Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 13 settembre 1999
L’Indonesia è il quarto paese al mondo per popolazione (189 milioni di abitanti, il primo tra i paesi islamici)
• L’Indonesia è il quarto paese al mondo per popolazione (189 milioni di abitanti, il primo tra i paesi islamici). Il pil è di 711 miliardi di dollari (Italia 1.090), il pil procapite di 3.500 dollari (in Italia 18.700). Nel paese convivono almeno 5 religioni (i cattolici sono 4 milioni e 800 mila) e 300 etnie.
• Interventisti. «Chi adesso moraleggia sul doppio standard della Nato, intervenuta in Kosovo ma non in Asia, dovrebbe spiegarci se è disposto a combattere una guerra ogni sei mesi e a devolvere un quinto del pil a questo scopo [...] Non si può pretendere che un corpo di spedizione si diriga verso Timor senza l’autorizzazione delle Forze armate indonesiane, adeguate a un paese di 200 milioni di abitanti. Piaccia o no l’interventismo occidentale ha un ambito inevitabilmente limitato da valutazioni militari, interessi strategici, disponibilità delle opinioni pubbliche a sopportare costi economici e umani. E questo forse sarebbe meglio dichiararlo esplicitamente» (Guido Rampoldi). [9]
• Timor Est ha una popolazione di 850 mila abitanti, per il 90% cattolici. L’Indonesia la considera una sua provincia, per l’Onu è un territorio senza autogoverno amministrato formalmente dai portoghesi. La sua economia, basata quasi unicamente sulle piantagioni di caffè, è una delle più povere di tutta l’Asia.
• Nel 1859 un trattato commerciale divise l’isola in due: la parte ovest all’Olanda, la parte est al Portogallo (primo paese europeo a mettere piede sull’isola nel 1642). Nel 1945 gli olandesi lasciarono la parte occidentale. Nel 1975, anno della rivoluzione dei garofani in Portogallo, l’ex potenza coloniale ritirò dall’isola le sue truppe, ad agosto venne dichiarata l’indipendenza. Nel gennaio del 1976 le truppe di Suharto occuparono tutta l’isola facendone la ventiseiesima provincia indonesiana.
Quest’anno il nuovo governo di Habibie (succeduto a Suharto) ha accolto le pressioni dell’Onu ed ha indetto un referendum sull’eventuale distacco di Timor Est dall’Indonesia. Il 78,5 per cento degli elettori ha votato per l’indipendenza.
• Alla fine della scorsa settimana le milizie antindipendentiste hanno commesso numerosi omicidi: tra i morti vi sarebbero il direttore della Caritas di Timor Don Francisco Barreto, una quarantina dei suoi collaboratori, sei suore canossiane. Il Vaticano ha parlato anche di un massacro compiuto nella chiesa di Suai (cento fedeli trucidati insieme a 15 preti). Secondo l’agenzia di stampa missionaria ”Misna” i morti dall’inizio degli scontri sarebbero 20 mila.
• Monsignor Carlo Ximines Belo, premio Nobel per la pace nel 1996, fu nominato vescovo di Dili da Giovanni Paolo II nel 1983 ed è sempre stato avverso al regime indonesiano, denunciandolo per il blocco all’ingresso nel paese di missionari stranieri. Unici episodi di distensione nel 1989, con il viaggio del Papa a Dili e Giakarta, e nel 1994, quando Belo si pose come mediatore tra le parti in conflitto e ottenne la firma di una parziale autonomia amministrativa (sono questi accordi che gli valsero il premio Nobel insieme al leader indipendentista moderato Ramos Horta). Nel 1996 il vescovo non volle incontrare il presidente Suharto in visita a Timor Est per inaugurare una gigantesca statua di Cristo eretta senza l’assenso della curia.
• I generali indonesiani, tutti fedeli al ministro della difesa Wiranto, temono nuove spinte secessioniste nel loro immenso arcipelago (17.508 isole, più di 7.000 abitate da popolazioni con lingua e cultura propria). I movimenti indipendentisti più organizzati (oltre a Timor Est) sono in tre distretti: l’Isola di Ambon nelle ex Molucche olandesi (alla fine del colonialismo la popolazione di religione cristiana tentò di formare uno stato indipendente ma fu annessa all’Indonesia con la forza); Aceh, piccola provincia settentrionale dell’isola di Sumatra (è abitata da musulmani malesi che combatterono prima contro gli olandesi e poi contro gli indonesiani, nel maggio scorso 70 dimostranti separatisti sono stati uccisi dalle truppe antisommossa); Irian Jaya, la metà occidentale della Nuova Guinea (passata all’Indonesia nel 1963, la popolazione è a grande maggioranza cristiana ed etnicamente omogenea a quella di Papua, lo stato che occupa l’altra metà dell’isola).
