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 2006  marzo 20 Lunedì calendario

Ba Jin e la banda dei Quattro

• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. W. H. Auden. Molto disordinato e notoriamente flemmatico, in vecchi tweed e loden che facevano una certa fatica a tirare avanti. Con una pelle e un passo molto più decrepiti dei suoi neanche sessant´anni, rugoso come certe cavallerizze delle cacce in brughiera, si accontentava per ore e ore delle parole incrociate sul Times. Antica mondanità da Festival araldico e piovoso, tutto intorno, nel grand hôtel sepolcrale di Heidelberg. Altro che aria di Settimana enigmistica in sala d´aspetto. E lui: «sapete chi è quella meravigliosa vecchia altissima? la sorella di Frieda Lawrence, baronessa von Richtofen: e le due bambine ottantenni in diadema sono le nonne dell´Elettore Palatino». Se gli si parla dell´Italia: «Una contessa napoletana centenaria indimenticabile, abitava sopra la Nunziatella e suonava spaventosi dischi d´opera a 78 giri per tutto il giorno, e sulle grandi romanze della Favorita e del Trovatore cantava alla finestra che la stavano possedendo in posizioni incredibili il macellaio, il lattaio, il notaio... E quando la figlia marchesa le portava le uova, gliele tirava dietro per le scale cantando la Carmen. Ma ormai ne ho abbastanza». Se capisce d´esserti simpatico, incomincia con le storielle sugli elefanti. «Un topo e un´elefantessa vanno a sposarsi civilmente, e l´addetto domanda come mai. A questo punto, dobbiamo, confessa arrossendo l´elefantessa... Un giovanotto va dallo psicanalista, imbarazzato perché ha problemi forse offstream. Dunque: secondo Freud o Jung o altri, è possibile innamorarsi in maniera eterna di un elefante? Per lo psicanalista, è un tema già studiato: e secondo la dottrina più accreditata la risposta sarebbe negativa. Altre domande? Solo un consiglio: dove e come sbarazzarsi di un anello di fidanzamento molto molto grosso». Ancora. «Una matrona suburbana del Surrey che non ha mai visto elefanti né proboscidi in vita sua chiama atterrita la polizia: «Una bestia enorme, orribile, venite subito!». «E cosa fa?». «Tira su i miei cavoli con una grossissima coda, e non oso dire dove se li mette!». E infine? «Un batuffolo verde salta di ramo in ramo, nella foresta dei Fratelli Grimm: Ma non è un elefantino. E´ uno scoiattolo con un paltoncino di loden». Più a tu per tu, raccontava innocenti e meschini e grotteschi episodi sulla dipendenza pecuniaria e talvolta mortificante di Yeats e Rilke dalle loro aristocratiche patronesse facoltose ma tirchie, e per di più cariche di ambizioni e presunzioni intellettuali e poetiche oltre che aristocratiche. Il suo amico Chester Kallman era anche lui profondamente segnato in faccia, già un tempo belloccia. Rughe profonde, causate da smorfie protratte, e non da postumi di tiraggi estetici. Con inquietudini e insaziabilità assatanate, ma "hopeless" in quegli alberghi così signorili. Finì poi infatti oscuramente o malissimo, dopo la scomparsa di Auden, ad Atene. Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Ba Jin. Morto centenario a Shanghai. Siamo andati a trovarlo in delegazione, venticinque anni fa. Una villetta europea con praticello. Due o tre porcellanine in una vetrinetta. Una Tour Eiffel di stagno sul televisore, con tovaglietta. «Voi non potete capire, e anche noi ci siamo lasciati ingannare. Tutte visite guidate tipiche: "ecco un lavoratore modello". E un anno dopo, sempre gli stessi: "ecco un elemento antisociale". La Banda dei Quattro aveva in programma di "annientare la cultura" per poi vivere in uno sfarzo imperiale. Tre li conoscevo bene: erano critici letterari e artistici qui a Shanghai, vivevano di recensioni, e facevano parte degli stessi comitati celebrativi. Allora provate a immaginare tre recensori, improvvisamente col potere di distruggere la cultura e gli artisti! L´ambizione dell´arrivismo smodato nasce dall´incontro dei tre recensori con Jiang Qing, persona infernale che sono ben lieto di non aver mai incontrato». (Noi la vedevamo ogni sera processata in televisione, con una recitazione fra Greta e Marlene). «Ma davvero non si è mai seduta su questo divanetto dove siedono ora Vittorio Sereni e Mario Luzi?». «NO». Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Anna Banti. Centenario della nascita! Pubblicò cinquant´anni fa il mio primo racconto su Paragone, che adesso ospiterà alcuni ricordi nel numero commemorativo. Era forse l´ultima rivista gestita personalmente da un direttore che addirittura scriveva a mano tutta la corrispondenza con i collaboratori e i consulenti. (La mia parte, l´ho regalata a Maria Corti per il suo Fondo pavese). Fior di numeri di Paragone nascevano al Forte dei Marmi, fra i tavolinetti del modesto Caffè Roma. Era il celebrato «Quarto Platano», molto più "in" delle superate «Giubbe Rosse» o dell´Aragno nella Roma della Ronda. Verso sera, ecco arrivare i letterati villeggianti dalle loro casette verso il Cinquale e i Ronchi, dalle pensioni tra Camaiore e Fiumetto. Ecco Roberto Longhi con Anna Banti, Pietrino e Carla Bianchi, Attilio e Ninetta Bertolucci, Giuseppe De Robertis, Enrico Pea e Carlo Carrà in baschetti, Cesare Garboli giovinetto, Giorgio Bassani talvolta, parecchi