Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 1 gennaio 2002
In principio era l’Eden: il denaro non esisteva
• In principio era l’Eden: il denaro non esisteva. Per la semplice ragione che non c’era nemmeno lo scambio. E se è possibile un’economia di scambio senza denaro, non si dà invece il contrario. Nel mondo dei cacciatori e delle raccoglitrici di cibo, in quell’evo paleolitico che va dalla comparsa dell’Homo sapiens all’8000 a.C., si viveva, per usare la definizione di Carl Bucher, all’interno di ”un’economia domestica chiusa”.
Quando, col neolitico, le popolazioni da nomadi diventano stanziali (cioè si fermano in un posto invece di vagare alla ricerca di cibo), si affaccia lo scambio che però avviene solo sotto forma di dono. Il regime del dono è caratterizzato dal fatto di essere collettivo, fra tribù e tribù, clan e clan, famiglia e famiglia, e di postulare, come obbligo morale, un controdono che però non avviene nello stesso momento del dono ma dopo un certo periodo di tempo. Per migliaia di anni, durante tutto il periodo neolitico e nelle realtà tribali che han resistito fin quasi ai nostri giorni, gli uomini hanno scambiato in questa forma che escludeva a priori qualsiasi fine di lucro. Accanto a questo scambio collettivo, rituale, ne esisteva anche, ma malvisto e in posizione del tutto marginale, uno individuale che era ammesso purché si svolgesse nella forma del baratto puro senza badare al valore degli oggetti scambiati (io ti do una cosa che ho, in cambio di una che non ho) e quindi anch’esse senza lucro.
• Benché gli scambi avvengano solo nel modo del baratto, collettivo o individuale, è nel neolitico (tra il IX e il VII millennio avanti Cristo) che appare la prima forma di moneta, la moneta-merce: conchiglie, ostriche, sale, perle, braccialetti, catenelle, certi tipi di pietre, zanne di cinghiale e di elefante, denti di cane o di capodoglio, pesce essiccato, pelli. Ci sono anche la moneta-utensile e la moneta-bestiame (buoi, vacche, pecore). La moneta-merce non è però ancora denaro in senso proprio e, per essere più precisi, completo perché delle quattro funzioni tradizionalmente attribuite al denaro ne possiede solo alcune e non delle più importanti. La moneta-merce serve come deposito di ricchezza e mezzo di pagamento (essenzialmente si pagano con essa alcuni servizi e i tributi ai capotribù e ai capiclan) ma non è intermediario dello scambio e nemmeno, in una civiltà che non conosce ancora la scrittura, misura del valore.
• Con la fine del periodo neolitico si chiude la preistoria e si entra in una nuova fase chiamata età del bronzo caratterizzata dalla formazione dei grandi imperi, Sumero, Assiro, Babilonese, Ittita, Harappa, Egizio e dal fenomeno, del tutto nuovo, dell’urbanesimo. Nasce la forma-Stato. All’interno di queste entità vaste e complesse i vari gruppi, tribù, clan, famiglie perdono parte della propria autosufficienza e lo scambio non è più un donare per il piacere di dare e di ricevere, ma comincia a diventare una necessità. Prende perciò piede il baratto individuale, contestuale, diretto, molto diverso dal regime del dono e del controdono collettivo, dilazionato nel tempo e spesso indiretto (il controdono può essere fatto anche a un terzo soggetto purché faccia parte del circuito del dono). Inoltre ora che i beni primari non sono più, e comunque non sono sempre, a portata di mano, non è più possibile il baratto nella forma ”pura”, indifferente al valore delle cose scambiate. Sembra la situazione ideale per la nascita del denaro, come intermediario dello scambio, e del libero mercato basato sul meccanismo domanda-offerta-prezzo. Invece durante il periodo degli antichi Imperi, che durò tremila anni, ci si regolò diversamente, secondo il metodo delle equivalenze. Lo scambio deve avvenire secondo certe equivalenze prefissate (dalla legge, dalla consuetudine, dalle convenienze) fra bene e bene. L’equivalenza è una ragione di scambio fissa. In un sistema di equivalenze la moneta non è necessaria. Lo scambio avviene ancora in natura, nella forma del baratto diretto (una misura di frumento contro una giara di vino) o indiretto quando l’acquirente raggiunge il suo oggetto del desiderio attraverso una serie di passaggi di mano.
