Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 25 febbraio 2002
La riforma dell’articolo 18
Conflitti
• La riforma dell’articolo 18
Conflitti. «Il rapporto di lavoro deriva dal conflitto e ogni contratto è coessenzialmente composizione del conflitto tra l’interesse datoriale a fare lavorare seriamente al meglio e l’interesse a pagare il lavoratore il minimo possibile; e viceversa. Il rapporto è tra uomini, l’uno pensa dell’altro liberamente. Il datore registra a ogni buon fine, per gratificare, promuovere, punire, allontanare. Il lavoratore pensa sempre, giudicando l’altro, che se trova di meglio se ne andrà. L’abuso di posizione dominante va represso. Ma non la dialettica che è nelle cose, in quel sano conflitto che è la molla del progresso nel senso dell’utile sociale» (Giuseppe Pera sulla ”Rivista italiana di diritto del Lavoro”, 2001, I).
• Scioperi e manifestazioni. Domani inizia la trattativa tra le parti sociali sulla delega relativa al mercato del lavoro. Contro le deleghe al governo (ci sono anche fisco e previdenza) la Cgil ha indetto per sabato 23 marzo una «grande, grande» manifestazione a Roma (obiettivo: un milione di persone in piazza) e ha proclamato per il 5 aprile uno sciopero generale di otto ore. Il sindacato guidato da Sergio Cofferati ce l’ha soprattutto con l’intenzione del governo di intervenire sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
• L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori stabilisce che le imprese con più di 15 dipendenti possono licenziare senza preavviso solo quando si verifica una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (un dipendente viene colto sul fatto a rubare in azienda); possono inoltre licenziare con preavviso e per ”giustificato motivo” quando il dipendente si rende inadempiente agli obblighi contrattuali (fa assenze ingiustificate); è infine previsto il licenziamento per ”giustificato motivo oggettivo” (l’azienda è costretta a chiudere parzialmente o totalmente gli impianti). Il lavoratore può ricorrere al Giudice del lavoro che decide di confermare il licenziamento o di imporre il reintegro nel posto di lavoro.
• L’obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiustificato esiste solo in altri due Paesi europei, Austria e Portogallo. In Gran Bretagna, Belgio e Danimarca il dipendente può pretendere unicamente un risarcimento economico; in Finlandia oltre al risarcimento si possono ottenere corsi di formazione a carico dell’azienda; in Francia un collegio arbitrale (conseil des prud’hommes) può ordinare la riassunzione, ma le aziende non sono tenute ad adeguarsi se corrispondono un’indennità che può raggiungere un massimo di 39 settimane di stipendio; stesso sistema in Germania, ma in più il datore di lavoro ha l’obbligo di motivare le ragioni che rendono impraticabile il reintegro; anche in Spagna occorre un rifiuto motivato del datore di lavoro a reintegrare, in tal caso viene corrisposta un’indennità massima di 15 giorni di retribuzione per ogni anno di lavoro, con un tetto di 12 mensilità; in Svezia l’indennità sostitutiva è compresa tra 16 e 48 mesi a seconda dell’età e dell’anzianità di servizio. Berlusconi ha parlato, «solo per fare un esempio», di un indennizzo pari a 24 mesi mesi di stipendio.
• L’indennità in denaro dovrebbe sostituire il reintegro in tre casi: per le imprese con meno di 15 addetti che superino questa soglia assumendo; per i lavoratori il cui contratto a tempo determinato venga trasformato in contratto a tempo pieno dalle imprese con più di 15 dipendenti; per i dipendenti delle imprese del sommerso che decidano di mettersi in regola. In tutti gli altri casi resterebbero in vigore le norme attuali. Lo scorso 15 novembre il Consiglio dei ministri ha varato una legge delega che il Parlamento dovrà approvare. Una volta ottenuto il sì delle Camere ci sarà un anno per emanare i decreti di attuazione.