visitatori da Parma... E le sentenze indimenticabili della Signora: «Basta con la sensiblerie alla Virginia Woolf! Quel che in Paragone si pubblica di narrativo deve innanzi tutto persuadere Anna Banti che, lo ammetto, prende molto sul serio le cose della letteratura e della vita». Mi fece anche un editing: nel mio primo racconto su Paragone c´erano parecchi nomi veri di villeggianti, e lei sostituì Piovene e Bo con Biadene e Rho, perché non le pareva bello. Ma nelle bozze successive la mia firma diventò «Luigi», e nessuno in ufficio se ne accorse. (Donde, lettere rincresciute). Ma certo, se la si rammenta anche nel gruppo delle amiche intellettuali - Gianna Manzini, Maria Bellonci, Paola Masino, Elsa de Giorgi, Livia de Stefani, Maria Luisa Astaldi - si ha davvero la sensazione di avere attraversato parecchie diverse epoche. Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Samuel Beckett. Rivedo la sua faccia e quella analoga di Ezra Pound, con le rughe emaciate fra i lineamenti cadenti, le mani smunte, gli occhi spettrali, i silenzi cadaverici... Pronti per un film di Polanski, si usava commentare. Oppure, quei luoghi comuni d´epoca: esaurimento da stress? Come nei dipinti di Lucian Freud: tanti ritratti, e un´espressione sola. Col senno clinico del poi, qualunque psicoterapeuta saprebbe oggi diagnosticare la loro classica depressione, con la facies tipica, i sintomi divulgati nei vari supplementi medici, e gli psicofarmaci indicati per far passare la sindrome. Prodotti ormai diffusi e proverbiali come le "canne". Si opponeva, tuttavia: se è vero che oltre ad Aby Warburg anche Vaslav Nijinskij passò lunghi periodi nella famosa clinica del professor Binswanger, cosa avrebbero potuto cavarne i controcultori dell´antipsichiatria? Quando però dirigeva una sua commedia, diventava animatissimo su e giù dal palcoscenico tra gli attori. A una prova londinese del Godot, aveva concesso al direttore dei Riverside Studios di farmi sedere accanto a lui, a patto che non dicessi una parola. Lui correva avanti e indietro per ottenere dalla troupe americana (i carcerati di St. Quentin) gli antichi effetti comici dell´avanspettacolo inglese povero: come in Chaplin. Alla fine lo salutai a bocca chiusa. Rispose: gentilmente: «Thank you». (A Pound invece mi permisi di fare una domanda, giacché ridacchiava mentre io stavo dicendo delle sciocchezze. Tranquillamente bofonchiò: «No»). Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Luciano Berio. Anni e anni di Biennali-Musica oggi leggendarie, con tutte le «B» a posto: Berio, Berberian, Bussotti, Bortolotto, Boulez... Dentro e fuori dalla Fenice ai caffè dalla mattina al pomeriggio alla sera con sorprese impegnative e deliziose per voci e viole virtuosistiche e ascoltatori preparatissimi. Vertiginosi vocalizzi agonistici; e Folk Songs per fruitori dilettanti o specialisti, ora riproposti anche a Santa Cecilia. E poi l´entusiasmante Sinfonia: con Mahler usato come rapinoso tapis-roulant o tappeto volante per apprendisti maghetti, oggi canuti e nostalgici nelle risacche del "Moderno" d´una volta, così autentico. Anche illusioni perdute, nelle collaborazioni mancate. Per un remoto Spoleto, Luciano m´aveva chiesto una mano per mettere in scena un Laborintus: spiegandomi che lo concepiva come uno sgombero di robe e maniere precedenti. Con Gae Aulenti e Massimo Bogianckino progettammo così una scena piena di vecchi bagagli, tipo Giardino dei ciliegi, da portar fuori uno ad uno, con fatica, finché alla fine sarebbe rimasto soltanto un bellissimo spazio vuoto, bene illuminato e «in attesa». Ma nel frattempo scoppiò il Sessantotto. E Luciano voleva tenerne conto nella messinscena. Si pranzò tutti in Campo dei Fiori. «Luciano, ma tu l´hai composto molto prima». «Già, ma intanto è accaduto». Così, no problem, inscenò lui una mini-contestazione sul palco del Caio Melisso. Poco dopo: «Scrivimi dei testi per musica». Ma io avevo appena sentito Gadda, che a una richiesta simile di Franca Valeri le rispose: «Come la desidera? In prosa, in versi, con o senza le rime, in un atto o due tempi o più?». E oltre tutto, nelle composizioni vocali di quegli anni ogni minima sillaba diventava un fonema elaboratissimo, anche se proveniente da una prosa ritmica o da un verso libero. «Ma tu intanto scrivi», mi scriveva Luciano. Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Ray Bradbury. Quaranta e più anni fa, nella sua casina marziana su palafitte, quasi tutta di cristallo sul cucuzzolo d´una montagnetta aridissima, sopra il tratto del Sunset Boulevard più vicino al mare... «I nostri pericoli di scrittori sono due, e sono tremendi. Il commercialismo: cioè far cose che non ci piacciono e di cui non siamo convinti, per compiacere l´editore, obbedire al produttore, fare un piacere al direttore di giornale. E l´intellettualismo: lasciarsi influenzare dai libri che si amano, dagli autori che si ammirano, dai giudizi dei colleghi che si stimano. O anche illudersi di salvar l´anima facendo un secondo mestiere sedicente intellettuale, tipo l´insegnante di lettere. Ma questo drena le risorse, porta via tempo se fatto onestamente, abbassa e diminuisce il potenziale creativo. Alle mamme dei piccoli geni, consiglio: comprategli una macchina da scrivere, e che