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 2005  marzo 07 Lunedì calendario

La storia in Medioriente si è rimessa a correre

• La storia in Medioriente si è rimessa a correre.
E se avesse avuto ragione Bush? Tra i tanti che cominciano a farsi questa domanda, c’era giorni fa persino ”Le Figaro”, il quotidiano più amico di Chirac e dunque il più contrario all’intervento americano in Iraq. Cesare Martinetti: «Nell’ultimo mese un’onda confusa ma devastante come uno tsunami s’è abbattuta sulle coste politicamente immobili del Medioriente. L’ha innescato quel 60 per cento di iracheni - uomini e donne - che hanno sfidato i kamikaze per andare a votare e mostrare orgogliosamente il dito tinto di inchiostro blu alle telecamere delle televisioni di tutto il mondo. Da allora sono successe le seguenti cose: elezioni municipali in Arabia Saudita, apertura di un dibattito politico negli Emirati del Golfo, la convocazione di una conferenza sulla democrazia e il libero scambio in Qatar. E poi il re di Giordania ha dichiarato che è impossibile continuare a governare il mondo arabo in modo ”dispotico” e il presidente dell’Egitto Hosni Mubarak ha proposto la modifica della Costituzione per aprire a una pluralità di candidature le elezioni presidenziali».

• Le cose stanno cambiando anche in Palestina. Marco Guidi: «Dopo la morte di Yasser Arafat le elezioni palestinesi hanno portato di fatto a un pluralismo. Ai candidati dell’Anp si sono infatti contrapposti quelli di Hamas e anche un pugno di indipendenti. Certo la strada è ancora lunga, anche perché la situazione cambia in continuazione e molto dipende dai rapporti con Israele. Lo scenario più interessante e foriero di cambiamenti di queste ultime ore viene certamente dal Libano. Le dimissioni del governo del filosiriano Karame, dopo le manifestazioni di piazza che per la prima volta vedono uniti giovani di tutte le fedi, la posizione assunta dal leader druso Walid Jumblatt, e soprattutto le fortissime pressioni esterne di Stati Uniti ed Europa nei riguardi della Siria perché cessi l’occupazione del Libano possono portare il Paese dei cedri a una rinascita democratica. Certo che i giochi sono tutti aperti e ogni soluzione, anche la peggiore, è ancora possibile. Ma nella stessa Siria avvengono cose fino a ieri impensabili, come la manifestazione di 140 intellettuali, scrittori e giornalisti per l’abbandono del Libano e l’instaurazione di regole più democratiche».
• Chiamatelo «Effetto Cnn». Gianni Riotta: «Un gruppo di coraggiosi oppositori scende in piazza contro un regime, sventolando qualche bandiera e un paio di cartelli spillati con la cucitrice. La polizia circonda la folla, in assetto da guerra. Arriva una telecamera della rete globale Cnn e riprende la scena. Dalle redazioni di tutto il mondo partono gli inviati, radio e Internet rilanciano il messaggio, gli sparuti militanti diventano folla festante. La tv va in diretta no stop, i truci poliziotti sorridono anziché menare con i manganelli, il dittatore di turno cede. Negli anni Ottanta così a Varsavia e Berlino, oggi a Kiev e Beirut. La primavera 2005 del mondo arabo, portata a Beirut dall’’Effetto Cnn”, comincia però con l’azzardo strategico dell’attacco a Saddam Hussein». Walid Jumblatt, capo della comunità drusa in Libano: «Mi sembra strano dirlo, ma il vento del cambiamento soffia su di noi grazie all’invasione americana dell’Iraq. Io ero cinico sull’Iraq. Poi ho visto la gente votare, hanno votato in otto milioni, e ho capito che era l’alba del nuovo mondo arabo».