• Chi deve temere di più questo provvedimento? A chi toccherà farne le spese? Chi potrà trarne vantaggio? Hanno poco da perdere «quei quattro milioni di lavoratori del sommerso, quasi tutti sotterrati negli scantinati del Sud, mal calcolati dalle statistiche ufficiali che li considerano in larga parte disoccupati, sconosciuti al fisco e all’Inps. Loro potrebbero metter fuori la testa, vedersi riconosciuti i diritti elementari, ottenere una vera busta-paga e contributi sociali. è però necessario che i loro imprenditori si convincano a mettersi in regola, ottenendo in cambio il diritto di poterli licenziare senza strascichi legali. Stime ministeriali parlano di un incremento dell’occupazione ufficiale di due milioni di persone dall’insieme di queste misure, quasi il 10 per cento dell’occupazione totale che è di 21 milioni». Aris Accornero, studioso di problemi del lavoro: «Questo provvedimento non farà aumentare l’occupazione più del 3-5 per cento. L’imprenditore del sommerso non è un delinquente: quando decide di emergere non pensa per prima cosa a licenziare i dipendenti. Quello che l’assilla è l’insieme dei costi a cui dovrebbe andare incontro se si mettesse in regola».
• Riguardo ai lavoratori a tempo determinato le cifre sono certe. A luglio 2001 erano 1.639.000. Nell’ultimo anno la percentuale passata a tempo indeterminato è stata del 12,5 per cento. Se questo trend restasse costante, passerebbero al lavoro fisso 200.000 lavoratori, con l’incentivo delle nuove norme potrebbero al massimo raddoppiare. Secondo Accornero in questo caso vantaggi e svantaggi si bilanciano: «Con una mano si offre loro la possibilità di diventare lavoratori a tempo pieno sottraendoli alla precarietà, con l’altra si toglie loro ogni sicurezza sociale poiché potranno essere licenziati senza giusta causa».
• Sogni. Il provvedimento non cambierà la vita a quei nove milioni e mezzo che lavorano in imprese con meno di 15 dipendenti. «Semmai gli ruba un sogno: quello che un giorno la loro azienda potrà crescere a tal punto da entrare nel novero di quelle in cui si applica la giusta causa. In futuro, queste aziende potranno assumere oltre i 15 dipendenti senza perdere il diritto di licenziare» (De Rienzo).
• Il rischio di effetti perversi. Con la riforma, le aziende potrebbero decidere di usare per i nuovi assunti solo contratti a tempo determinato: «Prima gli si farà attraversare quella sorta di purgatorio, poi si trasformerà il contratto a tempo pieno. Soltanto se percorrerà questo iter l’imprenditore avrà diritto a licenziare senza giusta causa. è evidente che si creeranno disparità fra dipendenti che, pur lavorando con pari qualifiche e mansioni, avranno un trattamento diverso: una parte di loro sarà licenziabile, un’altra no». Soluzione proposta da Tito Boeri (dirige la Fondazione Rodolfo De Benedetti) e Pietro Garibaldi, docenti della Bocconi, per eliminare il problema: il licenziamento venga introdotto in tutti i nuovi contratti (a tempo indeterminato e determinato) cosicché in futuro i lavoratori si trovino tutti nella stessa condizione.
• La sospensione dell’articolo 18 ha un significato politico e simbolico. Pietro Marcenaro, per anni segretario della Cgil torinese, ora segretario dei Ds in Piemonte: «Si vuole semplicemente togliere una tutela ai lavoratori. Per il resto, non mi pare che le aziende abbiano avuto tanti impacci nel liberarsi dei dipendenti. Oggi alla Fiat piemontese lavora un terzo della manodopera che vi era a fine anni Ottanta».
• La Confindustria contava su una misura più ampia che consentisse di licenziare non solo i lavativi, ma anche i dipendenti di mezza età. «Guadagnano più dei trentenni senza rendere come loro. Questo personale a rischio che cosa avrà da temere? Niente. La sorpresa contenuta nel provvedimento di Maroni consiste proprio in questo: i dipendenti che gli imprenditori vorrebbero licenziare resteranno al loro posto, protetti dallo Statuto dei lavoratori» (Renzo Di Rienzo).