si arrangi! Soprattutto, niente lezioni dai premi Nobel!». Poi, a un ristorante di bisteccone, dopo una recita off-off nei Desilu Studios, la radio annuncia che il presidente (Kennedy, allora in vita) sta atterrando sul tetto del Beverly Hilton, qua davanti. Si sentono i motociclisti sul boulevard, l´elicottero che scende... Ma Bradbury ha progetti piuttosto teologici-spaziali: un papa che parte con la sua astronave vaticana per il Cosmo alla ricerca della Verità. O anche un americano felice che vuole saggiare la propria solidità morale («fra Henry James e Mario Soldati»), e va in pezzi proprio come tutti a Via Veneto... «Questa è la prima "fan letter" che scrivo, in 88 anni». Gliel´ha mandata Bernard Berenson. «Dopo un mio articolo su una tremenda vitalità "alla Goya" applicata alla letteratura sulla morte. Sono andato a trovarlo, abbiamo parlato per giorni, e ha allargato le mie prospettive, mi ha dato una consapevolezza, parlando, come solo Aldous Huxley e Bertrand Russell». Alberto Arbasino
• Ba Jin e la banda dei Quattro. La Repubblica 01/11/2005. Italo Calvino. Lo ricorderò sempre come editor accorto e amico, mezzo secolo fa. «Naturalmente ogni scrittore vorrebbe metter dentro tutto, nel suo primo libro. Sennò gli si spezza il cuore. Ma qui abbiamo una quindicina di racconti, ed è meglio star dentro le duecento pagine, in un debutto, sennò non ti leggono e non ti recensiscono. Un libro piccolo e bello si legge tutto e subito. Cinque storie, non di più. Se ti si spezza il cuore, ricordati che se va bene un primo libro dove ci hai messo dentro tutto, ti aspettano col fucile puntato al secondo, perché lì sempre casca l´asino. Però tu, il secondo, ce l´hai già. Sono questi altri racconti che per prudenza non mettiamo nel primo». E poi, con gli altri dirigenti di Einaudi: «Questo qui ha già ventisette anni. Non si può metterlo nei "Gettoni" fra i giovani. Ormai ha un´età da "Coralli"». E nessuno di noi scoppiava a ridere: né Bruno Fonzi, né Luciano Foà, né io. La schedina per Le piccole vacanze gli è generalmente attribuita, anche se Marco Vallora e altri einaudiani d´una volta ricordano che le "bandine" e i risvolti passavano attraverso più uffici. Ma era una lezioncina di sobrietà senza vanità che ho tenuta molto presente in seguito, giacché dal secondo libro in poi me le sono fatte modestamente in casa, con sollievo degli uffici stampa. Riproduco il primo capoverso: «Il mondo descritto in questi cinque racconti è quello della media e ricca borghesia italiana d´oggi; un mondo che finora non aveva trovato un posto convincente nella letteratura e che il nostro cinema, salvo due o tre timidi tentativi, non ha ancora saputo rappresentare. E´ dunque una vasta e inesplorata zona della società italiana che , tenuto conto di Gadda e di Scott Fitzgerald, svolge sotto i nostri occhi; e nella straordinaria ricchezza dei particolari accumulati intorno a ciascun personaggio, nei mille pettegolezzi detti o sussurrati, negli snobismi, nelle frasi e nei gesti tipici amorosamente raccolti, nel fittissimo intreccio delle vicende, dei richiami, delle allusioni, e soprattutto nella rapidità esplosiva della narrazione, il lettore riconoscerà l´esuberanza di chi sa di aver trovato una nuova direzione, di aver fatto una entusiasmante "scoperta"». Trovavo invece sbagliata la copertina - delle puttanone sfasciate di Mino Maccari tipo Grosz anni Trenta - perché erano un ovvio richiamo ai lettori del Mondo che pubblicava le vignette di Maccari e i miei scritti. Però, essendo nato appunto nel Trenta e appartenendo al post-dopoguerra, mi parevano delle vecchie zie di Longanesi e dei suoi. Ma ho ritrovato adesso un pacchetto di lettere di Italo, che credevo (sbagliando) di aver incluso nella donazione dei miei Grandi Vecchi a Maria Corti per il suo Fondo pavese. E invece sono qui tra gli Amici Vivi. Le più interessanti spiegano il suo rigetto dei premi letterari nel ’68; e poi gli inizi delle sue ricerche sui Tarocchi, in base a Greimas e Barthes. Ma già nel ’61 si dispiaceva che la parte maggiore della sua opera in quegli anni consistesse ormai nelle tante risposte alle varie inchieste. Spiegava di aver finalmente capito che «il gran segreto per uno scrittore è celarsi, eludere, confondere le tracce!». Però, «quando una dichiarazione di metodo promette di rimuovere il costume dell´intervista portandolo su un piano di competenza e utilità mai finora toccato, uno ha anche il dovere di incoraggiarti». Eppure, siccome stava uscendo in volume un suo racconto «triste triste», magari si poteva prendere spunto di lì, «ma non come "lancio" (il libro non si presta)». Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Camillo e Anna Casati. Quando si incontravano, tra Piazza di Spagna e i lustrascarpe di Via Condotti, lei piccolina e brunetta alzava caratteristicamente il mento grazioso, mentre lui annuiva rossiccio e stempiato. Chiacchiere allora in voga, tra la misteriosa Maremma profonda e le enigmatiche isolette private. L´enorme alano regalato a chi dormiva in campagna tra i cani; però addestrato a montare chicchessia si levasse dal letto, per cui occorreva entrare in bagno passo passo riparandosi il dietro, e all´alba chiamare dalla finestra i contadini perché salissero ad abbattere con fucilate la bestia. E dubbie starlet nipponiche inviate da improbabili "auteurs" di Kyoto quali "Kakapoko Kifapokomoto" e "Orina Sumuri"... Alle spalle, fra Milano e Arcore e la Belle poque cosmopolita, figure eccentriche e drammatiche dopo i personaggi risorgimentali come Gabrio Casati e Teresa Casati Confalonieri. La celebre marchesa dannunziana e futurista Luisa, finita squallidamente a Londra dopo le follies veneziane e parigine. Il senatore modernista e poi crociano Alessandro, liberale e antifascista come l´unico figlio caduto (come Giaime Pintor) sul fronte interno della guerra civile nel 1943. A Roma, nell´appartamento della tragedia, in via Puccini, erano impressionanti le bacheche degli uccelli uccisi, in alto con vista su Villa Borghese. Grandi vetrine bianchissime e ordinatissime coprivano le pareti di sale e corridoi, ricolme di volatili splendidi o comunissimi perfettamente impagliati e montati. Centinaia: tutti con un minuzioso cartellino che spiegava il luogo e la data dell´abbattimento. Camillo Casati era un cacciatore appassionato e addirittura celebre, per mesi e mesi fra la Maremma e la Lombardia e al largo di Ponza. La prima sensazione poteva rammentare i gabinetti universitari di storia naturale: Palazzo Botta a Pavia. Ma il richiamo più pertinente risulterebbe forse al castello boemo di Konopiste, con l´assemblage venatorio maniacale dell´arciduca Francesco Ferdinando, senza distinzioni tra i più rari fenicotteri e l´anatroccolo da giardini pubblici. Qui, l´anno del film Barbarella, i Casati diedero una magnifica festa sul tema; e Anna stessa era una Barbarella bellissima in mini-plastiche d´argento scintillante, con un´abbronzatura sensuale e una morbidezza ironica. Dopo la cena, decine di Barbarelle assai leggiadre sedevano in fila con altrettanti Barbarelli in graziosi costumi spaziali sulle sedie dorate, contro le vetrine al neon piene di pernici imbalsamate illuminatissime. Tutti con la loro tazzina di caffè, in un trionfo di bon ton e bon chic. Nel grande salone impressionava piuttosto l´enorme quantità di scatoline preziose sui grandi tavolini "abbigliati" tra quei finestroni sulla Villa Borghese. Non si era ancora smesso di tenere in vista ninnoli così minuscoli e così di valore, ai ricevimenti. Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Elisabetta Catalano. Lo si è sempre detto e saputo, che è un genio della ritrattistica, camuffato da bella donna. E la sua raccolta ormai storica di facce italiane dei nostri tempi non entra in competizione soltanto con gli album dei grandi fotografi. Qui si entra in compagnia coi ritratti di pittori che ci trasmettono le forme artistiche della visività espressiva nelle variazioni fisionomiche attraverso le epoche. La visione travalica il mezzo... Soprattutto oggi, alla GAM torinese. Come eravamo tutti giovani e belli, e incolpevoli senza saperlo - secondo Elisabetta - in quegli anni Sessanta che si sono caricati di grazia retrospettiva involontaria, man mano che il look caratteriale precipitava nella non-cura-di-sé delle barbe brufolose e delle magliette zozze: quando per uscire bastano le infradito e i rotolini di ciccia; e le griffe da "cesso basso" in tv si contemplano in vecchie mutande senza logo né spots. Com´erano addirittura abbaglianti, Marta Marzotto, Marina Lante, Stefania Sandrelli, Mario Schifano, Gianni Bulgari, Cesare Tacchi. Riuscivano carini perfino Renato Nicolini, Roberto Formigoni, Laura Betti. E Pierre Klossowski o Michel Tournier potevano risultare interessanti anche senza conoscerne le opere. Ma poi, che colli squisiti, quasi tutte le "deb". Ci si sente straziati oltre che inteneriti, riguardando la bellezza struggente di Talita Getty, finita poi così male, in questo stesso appartamento scuro e vecchiotto presso l´Aracoeli, pieno dei dischi del Re Pastore di Mozart, prodotto da suo marito Paul con le giovanissime Lucia Popp e Reri Grist... E con un senso vivissimo di cose che non si recuperano: il loro fu il primo "ballo di nozze con juke-box", e casa di Cy e Tatia Twombly. Ma dove sarà mai andato Hiram Keller, protagonista del Satyricon di Fellini? Venendo ai classici, quanta sana malizia, nel Moravia tutto sopracciglia e niente labbra. Che limpidezza accattivante, negli sguardi e sorrisi autobiografici di Antonioni, Guttuso, Rosi, e Inge Feltrinelli e - supremamente - Adriana Panni. E che figurone stupende, le dive come Raina Kabaivanska e Lucia Valentini Terrani, nei loro sontuosi Capucci e Barocco. O il differente charme di Silvana Mangano e di Camilla Cederna. E questi bimbi belli? Sono Valentino Zeichen e Francesco Clemente. Ecco le vere caratteristiche del ritrattista autentico: I "beautiful people" appaiano davvero (ma come mai?) bellezze vere. Mentre le mezze calze si rivelano messe a nudo con le loro pretese e smancerie cheap, nei dettagli e nell´insieme. "E l´anima, buonanotte?" (Lo si diceva già dai tempi di Dürer, Holbein, ecc.). Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Château Marmont. Il venerando e sepolcrale albergo in stili "fra Loira e Ludwig" sul curvone del Sunset Boulevard venne mitizzato da noi dopo la tragedia di John Belushi, più di vent´anni fa. Ma piuttosto prima vivacchiava sui vecchi culti di Greta e Marlene, e degli esuli austro-tedeschi fra Columbia Picture e Warner Bros; e costava anche poco. Dunque (l´alternativa "in" era Fire Island, sulla East Coast), lontani dalle faide italiane del momento, i giovani esteti bene educati passavano volentieri l´estate qui. Ricordo sorrisi e saluti con Verde Visconti o con Bernardo Bertolucci, da un terrazzino a un altro. Si andava in meno di un´ora a Malibu, per bagno e colazione, come fra via Giulia e Castelfusano, allora e poi più. E in un´aneddotica spicciola si potrebbe rammentare che sia Burgess Meredith a Malibu sia Christopher Isherwood a "Muscle Beach" passeggiavano in spiaggia con una palla inavvertitamente fuori dai vecchi costumi da bagno. Ma traversando il Boulevard c´era lì sotto la Schwab´s Pharmacy, un minuscolo drug-store anni Trenta dove secondo la leggenda hollywoodiana furono scoperte Lana Turner e Susan Hayward e chissà quante altre, davanti a un milk-shake. E magari si poteva proseguire, privatamente, nei meandri di Santa Monica, dove (oltre la casetta fra le bouganvillee di Isherwood), sopravviveva intatta la villa beige e curvilinea con piscina stilistica sontuosamente creata per Dolores del Rio, diva e moglie, da Cedric Gibbons, designer di tutto l´Art Déco "bianco" nel bianco-e-nero della Metro Goldwyn-Mayer. Nonché autore visuale sia del film Un Americano a Parigi sia della statuetta degli Oscar. Rilevata da eleganti architette mitteleuropee, l´illustre magione dai riflessi anche rosati conservava i servizi da tavola e piscina e anche i libri negli scaffali degli ex-proprietari. E s´imparava così da vicino anche il prestigioso design austro-californiano di Richard Neutra. Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Jean Cocteau. Agitatissimo in accappatoio bianco, nel suo appartamentino piccolissimo pieno di visitatori fremebondi seduti fin sul cesso, al Palais Royal. "Mi nominano dottore honoris causa a Oxford, e avrò veste gialla e cappellino nero, starò benissimo! Tous les mauvais chemins mènent à Oxford!". Là poi iniziò la sua lectio magistralis (cose non certo abituali, allora), dicendo proprio: "Che strana epoca, la nostra, piena di artisti sconosciuti ma notissimi perché il Minotauro della radio esige ogni anno il suo pasto di giovani da divorare, mentre gli artisti celebri sono ignoti perché le innumerevoli glorie effimere falsano le scale dei valori e inghiottono le teste che emergono"... E l´Oratore Pubblico, nella Laudatio, dopo aver celebrato il Boeuf sur le toit come Bovem in tegulis: "Quid enim Orpheo, quid Parentibus illis Abominandis, quid Prole Abominanda mirabilis?"... E noi, che eravamo rimasti ai leggendari Parenti terribili con regia di Visconti... Buffi ricordi? Quando nei tardi anni Cinquanta si portò a Venezia L´Aquila a due teste, c´era una spettacolare caduta per le scalee di Jean Marais fulminato al cospetto di Edwige Feuillère. Si accorse alla versione italiana per vedere come sarebbe cascato anche Vittorio Gassman, col suo training sportivo. Già celebrato da giovanissimo, quando nella Nemica di Niccodemi (indimenticabile, all´Olimpia milanese) avanzava come un attaccante, ma a quattro zampe, urlando "babba! babba!", contro Alda Borelli che seduta su un divano e per impedirgli di rovesciarlo all´indietro con lei dentro faceva tutte le finte (vecchia scuola!) dei portieri a San Siro, fra il giubilo degli svergognati fans. Invece - sorpresa! sorpresa! - giù dalla scalea cascava la signorile Evi Maltagliati, e benissimo, nel magico ruolo (allora impopolare) dell´imperatrice Sissi. Ora, nella cara villa-museo del rimpianto "Gino" Magnani, fra i Goya e Rubens e Dürer e Morandi e il pianino di Beethoven, presso Parma e Reggio, ecco gli spiritosi e maligni disegni fatti allora da Cocteau al Lido, fra i celebri capanni ormai compianti perfino tra i low cost e i fast food. Frotte di Vendramine e Brandoline e Giustiniane e Rezzoniche, in un vol-au-vent di "culaggini" ormai storiche, con chiome e chiappe più cubiste che in Picasso. Peccato che non abbia notato anche i nostri carissimi amici critici: Pietrino Bianchi col monocolo, Sandro De Feo ed Ercolino Patti con arguzie e costumini di via Veneto, Carlo Bo galleggiante in un camicione candido che si gonfiava nell´acqua... Durante i Festival erano sempre lì. Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Giovanni Comisso. Rileggendo le sue novelle campagnole e militari (Un gatto attraversa la strada, Longanesi), subito si ricorda che mai l´"umile Italia" popolare e quotidiana è stata raccontata con altrettanta poesia e schiettezza; e men che meno attraverso i diaframmi piccolo-borghesi del neorealismo impiegatizio. Durante la guerra si leggevano accanto alle narrazioni di Guelfo Civinini e Gianna Manzini e Antonio Baldini e Alessandro Pavolini, nello stesso "Specchio" di Mondadori. Ma quei soldatini in licenza o congedo sui treni accelerati degli anni Trenta appartenevano già al cinema successivo, da Visconti in poi: con ricci neri alla Crema Venus Bertelli, o "che bagnati dalle parti dalle parti si rialzavano aspri come aculei al colmo della testa". E "a casa mangerò pollastri"; e "il mio mulo si ricorderà di me". "Due soldati di regioni lontane" si conclude come Quattro passi fra le nuvole, film di Alessandro Blasetti. Qui Gino Cervi rientrato nella grigia esistenza familiare e cittadina ha una "madeleine" di rimpianti su un pentolino ai fornelli, ricordando improvvisamente la breve evasione idillica presso una ingenua di campagna. In Comisso, il pastore siciliano Salvatore, incidendo il suo nome sul bastone, a un tratto rammenta il lontano commilitone milanese che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta, e anche a scrivere, ripetendo "La O è tonda come le ruote delle biciclette, ricordatelo". Alberto Arbasino
