Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 15 aprile 2002
Alla cena della strage di Pasqua almeno cinque delle vittime erano sopravvissute all’Olocausto
• Alla cena della strage di Pasqua almeno cinque delle vittime erano sopravvissute all’Olocausto. «Avevano con dolorosa e quotidiana volontà inventato uno stupefacente recupero: figli e nipoti, lavoro, interessi vari, sport, affetti e impegno sociale. George e Hana Yacobovich, marito e moglie, nascono in Romania nel 1923. A scuola insieme, sul medesimo treno verso Auschwitz, George salta dal treno, riesce a fuggire. Hana arriva alla famigerata rampa con padre, madre e fratelli. I suoi vengono selezionati e gassati all’arrivo, lei attraversa l’inferno e ne esce viva. Le strade dei due convergono dove è possibile immaginarsi ancora di andare avanti, in Israele, e nel ’79, ciascuno dopo un matrimonio finito e con due figli a testa, George e Hana mettono finalmente insieme la memoria e la speranza: i due compagni di scuola si sposano. La sera della cena di Pesach i due invitano a Natanya André, un figlio di Hana, con la moglie e due figlie. Il terrorista suicida, in mezzo a un mare di sangue (27 morti), ha ucciso George sul colpo, Hana lotta fra la vita e la morte, André è stato ucciso e così sua moglie, le nipoti sono ferite, ancora all’ospedale».
• Morire per un paio di scarpe. «L’accanimento sulla stessa zona centrale di Gerusalemme, la parte ebraica vicino alla città vecchia, fra via Jaffa, via King George e via Ben Yehouda, ha i toni del paradosso: ”La morte ha già bussato troppe volte”, dice Sarit, la trentaseienne padrona di origine turca di Nashim (’Donne”), negozio di moda per pesone anziane. ”Una settimana fa, sparando all’impazzata, un terrorista ha sventrato il mio negozio: sono stata risparmiata dalla sorte. Ho cambiato le vetrine e i manichini, ho riaperto la bottega: per che cosa? Per aspettare il seguito. Un paio di giorni dopo ci è piombata addosso la terrorista suicida: il mio bambino Omar di otto anni era qui, per fortuna al secondo piano. Sono corsa di sopra urlando ”Omar”, mentre il sangue era di nuovo tutto intorno: le vetrine, come in un incubo, ancora una volta in frammenti, il soffitto crollava, urla, sirene. Non c’è niente da fare qui, non si deve troppo giocare col destino. E del resto qui non ci viene più nessuno, tutto è vuoto e triste. Lei morirebbe per un vestito o per un paio di scarpe?”».
• Ragazzi cui sono state troncate le gambe, oppure accecati. «Colpiti da shock che li renderanno disabili per tutta la vita, storpi e impazziti, sono il frutto del terrorismo che trionfa: li cominci a notare in numero massiccio per le strade, non c’è famiglia o classe scolastica che non ne sia stata in qualche modo colpita. Gli ospedali sono fabbriche che lavorano a ciclo continuo a ricucire strazi da bomba; feriti gravissimi occupano senza tregua le camere operatorie. Medici, infermieri e guidatori di ambulanze sono esausti. Nell’obitorio, dove arrivano a brandelli i corpi di chi è rimasto fermo per sempre nel gesto di bere un caffè o di comprare un paio di scarpe, aumenta il personale specializzato che accompagna parenti, impazziti dal dolore, nell’impossibile compito del riconoscimento dei propri cari. Un orologio, una cartella da scuola, uno zainetto, sono talora tutto quello che resta».