• In un bar davanti all’Università americana di Beirut. Gabriele Romagnoli: «Il televisore era sintonizzato sulla Bbc e trasmetteva il ”promo” del programma di Tim Sebastian Hard Talk. Da un collage di affermazioni rilasciate nel corso di serrate interviste sbucava il segretario della Lega Araba, Amr Moussa, ripetendo un ritornello: ”Voi pensate davvero che la democrazia possa arrivare con i B-52? O in groppa a un carrarmato?”. Da un tavolo un gruppo di studenti libanesi sollevava la visiera dei cappellini Von Dutch e gli chiedeva di rimando: ”E che cos’altro possiamo aspettare? Che ce la porti tu? O Babbo Natale?”». [4] Riotta: «Quando, nella primavera del 2003, chiedemmo al Dalai Lama, leader dei buddisti tibetani, cosa pensasse della guerra in Iraq che divideva il mondo, il sant’uomo mormorò: ” presto per dirlo”. Non era una mistica evasione, era un giudizio filosofico: atrocità verranno fuori, sottintendeva il Dalai Lama, forse anche novità positive».
• Le elezioni irachene sembrano sempre più uno spartiacque nella politica in Medio Oriente. Mara Gergolet: «Però non tutti sono così ottimisti. Se Jamil Nimri, editorialista del giordano ”Al Arab Al Yawm”, scrive che: ”La spontanea rivolta popolare libanese può contagiare altre società arabe”, e l’egiziano Ferial Gomaa, del partito d’opposizione ”Domani”, arriva a dire alla ”Reuters” che ”dal Libano la luce della democrazia si diffonde in Medio Oriente, e nessuno può fermare la luce”, altri sono molto meno ottimisti. Walid Kazziha, professore di Scienze politiche all’Università americana del Cairo, ritiene ”tremendamente irrealistico” sostenere che l’esempio libanese si può estrapolare dal contesto: ” solo un tentativo di liberarsi della Siria: non ha niente a che fare con democrazia e liberalismo”».
• Non darla vinta a Bush, in primo luogo. Gergolet: «Eppure molti commentatori americani, contrari alla guerra in Iraq, ora riconoscono che la sua politica ha prodotto un elettrochoc, che in Medio Oriente, come dice Michael Walzer ”c’è una democrazia che aspetta di nascere”. Però si chiede anche: come farà a imporsi, se manca una società civile? In Europa dell’Est c’erano gli Havel, i Geremek e i Mazowiecki, un’intera generazione formata nella dissidenza che era pronta a prendere il potere. Un altro commentatore liberal, Thomas Friedman, si domanda sul ”New York Times” se siamo in presenza di quella ”massa critica” che produce una nuova realtà, del tutto diversa della precedente. ”Sicuramente, in Egitto, Palestina e in Iraq, siamo a un punto di svolta: ma sarei più tranquillo, se non si potesse tornare indietro”».
• Una lobby di Washington può rivendicare il successo in Medio Oriente. William Kristol, direttore del ”Weekly Standard”, tra le letture di riferimento ”neo con”: «Laddove le popolazioni si sollevano, vanno sostenute. E si crea un effetto domino». Robert Kagan, membro del Carnegie Endowment for International Peace: «Per fortuna Bush non ha mai accettato il concetto che gli iracheni, o altri popoli arabi o musulmani, non fossero ”pronti” per la democrazia e per molti le buone notizie di questi giorni, dal Libano all’Iraq, dalla Palestina all’Egitto, sono un brutto colpo. Gli esperti di Medio Oriente che predicevano il disastro non sono capaci di riconoscere che è tutt’altro che un disastro. E gli esperti di democrazia, accecati dal loro odio per Bush, non sono neanche capaci di applaudire a un’elezione quando ne vedono una».
• L’ottimismo è in aumento. Guido Rampoldi: «Se stiamo al sociologo Saad Eddin Ibrahim, il presidente del centro per i diritti umani Ibn Khaldun, oggi v’è un trend regionale verso la democrazia. Ma quale democrazia? Laica e liberale, islamica? Può nascere una democrazia liberale in una regione (i 22 Paesi arabi) dove un terzo della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e il 40 per cento è analfabeta? Sono obiezioni che Saad Eddin ascolta spesso, ma che non cessano d’irritarlo. Dice: ”Lei mi sta ripetendo il ragionamento che ha convinto tanti governi occidentali ad appoggiare le dittature arabe. Eppure pensi all’India: è una grande democrazia malgrado gli alti tassi di povertà e d’analfabetismo».
