranno vigorosamente ad accuse vere e proprie. Tuttavia uno dei motivi che hanno screditato la validità del poligrafo è appunto la facilità con cui una persona esperta può esagerare le proprie reazioni alle domande base, falsando così l’entità delle menzogne successive. Tuttavia esiste anche una forma di test alternativa, nota come il ”test della competenza del colpevole”. I soggetti sono messi alla prova con immagini o espressioni che possono risultare significative solo per loro. Un agente sospetto del KGB avrebbe così potuto essere sottoposto a test su reazioni emotive, come un balzo al cuore oppure una respirazione affrettata, che potevano essere suscitate in lui da parole in codice del KGB. Un interrogato di cui si sospettava il coinvolgimento in un crimine sarebbe stato sottoposto a un test sulla conoscenza di quel crimine. Donchin e Farwell si erano resi conto che il test della competenza del colpevole si integrava bene con l’esame dei tracciati P300. Le persone che fossero a conoscenza di segreti avrebbero dovuto evidenziare un P300 in presenza di immagini o espressioni che altrimenti sarebbero potute sembrare del tutto innocue. I ricercatori allestirono perciò un test di laboratorio in cui i soggetti dovevano recitare una parte, effettuando finte missioni spionistiche che consistevano nel consegnare il ”messaggio del gufo” a un contatto in soprabito blu, in una certa strada. Poi registrarono le reazioni cerebrali a un elenco di parole che comprendeva alternative innocenti, come ”il messaggio del topo” e un contatto con uno scialle rosso. L’analisi delle reazioni che presentavano un P300 consentì di riconoscere quasi il 90 per cento delle ”spie”. Ma l’aspetto più importante fu che non vennero riscontrati falsi positivi, cioè soggetti innocenti che fossero stati erroneamente accusati da onde ”di colpevolezza”.
• I ricordi dell’assassino. Benché gli scienziati avessero pubblicato le loro scoperte già nel 1991, nel ”Journal of Psichophysiology”, poi non è stato più pubblicato granché di nuovo sull’argomento almeno fino a quest’anno, quando un’udienza del tribunale della contea di Pottawattamie, in una remota zona dello Iowa, è improvvisamente salita alla ribalta dei titoli internazionali. Qualcuno stava cercando di usare i P300 come prova per fare rilasciare un omicida già condannato. Terry Harrington era stato condannato all’ergastolo nel 1978 per aver ucciso una guardia giurata per strada. Harrington, che all’epoca del fatto aveva solo 17 anni, aveva dichiarato al processo di essersi trovato molte miglia lontano dal luogo dell’omicidio, vale a dire a un concerto pop. Eppure era stato condannato sulla base delle deposizioni di vari testimoni, alcuni dei quali pare fossero suoi complici, mentre il referto dei periti aveva riscontrato tracce di polvere da sparo sul suo giubbotto. Nel disperato tentativo di avanzare un’istanza di appello, Harrington si presentò alla corte per dimostrare che il suo cervello non reagiva ad alcun ricordo relativo alla scena del delitto, mentre mostrava una forte risposta a espressioni riconducibili agli avvenimenti verificatisi al concerto. Il ricercatore che eseguiva i test dell’EEG era appunto Farwell, che aveva messo su un’attività nello Iowa nella speranza di trasformare la ricerca sul P300 in un affare. Negli anni ’90 Farwell aveva continuato a lavorare in silenzio con la CIA e l’FBI, per verificare sul campo la validità di questa tecnologia. Se il tribunale della contea di Pottawattamie si fosse lasciato persuadere ad accettare le sue metodologie in questo caso sperimentale, Farwell poteva sperare di rivoluzionare l’intero ambito della lotta al crimine. «In un’azione criminosa, ci possono essere vari generi di prove secondarie, ma il cervello è comunque sempre là, intento a pianificare, attuare e a memorizzare il crimine», osserva Farwell. «La differenza fondamentale tra un esecutore e una persona innocente, ingiustamente accusata, è che il primo, in quanto ha commesso il crimine, lo ha registrato nel suo cervello, a differenza dell’innocente». Nel caso Harrington, vi furono enormi difficoltà perché l’omicidio era avvenuto oltre 20 anni prima, e perciò non si poteva certo dire che i ricordi di Harrington fossero ancora freschi. Inoltre Farwell aveva dovuto individuare dei particolari pertinenti all’omicidio di cui Harrington poteva essere rimasto all’oscuro durante il processo iniziale e negli anni seguenti. Studiando i verbali degli interrogatori e compiendo dei sopralluoghi sulla scena del delitto, Farwell si era convinto che si sarebbe potuta usare la via di fuga presa dagli assassini della guardia giurata: dopo l’omicidio, infatti, essi avevano dovuto saltare un fossato e attraversare un campo invaso dalle erbacce. Nei test, Harrington non aveva risposto con alcun P300 a questi particolari, mentre esibiva una decisa reazione agli eventi del concerto, che era poi il suo alibi. Un caso risolto? Purtroppo per Farwell e Harrington, sembra di no. Gli esperti chiamati a deporre in tribunale, tra i quali anche Donchin, il vecchio professore di Farwell, hanno dichiarato che il procedimento era ancora troppo poco conosciuto, sebbene i suoi presupposti scientifici fossero sicuramente solidi. Il procuratore distrettuale Rick Crowl ha ridicolizzato l’ipotesi di Farwell. In marzo il giudice ha respinto l’istanza d’appello. Farwell dice di essere rattristato, ma per lo meno ha potuto presentare a una corte delle prove raccolte con il suo test BF (da Brain Fingerprinting, «impronta cerebrale»), e ciò costituisce un precedente in vista di futuri processi.