• Pericoloso. «Negli ultimi tempi ogni due parole dico che ”è pericoloso”. Non saltare sul divano, è pericoloso! Non arrampicarti sul davanzale, è pericoloso! Non spiaccicarti la pasta fin sul naso, è pericoloso! Non correre in strada, no, non metterti in bocca lo scopino del water, non morsicare tua sorella, non picchiare tuo fratello, basta! Non così! Vi ammazzate! ”E’ pericoloso”, dico, quando vedo mio figlio con il cavo del telefono attorno al collo e mia figlia che tenendolo in mano gli fa fare il giro attorno alla casa come a un cane. ”Pericoloso!”, ripeto, quando li trovo nascosti in un armadio di cucina a passarsi una bottiglia di detersivo come fosse vodka; ”pericoloso”, borbotto, quando gli tolgo le minuscole dita dalla portiera della macchina prima di chiuderla. è pericoloso! Pericoloso! Molto, molto pericoloso! Un appello che ripeto almeno cinquanta volte al giorno, e i miei gemelli di due anni ridono. E ultimamente rido anch’io: una risata amara, nervosa, quando mi rendo conto di quanto ridicolo, paradossale, futile sia cercare di proteggerli dalle catastrofi domestiche quando fuori ce n’è una nazionale che pone una minaccia di tale portata: alle loro ditina appiccicose, alle loro bocche curiose, ai loro nasi che colano, a tutto il corpo, per non parlare delle loro anime. Siamo, i miei gemelli e io, nella fase cosiddetta dei ”Terribili Due”, l’età delle sfide e delle collere, una cosa che gli esperti promettono passeggera: ma che consolazione è sapere che i due anni pestiferi sono una fase, se un bimbo di un anno e mezzo sta giocando nel cortile di casa un pomeriggio e un missile palestinese Kassam gli cade proprio lì accanto?».
• Ygal aveva deciso di essere un cittadino del mondo. «Le cose che sono cambiate nella vita di Ygal dall’inizio dell’Intifada delle Moschee riguardano il suo corpo e la sua anima. un israeliano sabra, nato a Gerusalemme, un cittadino sui 45 anni, con due figli di 15 e di 10 anni. Mettiamo che faccia il giornalista, o l’insegnante, e che abbia votato Ehud Barak: da sette anni, da quando l’accordo di Oslo è stato varato, ha cominciato a immaginare che i suoi figli, Gilad ed Einat (la femmina), non avrebbero dovuto fare il soldato per niente, o quasi pro forma. Preferisce fra tutti il poeta Yehuda Amichai che scriveva ”Voglio morire nel mio letto”. rimasto stupefatto quando i palestinesi hanno cominciato a dire che Ghilò è un insediamento: ancora gli sembra che scherzino, che non parlino della sua casa moderna in cima alla collina a dieci minuti dall’Hotel King David. è fiero che Israele produca il meglio dell’hi-tech nell’informatica; quando può va a cena a Tel Aviv perché i ristoranti sono più aggiornati. Il cinema, il teatro, le gite... Ora quasi tutto è fuorigioco. Ygal aveva deciso di essere un cittadino del mondo, non del Medio Oriente».
• La giornata di Ygal e di sua moglie Irit (fisioterapista). «Comincia presto: i figli devono essere accompagnati a scuola. Prima ci andavano da soli, Einat nella scuola di Ghilò, che è stata chiusa per qualche giorno così da attrezzarsi contro le pallottole che piovono anche là come in casa. Il cortile è tutto blindato, chiuso, i bambini giocano fra le jeep dell’esercito. Le pallottole provengono dal sobborgo di Beit Jalla, a 200 metri in basso nella valle, sotto le finestre, dentro la zona A, ovvero dell’Autorità palestinese, comune di Betlemme. Due carrarmati stazionano nella valle con i cannoni puntati verso le case dei palestinesi. La bambina chiede continuamente al padre imbarazzato se davvero i soldati li difenderanno, se la notte stanno svegli».
• Gli autobus scoppiano. «Gilad, il quindicenne, prendeva l’autobus per arrivare alla media superiore in centro. Adesso, dopo aver smontato i letti d’emergenza sistemati in salotto, anche lui va accompagnato. Gli autobus scoppiano. I professori riferiscono ai genitori turbe da paura, forme di aggressività, difficoltà di rapporto con la realtà. In macchina non si perdono mai le notizie, i commenti. Ogni mezz’ora c’è il giornale radio. I nomi dei morti si moltiplicano: i soldati che perdono la vita a Gaza potrebbero essere figli del vicino. La maestra uccisa nell’agguato potrebbe essere quella collega di Irit che abitava a Dugit».