• C’è un motivo per cui gli Usa non avevano mai spinto per i movimenti democratici in Medio Oriente. Daniel Pipes, direttore del Middle East Forum: «Vedevano i religiosi vincere in Iran, in Algeria, e si chiedevano se non fosse magari meglio tenersi lo Scià o le dittature... Un pericolo esiste con gli sciiti in Iraq, e persino in Siria potremmo arrivare a pensare che era più facile avere a che fare con Assad. Per questo è importante che i processi democratici siano lenti, graduali, adottino tutti i passaggi che noi in Occidente abbiamo messo decenni a realizzare: la legalità, i diritti per le minoranze, la libertà di espressione. La guerra da vincere non è tanto quella contro il terrorismo, ma quella culturale, contro il radicalismo islamico».

• Il processo di destabilizzazione risale (almeno) al 1973. Anno dell’embargo petrolifero antioccidentale per la guerra del Kippur. Vittorio E. Parsi: «Al 1979 risale la rivoluzione khomeinista in Iran, agli anni Ottanta la lunga guerra civile libanese e poi, ad occupare i quindici anni successivi, le due intifada e le tre guerre del Golfo. Tra il 1973 e il 2005 si consuma in realtà il precario equilibrio mediorientale, stabilito originariamente nel 1919, dopo la scomparsa dell’Impero Ottomano, e successivamente sopravvissuto, sempre più malandato, allo choc della decolonizzazione e della nascita dello Stato di Israele. L’idea che la stabilità del Medio Oriente dovesse essere realizzata attraverso il sostegno esterno nei confronti di improbabili regimi politici formalmente ”indipendenti” rimonta proprio al 1919. L’11 settembre 2001 segna simbolicamente e materialmente il momento in cui si palesano come regimi in buona parte corrotti, incapaci di assicurare che dalle proprie borghesie politicamente frustrate non emergano terroristi in grado di esportare nel ”pacificato Occidente” le turbolenze mediorientali».
• Osama bin Laden ha dato avvio alla rivoluzione democratica in Medio Oriente? Timothy Garton Ash: «Una delle pochissime leggi universalmente valide della storia è la legge delle conseguenze involontarie. Le azioni di uomini e donne raramente producono i risultati desiderati, talvolta hanno l’effetto esattamente opposto. Se la legge si applica in questo caso, sarebbe arduo immaginare un esempio migliore della sua validità. Se, per ipotesi, al-Qaida non avesse distrutto le Torri Gemelle a New York, ci sarebbe tutto questo fermento in Medio Oriente? Si manifesterebbe per l’indipendenza su quella che la gente ha già ribattezzato ”piazza della liberazione’ a Beirut? Saremmo di fronte a un serio primo passo verso uno stato palestinese, a elezioni (con tutte le loro pecche) in Iraq e a una riforma democratica in boccio, piccoli virgulti di palma, in Egitto e Arabia Saudita? E la democratizzazione del Medio Oriente allargato rappresenterebbe un punto chiave nella politica americana ed europea?».
• La storia non si fa con i se. Garton Ash: «Ma sappiamo bene quale fosse la politica estera di Bush prima dell’11 settembre: potenziare la forza militare Usa evitando però i coinvolgimenti all’estero alla Clinton; concentrarsi sui grandi rapporti di potere, soprattutto sulla rivalità con la Cina. Si parlava ben poco allora di diffondere la democrazia. Promuovere la democrazia era linguaggio clintoniano, fatta eccezione per pochi neoconservatori che non avevano ancora accesso all’orecchio del presidente. E sappiamo com’era il Medio Oriente prima dell’11 settembre: fetenti dittature arabe, tollerate o persino sostenute dall’Occidente per via del petrolio, per pigrizia o per paura. Stallo politico e continuo spargimento di sangue tra Israele e i palestinesi. Questo non vuol dire che George W. Bush abbia avuto ragione fin dall’inizio. Non vuol dire che la guerra in Iraq fosse giusta». Geninazzi: « difficile prevedere fin dove si espanderà il contagio della rivoluzione dei cedri. Ma sembra proprio che la storia, dopo decenni di stagnante immobilismo, si sia messa a correre in Medioriente. Non c’è bisogno di sostenere le ragioni di chi ha voluto la guerra in Iraq per riconoscere che la caduta di Saddam ha provocato un terremoto geo-politico i cui effetti si potranno calcolare solo tra qualche anno».