• La fine del ”posto fisso”. La politica del lavoro del governo non si limita all’articolo 18: contratti a costo zero, lavoro a progetto, manodopera in leasing, ecc. Il libro bianco sul mercato del lavoro in Italia del ministro Roberto Maroni, e del sottosegretario Maurizio Sacconi, lascia intravedere una filosofia così riassunta: «La stabilità e la sicurezza vanno riferite non più al singolo posto di lavoro» ma «alla libertà di scelta all’interno del mercato del lavoro». Ovvero: la fine del posto fisso. L’obiettivo dichiarato è far crescere il tasso di occupazione, cioè il rapporto tra chi ha o cerca lavoro e popolazione potenzialmente attiva, riducendo il gap tra Italia ed Europa: da noi è il 53 per cento, nell’Unione europea il 63.
• Il governo punta sulla flessibilità del contratto individuale rispetto a quello nazionale, considerato troppo rigido e accentrato. E cita l’esperienza olandese del ”contratto a scelta multipla”, dove a livello nazionale si fissano alcune opzioni a scelta del lavoratore: livello salariale inferiore in cambio di maggior sicurezza del posto, retribuzione migliore ma orario più lungo, rinuncia all’indennità natalizia in cambio d’azioni. Nel caso del part time, il datore di lavoro dovrebbe indicare solo le ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del tempo parziale, il governo concederebbe più incentivi. Via tutti gli altri lacci, compresa la possibilità che il dipendente ci ripensi. Contratto a intermittenza: il dipendente non lavora sempre, ma a chiamata del datore di lavoro o in periodi prefissati (secondo il governo è uno strumento per battere il nuovo caporalato, lo sfruttamento da parte di intermediari senza scrupoli). Il governo vuol inoltre togliere il monopolio al collocamento pubblico: le aziende che oggi offrono lavoro in affitto potranno svolgere anche le altre funzioni collegate al mercato del lavoro. Leasing di manodopera: è una novità, una sorta di lavoro in affitto quasi a vita offerto da agenzie, basato sulla «fornitura di manodopera a carattere continuativo e tempo determinato». Lavoro a progetto: senza vincolo di subordinazione, il lavoratore s’impegna a realizzare con i propri mezzi un progetto o un programma di lavoro, tempi, modalità e pagamento concordati con il committente. Dal Belgio si è presa l’idea di pagare con buoni che già incorporano i contributi per assistenza e pensione attività come l’assistenza familiare, l’aiuto ad ammalati o la sorveglianza dei bambini. Contratto a costo zero: è un’idea spagnola, l’azienda è esentata dai contributi se assume un disoccupato per sostituire a tempo un dipendente in malattia o in maternità.
• Essere italiani non è una disgrazia. Fausto Nisticò, in magistratura dal 1979, dal 1983 giudice del lavoro a Pisa, critica «il continuo riferimento alle regole degli altri, dunque muovendo dal presupposto che le nostre non sono mai buone, né quelle vecchie, né quelle che per avventura si pensasse di adottare senza scimmiottare la Francia, la Spagna, la Germania, o addirittura l’Olanda [...] Questa cosa di ritenere che l’Italia possa oggi vantare solo il campionato di calcio più bello del mondo e nient’altro mi piace poco: quando, infatti, le orde barbute olandesi, rozze e feroci, calarono affamate dalle nostre parti, trovarono, come sappiamo, che il diritto si mangiava a pranzo e cena e presero subito delle lezioni. Certo oggi gli olandesi sono pochi e tutti straricchi, non hanno un sud che langue, né hanno camorristi né hanno mafiosi, né distano poche miglia dai Balcani in subbuglio, né hanno albanesi e curdi che fanno, nel mercato, il prezzo della manodopera. E dunque non capisco a che titolo si portino a esempio. Franco Cassano, sociologo mite e quasi poetico, nel suo saggio Paeninsula, l’Italia da ritrovare (Laterza, 1998), ci ricorda che ”Essere italiani non è una disgrazia” [...] Un’altra caratteristica consiste nel frequente ricorso a espressioni inglesi: soft law, legge soffice, cioè legge che non s’intrometta più di tanto nelle faccende delle parti, perché il lavoratore, come è noto, ha bisogno della legge; il datore no, perché gli basta il mercato».