• Il compleanno del bugiardo. Improvvisamente fioriscono le ricerche sulle caratteristiche che presenta il cervello di un mentitore. Sul versante dell’alta tecnologia, il dipartimento statunitense della difesa sta finanziando uno studio sulla funzionalità cerebrale di soggetti che mentono, effettuato tramite la risonanza magnetica da Stephen Kosslyn, psicologo dell’Università di Harvard. Kosslyn riconosce che i primi risultati non sono poi così incoraggianti. Si direbbe che l’attività cerebrale di chi mente non sia affatto coerente, ma è ancora troppo presto per tirare delle conclusioni. Vi sono almeno sei altri laboratori statunitensi che stanno effettuando delle misurazioni dell’EEG. Finora i maggiori successi sono stati ottenuti da Peter Rosenfeld, della Northwestern University, nell’Illinois. Mentre la tecnica di Farwell è imperniata sul test della competenza del colpevole, che rivela se una persona si ricorda o meno di un determinato fatto, Rosenfeld ha scoperto di recente una sensibile distorsione del segnale P300, apparentemente dovuta al fatto che quando si vuol raccontare una balla ci si deve concentrare. Ai soggetti dell’esperimento di Rosenfeld sono state presentate lunghe liste di numeri casuali a quattro cifre, tra i quali era stato inserito anche l’anno di nascita del soggetto: la comparsa di quel numero bastava a determinare un sussulto di riconoscimento nel P300. Alcuni volontari erano stati istruiti a rispondere «No», qualora fosse stato loro chiesto se l’avevano visto. Nell’istante in cui mentivano, si è visto che la distribuzione della potenza del segnale P300 sul cuoio capelluto assumeva una configurazione distintamente riconoscibile. Rosenfeld spera perciò che in futuro i test EEG riveleranno sia un’eventuale competenza del colpevole, sia se le persone stiano cercando di mentire durante l’interrogatorio. Quello che ha colto tutti di sorpresa è stata la pubblicazione, in febbraio, di una versione a bassa tecnologia del test della competenza del colpevole, che non ha bisogno di scanner o di elettrodi, ma si limita a misurare i tempi di reazione. Travis Seymour e Colleen Seifert, dell’Università del Michigan, ad Ann Arbor, hanno replicato con precisione lo stesso scenario spionistico allestito da Danchin e Farwell, ma si sono limitati a cercare i momenti d’esitazione nelle risposte dei soggetti. Seymour afferma di aver riscontrato che coloro i quali dichiaravano la verità sul fatto che un’espressione riusciva del tutto nuova, premevano il bottone del «No» nel giro di mezzo secondo. I soggetti che mentivano, invece, impiegavano più o meno un secondo per farlo. Anche se sapevano che la cosa li stava smascherando, e se avevano avuto l’opportunità di allenarsi, non riuscivano a reagire più velocemente. «Si direbbe che questo sia un modo ultraeconomico e facile per eseguire il test della competenza del colpevole», osserva Seymour. «Tutto ciò che occorre è un comune PC e una tastiera. Non c’è bisogno di elettrodi». Comunque, aggiunge, per approfondire ulteriormente questo studio ci vorrebbe molto più lavoro. In ogni modo si direbbe che i recenti studi sull’EEG abbiano delle genuine potenzialità. I difensori dei diritti civili sono avvertiti. Può anche darsi che un domani avremo ancora il diritto di non rispondere. Ma a quel punto tacere non avrà un gran senso, se l’inquisitore sarà capace di leggerci nel pensiero.