• La fortuna diventa una dea cui si rinnova il culto ogni giorno. «Quando guida, Ygal si tiene lontano dagli autobus per paura che scoppino. Se un giorno che la macchina è rotta, è costretto a salire sul mezzo pubblico, prima di farlo sbircia con sforzo dentro, poi sale e si tiene vicino all’uscita. E sa che non serve a nulla. La fortuna diventa una dea cui si rinnova il culto ogni giorno. Bisogna aiutarla: niente più mercato centrale, dove una bomba ha da poco ucciso una donna. Niente cinema o teatro, negozietti o ristoranti della zona pedonale. Pochissime visite al centro acquisti, il Canyon Malka: entri, ti frugano due volte. Prima la macchina, poi la borsa. I ragazzi arabi con le magliette della Nike, indistinguibili dagli israeliani. Ora non vengono più. Quell’illusione che la gioia della merce possa vincere le divisioni più di ogni ideologia si infrange sulla chiusura dei territori, sulla paura di essere sottoposti a domande e controlli, magari fatti oggetto di manifestazioni di odio».
• L’ultima volta che Pnina ha parlato con suo marito. «’Pronto, Pnina?”. ”Ciao, Avner: com’è lì a Jenin?”. ”Va tutto bene, non preoccuparti. E tu?”. ”Aspetto un bambino”. Pnina l’ha registrata nella memoria come una segreteria telefonica, l’ultima volta che ha parlato con suo marito, il sergente Avner Yaskov, operaio d’un kibbutz, spedito nell’inferno di Jenin. Pnina tiene in braccio Mihal, la prima figlia, accarezza la pancia ancora piatta, ”l’ultimo regalo del mio uomo”, e si chiede se avrà la forza d’accettarlo: ”Lunedì, Avner non smetteva di ridere e di gridare ’uahu!’ al telefono. Mi ha detto: ”Siete la mia felicità, il mio spirito, la mia aria”. Poi m’ha promesso che si sarebbe guardato le spalle, che aveva una ragione in più per farlo”. Quando s’è saputo che il sergente non era riuscito a guardare abbastanza bene, e che martedì era morto nell’imboscata di Jenin ai 13 riservisti, i vicini di via Minz hanno sentito un urlo da casa Yaskov. Era la mamma di Avner, non la moglie: ”Io non piango - si fa forza Pnina coi suoi 22 anni -. Guardo Mihal e capisco che non posso permettermelo”».
• L’ultima angoscia d’Israele sono i ”miluim”, i 20 mila riservisti assegnati alle prime linee. «Braccia strappate 40 giorni l’anno alla vita normale, perché s’infilino la tracolla degli M-16. ”Chiamata 8”, è il nome in codice della cartolina militare marrone che in questi giorni nessuno può ridare al postino: ”Ci mandano nei nidi di vespe come se entrassimo in farmacia”, ha detto un riservista ai giornali, dopo la strage di Jenin. ”Il livello di resistenza palestinese è andato oltre le nostre previsioni”, ammette il generale Ron Kitrey. ”Ma in caso di guerra totale - avverte il colonnello Eran Lerman -, dovremo puntare anche sui riservisti”. C’è da fidarsi? ”Noi siamo la migliore garanzia che i militari di leva non esagerino”, risponde il maggiore Massimo Portaleone, 40 anni, romano, studi alla Bocconi, scampato un anno fa a una bomba sotto la jeep militare».