• Né la sicurezza del posto di lavoro a vita, né l’incertezza sul futuro aumentano la propensione a investire su se stessi. Secondo Franco Debenedetti, senatore Ds, le nuove forme contrattuali sono «ottime se usate come un vestito tagliato su misura a coprire la varietà dei nuovi rapporti di lavoro. Però se vengono usate stiracchiandole, solo perché consentono la flessibilità in uscita, diventano cause di reticenza e ambiguità. Stando alle definizioni dei libri di testo, per avere una crescita senza inflazione ci vuole l’aumento della produttività; per avere un aumento della produttività ci vuole (anche) investimento in capitale umano; i contratti di lavoro devono definire rapporti che lo incentivino [...] Il contratto di progetto, per esempio, è vantaggioso per chi, per la sua professionalità, è forte nei riguardi dell’azienda; ma per chi è debole significa solo precarietà».
• Non più operai ma Tariconi bottega e bottega. Nisticò: «Qualche tempo fa, in televisione, si è visto un lungo servizio su una cosa da far rabbrividire chi avesse ancora del buon senso: a certi new architetti era stato commissionato di progettare e realizzare degli ambienti dove il capitale umano potesse svolgere il suo lavoro con il necessario per lo svago, per le letture, per il riposo: non più, come si dice, casa e bottega, ma bottega e bottega. A questi collaboratori nel ciclo, naturalmente, non si sarebbe più richiesto un orario di lavoro: c’erano tanti computer, ci potevano lavorare quando volevano, fra una partita a biliardo e l’altra: insomma, una specie di grande fratello lavorativo, tariconi in gabbia, una vita sotto le luci al neon. Così, si sosteneva, i nostri avrebbero lavorato di più e meglio, con maggiori indici di produttività, senza l’ossessione di sbrigare il lavoro e tornare a casa, o al bar con gli amici, magari a parlare di politica (come fanno quei vecchi operai delle fabbriche che quando suona la sirena se ne vanno via, smettono la tuta e vanno a mangiare un piatto di minestra: cose da old economy). E ancora, come sappiamo, si va proponendo di sostituire ai servizi pubblici per l’infanzia, l’inserimento dei bimbi nelle strutture aziendali parallele; giovani mamme e figli, tutti in fabbrica, sin dalla mattina. Né il Libro bianco ha pietà per gli anziani, che vuole ancora al lavoro. Bottega e bottega, dunque, dai primi agli ultimi giorni di vita».
• Dalla comunicazione che un datore di lavoro americano, Micron Company, consegna ai neoassunti: «Micron è una compagnia ”non sindacalizzata” ed è desiderio della compagnia rimanere così. Micron crede che il lavoro migliore e più remunerativo si basi su una diretta relazione tra il dipendente e il suo (o la sua) supervisore. Noi crediamo che mettendo una terza parte tra supervisori e dipendenti non si favorisca il lavoro di gruppo, né che sia la via più efficace per risolvere problemi e incomprensioni. I sindacati non possono garantire retribuzioni, benefici o lavoro continuo. Compenso e lavoro sicuro possono essere creati solamente da chi, lavorando insieme, può fare di Micron una compagnia profittevole e solida».
• Se restasse l’articolo 18, la semplice incentivazione degli arbitrati per le cause di lavoro non avrebbe effetti: «Se resta l’articolo 18, nessuno può obbligare il lavoratore a rinunciare al suo diritto di rifiutare l’arbitrato e di ricorrere al giudice. E c’è da attendersi che non vi rinunceranno gli autisti ubriaconi o i cassieri scappati con la cassa, che pure in certi casi sono stati reintegrati dai giudici. Poiché per le imprese la severità effettiva del vincolo non è quella del comportamento medio dei giudici, ma quella dei giudici che sono più severi, anche con l’arbitrato l’articolo 18 continuerà a essere per le imprese un disincentivo ad assumere e per il Paese un costoso anacronismo» (Franco Debenedetti).