Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 7 gennaio 2002
Il ponte sulla Drina
• Arcate e alture. «In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d’armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio».
• Teste. «Si capisce che la stagione invernale non entra neppure in conto, perché d’inverno il ponte viene attraversato soltanto da chi vi è costretto, e questi allunga il passo e piega la testa sotto il freddo vento che soffia ininterrotto sul fiume».
• Tributo di sangue. «Tutto questo, come il ponte stesso, è un’opera pia del gran visir Mehmed Pascià, il quale, più di sessant’anni fa nacque qui oltre quelle montagne, nell’alto villaggio di Sokolovici, e che, durante la sua fanciullezza, insieme con un gruppo di ragazzetti serbi fu portato a Istanbul come ”tributo di sangue”».
• Grandi edifici. «Trascorsero i primi cento anni, tempo lungo e mortale per gli uomini e per molte loro opere, ma trascurabile per i grandi edifici».
• Fatti. «Guardate attraverso il fumo del tabacco o attraverso un bicchierino di rakija, quelle scene apparivano spesso trasformate dalla fantasia e dalla distanza, ingrandite e abbellite, ma nessuno di loro se ne accorgeva, e ognuno avrebbe giurato che i fatti si erano svolti proprio così come li narravano».
• Oblio e canto. «L’oblio cura ogni male, e il canto è il modo migliore per dimenticare, poiché, quando canta, l’uomo ricorda solo quello che gli piace».
• Mutazioni. «In ogni esercito le cose mutano lentamente, e in quello turco più lentamente che in qualsiasi altro».
• Aria. «L’aria odorava di melone e di caffè tostato».
• Tregue. «Nel loro sangue hanno la convinzione che la vera vita consiste in una serie di tregue, e che sarebbe folle e inutile turbare queste rare tregue, cercando un’altra vita, più salda e più stabile, la quale non esiste».
• Eternità. «Ma le miserie non durano in eterno (in ciò sono simili alle gioie)».
• Pali. «A che servivano tutti questi clamori, quando ecco che arrivava un tempo in cui si precipitava tanto in basso che non si poteva né morire né vivere, ma si imputridiva come un palo sulla terra ed a tutti si apparteneva fuorché a se stessi».
• Parole. «Era convinto di parlar bene e ciò lo induceva a parlare molto».
• Tasche. «Gli sembrava di avere in tasca il sole».
• File. «Vent’anni di occupazione sono una lunga fila di giorni e di mesi».
• Invecchiamento. «Ha già la barba bianca, sempre accuratamente spuntata e arricciata, e il volto intero e calmo e liscio, poiché gli uomini dal senno saldo e dal cuore duro invecchiano lentamente».
• Breve vita. «Ecco che cos’era: gli imperatori, ormai da trent’anni, si lanciavano vicendevolmente messaggi attraverso le regioni e le città attraverso le teste dei loro popoli. E difficile era ogni parola in ciascun proclama di ogni imperatore. I paesi si spezzavano, le teste volavano. E così si diceva: ”seme... stella... cure del trono” per non dover chiamare le cose col loro nome e per non far capire di che si trattava: che le contrade e le regioni, e insieme con esse gli uomini vivi e i loro centri abitati, passavano da una mano all’altra come monete spicciole, e chi era pio e animato da buone intenzioni non trovava pace sulla terra, neppure per quel poco che gli occorreva per la sua breve vita».
• Punti. «La frontiera turca, che fino al giorno prima si trovava a una quindicina di chilometri dalla cittadina, arretrò improvvisamente di oltre mille chilometri, fino ad un punto oltre Adrianopoli».
• Esortazioni. «Uccidete ciascuno il vostro vicepascià!» (l’eroe serbo Karadjordjevic).
• Tributi. «Come ogni giovane deve non solo soddisfare gli eterni, naturali desideri della giovinezza e della maturazione, ma anche pagare il proprio tributo alle correnti spirituali contemporanee, nonché alla moda e alle usanze della sua età, che imperano per breve tempo in mezzo alla gioventù».
• Proverbio ottomano. «Esistono tre cose che non si possono celare: l’amore, la tosse e la miseria».
• Motivi. «E quanto più piangeva, tanto più trovava motivo di piangere».
• Nuove tempeste. «E così in mezzo a tutta quella nuova tempesta che si riversò sulla città, scotendo dalle fondamenta e rovesciando antiche abitudini, uomini vivi e cose morte, il ponte continuò a stare in piedi, bianco, duro e invulnerabile come era stato sempre».
• Vuole la leggenda che quando un bambino, tra i tanti che nella Bosnia ottomana le soldataglie turche rapivano per portare a Istambul, divenne Pascià, realizzò un desiderio per sanare una lacerazione che aveva nell’anima. Costruire un ponte sulla Drina che collegasse le due sponde del fiume. Lì dove sua madre, che disperatamente lo seguiva per salvarlo, si era dovuta fermare e arrendersi. Intorno a questo magnifico ponte, si snoda la vita della gente di Visegrad, musulmani, cristiani ed ebrei, divisi nelle aspirazioni, ma uniti nei destini. Dalla fine della dominazione turca, alla nascita di un regno jugoslavo indipendente, passando per il periodo di occupazione asburgica. Narratore per eccellenza delle vicende storiche dei popoli bosniaci e delle loro lotte intestine, specie in Lettera del 1920 e in altri racconti sarajevesi, Ivo Andric nasce nel 1892, a Travnik, da un modesto artigiano cattolico, morto precocemente. Studia, durante l’occupazione asburgica, a Zagabria, Vienna e Cracovia seguendo soprattutto corsi di filosofia. Fa parte di gruppi nazionalisti entrando in contatto con quello che organizza l’attentato di Sarajevo nel ’14. Viene arrestato, e graziato nel ’17. Si stabilisce a Zagabria, dove fonda una rivista nazionalista. Dopo la prima guerra mondiale si trasferisce a Belgrado e inizia la carriera diplomatica. a Trieste, Roma, Bucarest, Madrid, Bruxelles e Ginevra, infine a Berlino durante il nazismo. Allo scoppio del secondo conflitto si isola e scrive. Muore nel marzo del 1975, dopo avere ottenuto tra l’altro il Nobel nel ’61.