• Immaginate di entrare in casa appoggiando la mano in una serratura elettronica, accendere il computer dicendogli «Vai», prelevare dal bancomat guardando una telecamera. Non è fantascienza: le macchine capaci di riconoscerci esistono già e tra pochi anni potrebbero entrare nella vita quotidiana e contribuire a salvaguardare la nostra sicurezza. Vediamo come sono usati oggi i più importanti sistemi d’identificazione.
• Basta uno sguardo. Almeno 240 particolari rendono un’iride unica. Basta uno sguardo nella telecamera leggi-iride e l’identikit è pronto. Installati in alcuni bancomat negli Usa, questi dispositivi sono stati adottati in via sperimentale negli aeroporti di Amsterdam, Olanda, e Heathrow, Inghilterra, dove riconosceranno alcuni passeggeri abituali che hanno dato il loro consenso. Lo scopo: ridurre le file ai check point e migliorare la sicurezza.
• Dna e padri in fuga. Da anni usato in campo medico-legale per risolvere enigmi criminali o stabilire i legami di parentela, è senza dubbio il sistema di riconoscimento più affidabile. Nessuno, infatti, tranne i gemelli omozigoti, ha un patrimonio genetico uguale a quello di un’altra persona. A differenza della voce o dei tratti del volto, il Dna non può essere contraffatto. Ma l’impiego su larga scala è ancora molto lontano.
• Se il volto è sospetto. Dispositivi che riconoscono i tratti somatici del volto sono già sul mercato, anche se la loro affidabilità è incerta. Diversi aeroporti statunitensi hanno installato FaceFinder, un controverso sistema di sicurezza che confronta le facce riprese da videocamere con quelle di individui sospetti, registrate in un database. In alcuni Casinò Usa, Face Finder è usato per riconoscere clienti indesiderati e altre tipologie pericolose di persone.
• Parole, parole, parole. Si sta lavorando su questo sistema di identificazione che si basa su caratteristiche del parlato, come la frequenza, la velocità, la struttura e la densità delle onde sonore. Sembrerebbe però poco affidabile: la voce è soggetta a continui cambiamenti, basta un banale raffreddore per stravolgerla.
• Quando si dice una bugia, attorno agli occhi affluisce una maggiore quantità di sangue e in questa zona si ha quindi un innalzamento della temperatura. Il fenomeno, invisibile a occhio a nudo, si può invece registrare grazie a una particolare macchina fotografica che, messa a punto da un gruppo di scienziati della Mayo Clinic (Rochester, MInnesota), è in grado proprio di registrare la temperatura nelle diverse zone del volto. Gli scienziati, guidati all’endocrinologo James Levine, hanno testato il nuovo apparecchio in questo modo: hanno chiesto ad alcuni volontari di accoltellare un manichino e rubargli venti dollari e di giurare e pergiurare, poi, sulla loro innocenza. Subito dopo, hanno fotografato con la speciale macchina fotografica sia questo gruppo di persone sia alcuni innocenti che non erano a conoscenza del furto. Risultato: attraverso la registrazione della temperatura nelle diverse zone del volto, la macchina è riuscita a individuare correttamente il 75 per cento dei finti ladri e il 90 per cento delle persone innocenti. Sbagliando quindi solo del 25 per cento nel caso del primo gruppo e del 10 nel caso del secondo. La macchina speciale potrebbe essere utilizzata in futuro al check-in degli aeroporti, per esempio per individuare i terroristi.
• Quando diciamo una bugia, alcune aree del cervello lavorano di più. Lo ha scoperto un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania School of Medicine, Usa, guidato da Daniel Langleben, convinto di aver trovato una nuova macchina della verità più affidabile del tradizionale poligrafo. La alternativa per smascherare i bugiardi sarebbe la risonanza magnetica funzionale, una tecnica che consente di visualizzare le parti del cervello nel momento in cui si attivano. stato formato un gruppo di 18 volontari, a ciascuno dei quali é stato dato un oggetto, subito messo in tasca: ai volontari sono state mostrate diverse immagini in sequenza, tra le quali anche quella dell’oggetto in loro possesso. In base alle istruzioni ricevute all’inizio del test, i volontari, seduti nell’apparecchiatura per la risonanza magnetica, dovevano mentire, negando che si trattasse di quello che avevano in tasca. Al momento della bugia, la risonanza magnetica ha mostrato una forte attivazione di alcune aree del cervello: l’area anteriore della corteccia e quella frontale superiore. «Sembra che, per poter elaborare l’inganno» ha raccontato Langleben alla rivista ’New Scientist” «il cervello debba prima inibire la verità, che sarebbe la risposta più istintiva. Ma questo modello è tutt’altro che infallibile e appare prematura qualsiasi applicazione».