• Per combattere i terroristi, bisogna essere in forze. «All’università del Monte Skopos, nel cortile centrale, si raccolgono centinaia di pacchetti, dolci, regali da mandare al fronte. Ogni venerdì Galei Tsahal, la radio militare, manda i saluti alle mamme. Ed esiste un’associazione per i weekend dei soldati immigrati dall’estero, quelli che hanno lontano famiglia o fidanzata. Non si mangia granché, nell’esercito, ed è un fiorire di barzellette sul ”luf”, l’orrenda salsiccia coi fagioli più temuta d’un tanzim. Gli spot tv dei dadi da brodo, così, immaginano il fantaccino che durante il rastrellamento riconosce l’inconfondibile profumo. E al check-point 300, quello di Betlemme, c’è sempre una ”ima”, una mamma yiddish o marocchina coi vassoi di kebab, di majaddara (il riso alle lenticchie), di zucchine e melanzane da far avere ai ragazzi, oltre la linea. ”Siamo un gruppo d’impiegate del ministero per gli Aiuti sociali - racconta Haghit, un figlio nei Territori -, ma lo facciamo di nostra iniziativa. Raccogliamo offerte da tutta Israele. Ogni mattina ci troviamo a Gerusalemme in casa di Rachel, una nonna di 67 anni, e facciamo la lista della spesa per cento soldati: sei chili di riso, sei di carne, due cassette di pomodori e di cetrioli, pane, bibite. Per combattere i terroristi, bisogna essere in forze”. Che la situazione sia diventata più pesante, dopo la strage di Jenin, Haghit l’ha capito al mercato: ”Ho fatto per pagare, come al solito. Ma gli ambulanti non hanno voluto soldi. Mi hanno regalato tutto”».
• Due metodi: la forza e la diplomazia. E quando la prima non funziona, non hai altra scelta. «’Michael B., 30 anni, è un riservista di un’unità combattente. Da domenica vestirà di nuovo la divisa e spera di indossarla solo per un mese, come prevede la norma. Ma la situazione nei Territori potrebbe costringerlo a rimanere più a lungo. Michael, sposato, segue un master in ”Scienze del Medio Oriente” e lavora in un istituto per giovani con problemi. Paura? ”Ne ho tante”. Fa una una pausa, non vuole pronunciare quel verbo. Morire. Poi riprende: ”Quando vedo la realtà in cui ci troviamo, penso che questo sia il mio compito. Devo e voglio proteggere il mio Paese”. E cosa dicono i suoi compagni dell’unità? ”Provano le stesse mie sensazioni. Ma alla fine ci salutiamo con la frase che si scambiano tutti gli israeliani in questi giorni: ”Andrà bene”. Cosa pensa di questa guerra? ”Ritengo che sia necessario fare qualcosa per far terminare questa situazione. Abbiamo due metodi: la forza e la diplomazia. E quando la prima non funziona, non hai altra scelta”. E’ convinto che sia la risposta giusta? ”Sì, dopo aver visto gli attentati a Netanya e Haifa durante la nostra Pasqua. Ho visto il fiume di sangue, mi ha colpito l’immagine dei tavoli del ristorante della strage: c’erano ancora i bicchieri colmi di vino”. E sua moglie non è preoccupata? ”Ha più paura di me. Io so che vorrebbe dirmi di non partire, però capisce la mia scelta”. Cosa prova dentro di sé? ”è come se avessi due identità. Quella nazionale, di appartenenza al Paese, e la mia privata. Però se la prima viene colpita sto male anche nel privato. Risultato: andare nei Territori è un dovere”».
• Il dialogo è molto più facile, piacevole e a volte perfino divertente che la violenza. «Ieri sera sono andata a letto tardi, stanca e nervosa. Sono ormai quindici giorni che sono sola a casa, da quando mio marito è partito soldato. Faccio fatica ad ammetterlo, ma mi manca. Mi mancano persino le nostre discussioni politiche, tante. Non che mi manchino gli interlocutori che mi dicono che non capisco niente. Ieri un generale in pensione mi ha detto con un’aria tutta tronfia: ”Visto che con la guerra non ci sono più attentati? Tu impara da tuo marito - ha aggiunto - lui sì che è un patriota e un eroe, e smettila di dire che è un soldato geriatrico (a 56 anni è andato volontario) perché su queste cose non si scherza”. Sono stata invitata da un preside a parlare con i suoi studenti di liceo. è la stessa scuola religiosa dove avevano studiato i miei tre maschi, Eyal, Joni, e mio marito. Col preside avevamo scelto anche il titolo della conferenza: ”La santità della vita e il coraggio di essere diversi”. Ieri mi ha telefonato: ”Tre genitori hanno protestato, dicono che lei non è persona adatta a parlare, che ha idee troppo diverse dalle loro. Anzi - ha aggiunto - volevano che facessi venire Effi Eitan (neo ministro di estrema destra) al suo posto. Però io ho risposto che lei verrà ugualmente. Perché ai nostri ragazzi farà solo bene sentirla parlare”. Io mi sono commossa. E questa mattina ero già sveglia alle sei per preparare la conferenza. Ho trovato nel mio computer molte e-mail, tra cui almeno tre di organizzazioni umanitarie israeliane che raccolgono viveri e medicine per i palestinesi. Se solo capissero anche gli esaltati del mondo che il dialogo è molto più facile, piacevole e a volte perfino divertente che la violenza... ».