• I bei volti e le mezze calze. La Repubblica 13/12/2005. Pietro Consagra. Una simpatia immediata, lì per lì, avanti e indietro sui motoscafi di una Biennale ancora bella, col genio degli artisti e non con gli investimenti degli speculatori. Gli avrò detto che mettevo insieme dei marmi colorati sulle indicazioni di Raniero Gnoli e Federico Zeri? Mi regalò un suo delizioso e malizioso opuscolo fotografico sui paracarri papalini più fallici e poco osservati per le vie di Roma. Nonché una sua splendida riproduzione in alabastro di una colonnetta con prepuzio anatomico tuttora stante con parecchie analoghe in travertino, assolutamente sconvenienti, fra i pedoni indifferenti intorno al Pantheon. Alberto Arbasino
• Marlene volpi d’argento. La Repubblica 31/12/2005. Claude Debussy. Anni o decenni fa, da scolaretti ammaestrati con Senza famiglia e Il birichino di papà da mademoiselles più nubili che le macchine di Duchamp, si trascorrevano tristi domeniche («Sombre dimanche!» gemevano le Radio-Phonola più fini) diligentemente chiedendoci a chi andassero addebitate le noiosità del Pelléas et Mélisande: alle esecuzioni intimidatorie, o a noi poveri piccoli clienti? La solfa andò avanti in sedi eccelse. Colpa dell´Impressionismo? Del Simbolismo? O di quei tentacolari crepuscolarismi di massa che dai «porti delle nebbie» intorno a Bruges reclutavano i nostri Corazzini e Gozzano e Moretti in una lobby multinazionale di beghine e nazarene e pinzochere stralunate e cagionevoli, ma implacabili come le prozie e le badesse di Voghera? (Mezzo secolo dopo, fra un whisky e un altro, Leonard Bernstein tagliò corto: «Debussy è il Seurat della musica». Ma alla Scala degli «anni d´apprendistato», con De Sabata al suo e nostro meglio, non appena la petulante Géori Boué ciguettava «Ne me touchez pas», pareva di ritrovare la «Mam´zelle Nitouche» delle vecchie educatrici. Mentre quando ancora con De Sabata era subentrata Elisabeth Schwarzkopf, una Melisande così "tetesca" sembrava una specialità da Sacher Hotel. Seguirono decenni di evanescenze, inconsistenze, vaghezze, aure e atmosfere malaticce, squisite soprattutto negli allestimenti di Giancarlo Menotti. Ma sempre con l´inciampo molesto dello smorfioso «Petit Yniold» che continua a pigolare «petit père, petit père»: il più intollerabile «Pierino la Peste» in tutta la musica occidentale. (Sente piangere perfino i montoni. E lì anche i cuoricini più d´oro sviluppano il famoso «complesso di Erode» così apprezzato nella pittura barocca). Benché sia un´opera dove si piange tantissimo (ma si piangeva parecchio anche nella poesia di Pascoli e al café-chantant, allora: «Come pioveva, così piangeva», la zia), Peter Stein con Pierre Boulez la presentava in un medievalismo solido e giocattolaio da teatrino della Fiaba. Come si apprezzava nella Cenerentola di Sergio Tofano e nel Barbe-bleue di Walter Felsenstein. Poi subentrò la voga di Vestivamo alla marinara. Ma il più savio moderno apparve Peter Sellars: tutti quelli che dicono «j´ai mal», subito a letto; un´ala del castello, trasformata in ambulatorio, con madame Geneviève capo-infermiera. Termometri e clisteri. E Golaud, incontrando una sbandata tipo «Who am I? Where am I?» alla stazione, prima di proporre «voulez-vous venir avec moi?», sempre più prudentemente le chiede «quel âge avez vous?». Alla Scala, adesso, all´ultima performance di Georges Prêtre, dopo la lettura del comunicato contro i tagli allo spettacolo, come ormai dappertutto s´apre il sipario su uno spettacolo "global" e intercambiabile di vecchie liquidazioni di falsi-Prada per bidelli e becchini in lutto multiuso. Altro che aure e suggestioni di foreste brumose, per chi non ha fatto studi speciali e vorrebbe capire se siamo in un antico aeroporto o in un duomo nuovo. Il povero Golaud («ma chi era costui?», si chiede una platea di Don Abbondi), vestito e camuffato da Debussy, siede in poltrona Frau davanti alla gigantografia bianco-nera di una caccia fiamminga uso Snyders; e nei passaggi orchestrali compulsa pubblicazioni e sorseggia drinks. Il solito "abbassamento" alla misura piccolo-borghese. E benché i personaggi discorrano soprattutto di boschi e foreste inospitali e cieli bigissimi, le locazioni interne/esterne paiono tinelli polivalenti, e come "trovata" si produce una gigantesca testa di Madonna uso Lourdes, porcellanosa, adibita a podio anche nella scena del balcone, sempre imbarazzante perché la chioma spropositata di lei dovrebbe scendere di vari metri. E infatti i due protagonisti si lagnano perché si impiglia nei rami degli alberi. Qui invece si risolve come se Romeo e Giulietta senza balcone flirtassero sul testone rotto di un Colleoni o Gattamelata abbattuto. Ora, è vero che normalmente anche i letti di Violetta e Desdemona