• Non si chiede a quelli che hanno condannato la guerra in Iraq di andare a Canossa. Angelo Panebianco: «Essi hanno il diritto di continuare a pensare che quella guerra fosse sbagliata o immorale. Si chiede loro, però, di non chiudere gli occhi, di riconoscere che la ”storia è di nuovo in cammino”, e che compito di noi occidentali è fare il possibile per aiutare il mondo arabo a liberarsi delle sue catene. [...] La strada della democratizzazione del Medio Oriente sarà certo lunghissima. Costellata da chissà quante stragi e omicidi. Il clero iraniano e il terrorismo di Stato siriano, ad esempio, non molleranno facilmente la presa nei loro Paesi (né rinunceranno di buona grazia all’azione di destabilizzazione in Iraq o in Palestina). Però la falla s’è aperta e chiuderla, per i tiranni mediorientali, non sarà facile. difficile negare che dietro a tutto questo ci sia la concezione visionaria di chi, dopo l’11 settembre, ha pensato che solo spingendo il Medioriente verso la democrazia fosse possibile, in prospettiva, essiccare le fonti del terrorismo».
• La democrazia è un valore universale, ma oggi ha un marchio troppo americano. Madeleine Albright: «Dobbiamo domandarci di quale natura saranno i contraccolpi di una democrazia imposta dall’America. Ho trascorso molto tempo assieme a dissidenti dell’Europa dell’Est. Hanno sempre apprezzato che li si identificasse con l’Occidente e gli Stati Uniti. Volevano essere protetti. Nel mondo arabo, quanti desiderano la democrazia condividono i nostri valori, credono nel diritto delle persone a fare le loro scelte. Essere identificati con gli Stati Uniti non è un vantaggio per loro. Tutto ciò rende il ruolo degli Usa molto diverso nella promozione della democrazia nel Medio Oriente arabo. L’ostilità all’America nell’intera regione è palpabile. Così, se da un lato la democratizzazione è l’obiettivo americano, dall’altro è ampiamente vista nella regione come una forma di egemonia, non una scelta autonoma. Questo mi preoccupa».
• Gli scettici continuano a coltivare dubbi. Gergolet: «In Francia ”Libération” ammonisce che chi parla ”di contagio democratico in Medio Oriente” è spinto da ideologia. Da quale parte stanno i miopi? Giorni fa sullo ”Spiegel”, Christian Malzahn ha paragonato l’atteggiamento nei confronti di Bush, in Germania, alla supponenza nei confronti di Reagan. Venne a Berlino, nell’87, andò alla porta di Brandeburgo e pronunciò la famosa frase: ”Mr Gorbaciov, apra questa porta. Mr Gorbaciov, abbatta questo Muro”. ”I giornali tedeschi - scrive Malzahn - giudicarono il discorso folle, utopistico, anacronistico”. Poi però il 9 novembre ’89 il Muro cadde. ”Questo è quanto succede quando un popolo si scontra con gli esperti: possono succedere cose incredibili. Può aver ragione il popolo”».
• Può essere che tra dieci anni accada a Bush ciò che è accaduto a Reagan. Panebianco: «Reagan venne linciato in effigie sulle piazze europee, quando scelse di dispiegare gli euro missili per bilanciare i missili sovietici. E da irresponsabile guerrafondaio venne dipinto quando lanciò il progetto di riarmo detto ”guerre stellari”. ”Stupido cowboy”, dicevano. Ma lo stupido cowboy, grazie al suo continuo gioco al rialzo, portò l’Urss allo sfinimento e all’implosione. E nessuno oggi può più disconoscerne il valore. Magari fra 10 anni, chissà?, molti di coloro che hanno dato, ancora una volta, dello stupido cowboy a un presidente repubblicano, Bush, saranno costretti a ricredersi e ad ammettere che con la guerra in Iraq cominciò a cambiare il volto del Medioriente».