• Una strana festa di compleanno. «è tornato mio marito, il mio soldato geriatrico (anni 56). è abbronzato, magro, ha portato a casa scarponi infangati, biancheria sporca e puzza di militare, che poi sarebbe una puzza di maschio, olio di fucili e sudore. è tornato a casa per ventiquattro ore ed è uscito di casa questa mattina alle sette mentre ancora dormivo. L’ho visto solo per poche ore. Il resto del tempo l’ha passato al lavoro, cioè in tribunale e in studio, cercando di smaltire il lavoro arretrato. Naturalmente abbiamo fatto in tempo a bisticciare. L’abbiamo fatto in macchina, tornando da una strana festa di compleanno. La festa di compleanno era di un soldato morto, Aviv, il figlio di Hanna, l’avvocatessa che lavora in studio. Aviv è morto nove mesi fa, vicino alla spiaggia di Gaza. Al ”compleanno” c’erano circa 300 invitati, compresi i suoi compagni d’armi che sono adesso a Jenin, Ramallah e Tulkarem. All’uscita anche i soldati avevano gli occhi rossi. Io ho pianto tutte le mie lacrime. Il compleanno a un morto di vent’anni, con gli ospiti, il buffet con i dolcini, il film preparato da Hanna per raccontare la storia della vita di suo figlio, l’atmosfera cupa che cercava di sembrare lieta, mi sembrava di essere entrata in un mondo al rovescio, assurdo, raccapricciante, rassegnato. E non riuscivo a togliermi dalle orecchie gli urli soffocati della nonna di Aviv che nascosta in un angolo mi stritolava la mano, e sbattendo la testa sul muro mi ripeteva tra un singulto e l’altro ”ma che Paese è questo in cui si fanno i compleanni ai morti, che le nonne vanno tutte le settimane a trovare i nipoti al cimitero? Noooo.. Noooo.. Aviv... Nooo....”».
• Ogni nazione ha il dovere di proteggere i suoi cittadini. «Tornando a casa, tra un silenzio e l’altro, Avraham, il mio marito soldato, mi ha spiegato per l’ennesima volta perché c’è la guerra e perché era giusto farla e perché lui ci è andato. ”Che Paese al mondo - mi ha detto - avrebbe accettato che i suoi cittadini venissero uccisi a decine, e in più in un giorno simbolico come la cena di Pasqua? Ogni nazione ha il dovere di proteggere i suoi cittadini. Non c’è altra scelta. E io non posso stare a casa a guardare i ragazzi partire militari per difendere il mio Paese, e stare a casa a guardarli alla televisione. Mi sentirei in gabbia, non sono ancora un vecchio. E tu smettila con il pacifismo. E con i tuoi amati palestinesi. Vedrai che alla pace ci arriveremo dopo, ma fare il pacifisti in questo momento è sbagliato e inutile. Con chi la vuoi fare la pace adesso? Con che interlocutore? Con Arafat che pagava i conti delle bombe dei kamikaze e tirava anche sui prezzi? Ma sei scema? Ma non capisci proprio niente? Non vedi che il mondo è ipocrita, che non gliene importa niente di noi? Che fa quello che gli fa comodo? Quando saremo morti tutti, allora sì che piangeranno lacrime di coccodrillo, vedrai, e che diranno i poveri ebrei che buoni che erano. Sei un’ingenua, se credi che ti puoi fidare di qualcuno”. Io gli ho risposto quello che gli ho risposto - che bisogna avere il coraggio di rischiare e di essere creativi e di inventarsi nuovi modi di dialogare e di pensare al futuro e di non rinchiudersi in un guscio difensivo e che bisogna cercare i moderati. Ma a lui è rimasta l’ultima parola: ”Smettila di piangere, che ti è calato il rimmel su tutta la faccia e sembri un mostro. Dai, andiamo fuori a cena, c’è un ristorante nuovo, ti porto a mangiare una bistecca che ti tiri su, sei proprio una gran stupida”».