vengono sostituiti da una moto sfasciata o da una latrina di metrò. Mentre non si approfitta ancora dell´«arancione chic» sfoggiato da mondezzari e scopatori di strada. Ma se dopo tanti proclamati miglioramenti esecutivi prevale tra i fruitori e utenti un crescente feeling di «tristezza e noia» (come suggerisce il Leopardi), riecco l´annoso e scomodo problema: di chi la colpa? Chi deve chiedere scusa? Lungo l´ascolto si riflette sulle incongruenze atmosferiche. Mélisande infatti si lamenta spesso giacché il cielo plumbeo è invisibile; però quando lei e Pelléas scendono di notte nella grotta per cercare l´anello, non portano lumi e si aspettano che la luna esca da una nuvola. E mentre Pelléas annuncia una burrasca prossima con pericoli per i naviganti, l´orchestra per riferirsi a graziose marine alla Paul Signac: sicché quando lei canticchia «Saint Michel e Saint Raphaël» sembra sognare località di vacanze. Basta però che riappaia il piccolo Yniold, e si ricade ahimè in «Erode & il suo Complesso». arbasino
• Marlene volpi d’argento. La Repubblica 31/12/2005. Marlene Dietrich. La si ritrovava ogni estate a Copenhagen, ancora nei primi anni Settanta, benché ufficialmente a riposo dopo un celebre addio al Café de Paris londinese, immortalato in un disco live con presentazioni di Noël Coward e Hemingway. Due spettacoli ogni sera al "Tivoli", alle 19,30 e alle 21,30, in cartellone con Birgit Nilsson, i Mills Brothers, il celebre comico Victor Borges. E una estate, aveva come pianista Burt Bacharach poco più che bambino, cotonato e da lei vezzeggiato come un imbarazzato amante. Un´altra volta, appariva in un programma d´arte varia per famiglie turistiche, con orchestrina di vecchietti briosi e un presentatore grullo identico a Danny Kaye. Pubblico da gelateria. Sul palchetto azzurro, dopo il giocoliere cinese con tanti piatti e il vecchio cantante ossigenato poliglotta, una zingara argentina tutta in rosso danza «Una notte sul Monte Calvo» registrata mentre l´orchestrina fa le percussioni. Poi uno tzigano in viola e con violino elettrico fa un pot-pourri di Cumparsite e Ociciornie. Quindi un ventriloquo identico a Kierkegaard fa un inquietante numero di Paperini drogati di LSD. E dopo un brevissimo intervallo, e un sommario accenno al tema dell´Angelo azzurro, semplicemente lei. Identica a com´è sempre apparsa: volpi bianche e permanentina del Trenta. Pacata e diretta, «no nonsense»: il vestito sotto luccica di paillettine argentate, e il sopracciglio si dilata fra il severo e l´ironico. Voce molto tedesca, mentre rapidamente fra una canzone e l´altra riassume notizie riferite in ogni storia del cinema. Con gesti molto semplici, quasi elementari, accompagna le canzoni amate in gioventù forse imbrogliando un po´ le date: «You´re the cream in my coffee», «Blue heavens». Gran grinta riaffiora in taluni cavalli di battaglia più memorabili: «The boys in the backroom», «Not because I shouldn´t. Ma tutto liscio e continuo. Tutto molto «professionale» ma quasi meccanico, quasi minore. Poi, impeccabilmente, via le volpi, e allora sfolgora l´abito da concerto che da tanti anni fa parte della sua personalità. Con una foderina di plastica color pelle sotto le pieghe di chiffon, si dice. E certe canzoni apparentemente nuove saranno «à la manière de», o ripescate nelle oubliettes fra le due guerre, o australiane radiofoniche? Indubbiamente risulta meno «donna di spettacolo» che non Wanda Osiris o Barbra Streisand o Edith Piaf. La sua «Vie en rose» tutta sobria continua a rappresentare un´ostinazione ultraventennale. Ma non si può dimenticare l´esecuzione della Piaf disperata e smarrita con la sua testona enorme e il vestitino nero da orfanella, sul palco enorme dell´Olympia, davanti a un pubblico bramoso di vederla morire in scena come Molière. (Il che pressapoco avvenne). Però Marlene diventa eccellente quando ritorna al tedesco per «Johnny», l´angosciosa telefonata all´uomo che ha promesso di venire e poi non viene. Come nella Voix humaine di Cocteau. «Tutti froci?». Qui le grinfie riappaiono, perché non è più il richiamo di una ragazzina innamorata ma di una nonna espressionista che la sa fin troppo lunga. E «Sentimental journey» suona improvvisamente rarefatta, in una sconsolatezza senza fine. Ma non esegue più «La canzone è finita, non chiedermi dove vado» del tenore e compositore Richard Tauber. Così, con economia, con distacco, con "Nuova Oggettività", dopo quindici canzoni impeccabili in fila, arriva a un vero piccolo capolavoro, un´esecuzione disperata di «Where have all the flowers gone», lontanissima dalla melodiosità aggraziata di Joan Baez, e carica invece di eleganti sofferenze berlinesi da piano-bar "epico" e dry. Cammina un po´ a fatica, ma termina su una gag graziosa. Un vecchio usciere gallonato le porta un mazzo di fiori, e lei gli dà un bel bacio. Dopo un minuto, altro mazzo e altro bacio. Poi mazzi e baci si moltiplicano, accelerandosi come nei film dei Fratelli Marx. arbasino