• La crisi del sud-est asiatico di due anni fa ha provocato all’economia indonesiana danni gravissimi: nel 1998 il Pil è calato del 13 per cento, la domanda interna del 25 per cento, l’inflazione ha raggiunto l’80 per cento (attualmente è al 12). La ripresa economica del paese è interamente vincolata alle rate del prestito da circa 50 miliardi di dollari che, per la prima volta nella storia di questa istituzione, il Fmi ha minacciato di revocare.
• Prima di diventare la paladina dell’indipendentismo timorese, l’Australia (unico Paese al mondo a riconoscere l’invasione indonesiana del ’76), ha sempre mantenuto ottimi rapporti con Suharto. Ciò portò nel 1989 alla firma del ”Timor gap”, un accordo per lo sfruttamento dei grandi giacimenti di gas e petrolio situati nel mar di Timor (a 500 chilometri dalla città australiana di Darwin). Su queste ingenti ricchezze petrolifere (si parla di un miliardo di dollari l’anno) Sidney ha messo gli occhi e le mani e ora preferirebbe condividerle con un piccolo e debole stato amico invece che con un vicino ingombrante.
• Il generale Wiranto, ministro della difesa indonesiano, è il vero uomo forte di Giakarta, la persona con cui si incontrano i dirigenti del Fondo monetario internazionale. 52 anni, una carriera brillantissima compiuta all’ombra della famiglia Suharto (a 41 anni era capo delle forze armate), sarebbe stato lui, dopo le proteste di piazza scoppiate nel maggio dell’anno scorso, a convincere lo screditato dittatore a farsi da parte (Suharto si dimise con un discorso televisivo alla nazione, Wiranto accanto a lui, in piedi). Non essendosi schierato a favore del referendum imposto dall’Onu (cosa che ha fatto invece il presidente Habibie), mantiene il prestigio necessario per controllare le forze armate e quindi il paese.
• Megawati Sukarnoputri, figlia dell’ex presidente Sukarno, leader del partito all’opposizione dato per favorito nelle elezioni che si dovrebbero tenere in Indonesia tra due mesi, è in cerca di consensi anche tra la parte più nazionalista dell’elettorato. In un’intervista ripresa in Italia dal ”Corriere della Sera” del 10 settembre, afferma che il presidente Habibie è stato un folle e un cretino a concedere il referendum e ancora più folle a non aver fatto niente per premunirsi contro il prevedibile bagno di sangue.
• Il Vaticano e i cattolici rimproverano alle Nazioni Unite la mancanza di interventi (ad esempio mandando i caschi blu anche senza il parere favorevole del governo indonesiano), l’Indonesia vede nell’Onu il responsabile delle stragi di questi giorni («hanno voluto fare il referendum a tutti i costi!»). Stefan De Mistura, rappresentante dell’Onu in Italia: «Il Consiglio di Sicurezza presenterà due opzioni: o l’Indonesia fermerà realmente le bande o, se riconosce di non poterlo fare, dovrà accettare forze militari sotto egida Onu».
• Guido Rampoldi sulla ”Repubblica” di sabato: «L’Onu ha sponsorizzato un referendum sull’indipendenza sorvolando sulle conseguenze possibili. Quando poi i tugs indonesiani hanno reagito nel modo prevedibile, il Palazzo di Vetro non ha trovato di meglio che dare quarantotto ore di tempo all’evanescente governo di Giakarta per fermare i massacri [...] Era il solito ”fermatevi o scappiamo” di bosniaca memoria. Scadute infatti le quarantott’ore, Kofi Annan ha annunciato che il personale Onu a Timor Est sarebbe stato evacuato [...] Fa testo la supponenza con la quale hanno illuso la popolazione di Timor di una certa protezione internazionale, per poi dimostrare un’impotenza patetica nel momento cruciale».
• «Era stato promesso, al popolo di Timor Est, che avrebbe potuto scegliere liberamente il proprio futuro. Gli era stato assicurato che la comunità internazionale avrebbe vigilato, avrebbe difeso il suo diritto all’identità religiosa, culturale e nazionale. Nel giro di poche ore la violenza delle bande armate ha spazzato via promesse ed assicurazioni manifestando in pieno l’immobilismo e l’inadeguatezza delle istanze internazionali».