• Si è rammollito il ”sabra”. «Si chiama sabra, in Israele, il frutto del fico d’India, che come tutti sanno è dolce dentro, ma ricoperto di spine fuori: questa definizione è stata applicata per quasi mezzo secolo ai figli dei primi immigrati nella Terra Promessa, cioè agli ebrei nati in territorio israeliano anziché provenienti dalla miriade di paesi della diaspora. Il sabra è una figura leggendaria: doveva rappresentare un uomo nuovo (e una nuova donna), diverso dall’ebreo perseguitato nei ghetti, forte, duro, orgoglioso, coraggioso, sportivo, spartano nei gusti, nello stile di vita e nell’abbigliamento. è stato scritto, in proposito, che i sabra erano ”monaci in khaki”, ed effettivamente avevano qualcosa della setta laica: vestiti semplicemente, più o meno allo stesso modo, come se portassero un’uniforme, che d’altronde hanno spesso indossato davvero, impegnati a vincere cinque guerre in cinquant’anni».
• Un mutamento ormai collettivo e irreversibile. «I figli non somigliano più ai padri, i giovani d’oggi sono diversi da quelli di ieri. è vero che questo succede un po’ ovunque, ma Israele è un posto particolare, e la scoperta ha generato uno shock. Che cosa vuol dire che i sabra, i giovani israeliani, si sono ”rammolliti”? Vuol dire, spiega Dasvid Tamir, direttore di un’agenzia pubblicitaria a Tel Aviv, che come modello scelgono ”uno come Leonardo di Caprio, uno che quelli della mia generazione avrebbero non solo respinto orripilati, ma forse preso a botte”. Vuol dire, racconta un padre cinquantenne, che i ragazzi vanno dal parrucchiere una volta al mese, e si fanno persino depilare, come le ragazze. Vuol dire che, maschi o femmine, abbandonano il kibbutz, cercano di evitare il servizio militare, obbligatorio per ambo i sessi, preferiscono la città alla campagna, il mare al deserto, il computer allo sport, l’individualismo allo spirito di squadra».
• Il problema che angoscia il futuro di Israele: la bomba demografica. «Nel 2020 la curva demografica israelo-palestinese sconvolgerà il rapporto fra i due popoli più profondamente dei kamikaze e dei carri armati. Arnon Soffer, direttore del Dipartimento di geografia all’Università di Haifa, ha lanciato il primo allarme nell’87. L’ultimo documento è di un anno fa. Divide il territorio in due definizioni: Grande Israele - Stato ebraico più Nablus, Gaza e Cisgiordania - e l’Israele dei vecchi confini. Nell’Israele oggi governata da Sharon, i cittadini arabo-israeliani aumenteranno dal 27 al 32 per cento, mentre gli ebreo-israeliani scenderanno dal 73 al 68 per cento. Più complicata la situazione nella Grande Israele: arabi, 58 per cento, ebrei 32, rapporto che esaspera le ferite di sempre e può alimentare avventure pericolose se non controllate dal buonsenso. Ad invecchiare Israele non è solo la natività ”europea” contrapposta alla fertilità araba. Il guaio è l’emigrazione ferma. L’ultima ondata risale a dieci anni fa, sfacimento dell’impero sovietico. Sbarcavano in massa. Non più. Il bilancio del nuovo millennio è negativo. E l’aria di guerra non invoglia chi è lontano a raggiungere la terra promessa. [...] In futuro chi arriva andrebbe sistemato all’interno del Paese, dentro le comunità arabo-israeliane. Urgente frammentare con i coloni il più popoloso bacino arabo-israeliano della Galilea: Um el Fahm. Per il momento tranquillo, per il momento. Ma con i numeri cambiati del 2020 cosa succederà?».