• Marlene volpi d’argento. La Repubblica 31/12/2005. Luca Doninelli. Caro collega e amico, autore del Crollo delle aspettative (Garzanti), che magnifico libro sull´attuale Milano senza testa né coda né parametri, in attesa di angeli sterminatori (alla Testori) o di baüscia modaioli smangiati da nevrosi fighette e coatte, fra paninoteche rock-sushi alternative e coca-Angst da happy hour in etnoslow-winebar di provocazione e tendenza. In scarpe color cacchina. «Tutto bene?». Generazionalmente, è come se un´alluvione della memoria abbia rimosso la città dove abitavano praticamente vicini Soldati e Buzzati, Bacchelli e Montanelli, Montale, Quasimodo, Bo, Anceschi, Vittorini, Ottieri, Testori, Soavi, Sereni, e altri letterati e poeti, con editori molto «personali» e «individualissimi» come Valentino Bompiani e Livio Garzanti e Leo Longanesi e Giangiacomo Feltrinelli. E architetti memorabili. E teatri con stagioni ricchissime: il Nuovo, l´Odeon, il Piccolo, l´indimenticabile Lirico; e perfino l´Olimpia e l´Excelsior. E cartelloni della Scala con decine di novità e riprese e artisti eccelsi. Qui basta rivedere le vecchie pagine cittadine degli spettacoli, con mentalità obiettiva e statistica. E non franare nell´elegia, fra Via Senato e via Spiga dove si abitò (come pure a Roma, tra via Mario de´ Fiori e via Frattina), sulla scomparsa delle camicerie e librerie e cartolerie e salumerie, nelle strade ora piene di scarpe e valigie identiche in tutti i più sinistri aeroporti. (Avendo gli armadi pieni di griffes «assolutamente vintage», sarà piuttosto il caso di fare un´asta di modernariato storico?). Forse si sente di più l´estinzione di un´arguzia dialettale, popolare e aristocratica insieme, paragonabile soltanto all´analogo sense of humour napoletano e veneziano. Niente di simile, tra i sarcasmi fiorentini duri, o romani grevi, o emiliani triviali. Mentre a Milano corrispondeva anche un certo gusto, tradizionalmente interclassista, nel mangiare, nel vestirsi, nella musica. Portinaie, pizzaioli, gondolieri, fruttivendole, conti e marchese, ciaparatt e balabiott, Mercerie, Sancarlino, Verzee. L´Italia etnica, fra Goldoni e Porta e Tessa e i De Filippo. «Dìmel dimàn», quando il cameriere annuncia la morte del fratello. «E inscì, anca incoeu, fra una robba e l´altra, emm fatt mesdì», dopo un funerale di mariti o mogli. «Dopo ci daràn la Corsica!», sotto i bombardamenti, in cantina. E le barzellette sull´offellee, e il cervelee, e «menà i ciapp» piuttosto che non «battes i ciapp» o «andà à dà via i ciapp»... L´intraducibilità del dialetto è più ardua che altrove, però. Neanche il Varon milanes - primo (1606) lessico vernacolare locale, riportato da Dante Isella in Lombardia stravagante (Einaudi) - tenta di spiegare al forestiero la differenza fra «ciapp» (chiappe) e «ciappà» (prendere). Come si orienterà un viaggiatore fra «ciàppel» (acchiappalo) e «ciappèll» (coccetto) e «ciappètt» (chiappette)? Nell´Italia di ieri, i De Filippo e le compagnie venete erano facilmente comprensibili anche a Roma e a Milano. Ma a Roma anche gli spettatori più volonterosi non capivano i popolarissimi Legnanesi né le canzoni di Enzo Jannacci. E oggi, reciprocamente, certe famiglie abitanti a Milano protestano perché nelle scuole vengono forniti prontuari di idiomi e cibi e costumi locali simili a quelli per i turisti giapponesi nella cultura ambrosiana e meneghina impegnata nel prêt-à-porter. Così, l´integrazione "multi-culti" finisce o incomincia coi rimpianti dei Celentano e degli Zavattini per quei verdi pascoli con erba e pallone, dove poi hanno costruito i "casermoni", però i centri sociali protestano perché non bastano mai per dare alloggi ai baraccati vecchi e nuovi... Guardando poi le mappe, e contando i diametri a passi: le «mura spagnole» milanesi non erano e sono circonvallazioni più ampie del Ring a Vienna? E paragonando le facciate arcigne ai cortili ariosi: non si vedono anche a Parigi o a Pechino, i prospetti ostili su strada a cui corrispondono corti e giardini all´interno? Basta controllare le abitazioni signorili a Roma, del resto. Facciate decorose e ridipinte, fuori. Ma affacciandosi dalle cucine: balconi carichi di rottami e rifiuti, cortili come discariche di relitti. (Un tipico tema per Gadda: il vero volto zotico del condominio «distinto», ignaro che in Francia i cortili sono giardini interni e i bimbi non strappano i rami come nei nostri parchi pubblici...). Però le tristi mostre attuali sugli epigoni caravaggeschi e sui conformismi dei cardinali Borromeo - con quelle pubblicità devozionali «da toccarsi le palle» - non solo ci testimoniano che la Milano "spagnola" e dei Promessi sposi riuscì lungamente ad essere una città fra le più noiose d´Europa: chance sempre lì lì per riproporsi. Inoltre ci rammentano che nessuna grossa città europea (con o senza lotte intestine da reprimere) passò tanti secoli come colonia sotto governatori stranieri. Francesi, a partire da Luigi XII nel tardo Quattrocento, poi Napoleone ed Eugenio Beauharnais, e finalmente Piazza Affari e la Scala e i salottini. Spagnoli, con editti e precetti su religione e famiglia, da Filippo II a Zapatero. Austro-tedeschi, da Radetzky a Hitler, sempre sul territorio e nelle banche e assicurazioni, con carceri ove sia il caso. Inglesi, imperialisti efficaci di lontano, con la «Voce di Londra» e i bombardamenti di Churchill e gli attuali giornali della City, indiscussi come già i Vangeli. Così i bambini domandano: ma intanto, a Torino e a Novara, chi comandava e incassava, rispetto a Monza? arbasino