• Durante gli antichi Imperi orientali nessun bene, per quanto diffuso e intercambiabile, divenne mai intermediario privilegiato per lo scambio, raggiungendo così la dignità e la funzione di denaro. In questo periodo – scoperta la scrittura – alcuni beni acquistano però la funzione di moneta come misura di valore e moneta di conto benché gli scambi avvengano sempre nella forma del baratto. Max Weber parla di «baratto con computo di moneta». Nel sistema delle equivalenze la moneta serve quindi per facilitare il baratto, ma non lo sostituisce, non funge da mezzo di scambio, non è mezzo di scambio, non è denaro.
A questo punto dell’evoluzione sono quindi all’opera tre delle quattro funzioni del denaro: deposito di ricchezza, mezzo di pagamento, misura del valore. Ma queste funzioni non vengono riassunte da una sola moneta-merce. Nelle società arcaiche non esiste una moneta ”buona per tutti gli usi”, ma monete diverse per le diverse funzioni del denaro. Sarà solo quando apparirà la moneta coniata come mezzo di scambio che essa assorbirà anche le altre funzioni e diventerà denaro come modernamente lo intendiamo.
• Tuttavia col sistema delle equivalenze siamo ormai molto vicini al denaro vero e proprio. Diversamente dal ”baratto puro” la cosa non ha più solo un valore in sé, determinato dall’utilità che ne ricavo, ma ha un certo valore precisato non solo dal valore dell’oggetto che ricevo in corrispettivo ma da un parametro ”terzo” e generale, cioè dal raffronto con tutti gli altri oggetti teoricamente scambiabili. Questo ”terzo” è la moneta come misura di valore, che è già denaro anche se gravemente monco perché gli manca la funzione di intermediario nello scambio, mentre quello di deposito di ricchezza e di mezzo di pagamento sono affidate ad altri e diversi beni.
Inoltre già dall’epoca degli antichi Imperi orientali il denaro si era manifestato, sia pure in termini molto vaghi, nelle sue forme più astratte e pure: quelle del segno e del credito. Quando, per esempio, un funzionario dei magazzini imperiali, che avevano il compito di redistribuire la ricchezza in un sistema sostanzialmente comunistico come era quello, registrano nei loro libri un debito o un credito creano, in realtà, denaro. Il denaro infatti raggiunge la sua perfezione e la sua purezza quanto più si smaterializza. Perché il denaro in quanto tale non esiste, è un’astrazione, una logica, una parte della nostra mente. In qualsiasi forma si presenti (moneta-merce, oro, monete metalliche, cartamoneta, banconote, azioni, obbligazioni, Bot, registrazioni in conto corrente, impulsi elettronici, tacca con cui il barista segna che gli devo un caffè) è sempre una promessa. Chi detiene del denaro è in possesso di una promessa che qualcuno, per il momento indefinito, farà qualcosa per lui (gli fornirà una merce, un servizio, dell’altro denaro, eccetera).Seguendo Schumpeter il denaro, nella sua essenza, è sempre un credito, un credito che, a differenza del credito propriamente detto, è verso ignoti.
• La moneta è invece il supporto materiale in cui si incarna il denaro, il segno dell’esistenza di questo credito e di questa promessa. Nonostante vi si fosse molto vicini, il denaro in senso proprio non era però ancora nato. Le sue funzioni erano rimaste divise e frammentate fra oggetti diversi, tanto che, come in un puzzle scompaginato, non c’era la consapevolezza che componessero una figura unica, che fossero emanazione della stessa entità. Inoltre mancava ancora la funzione più importante e decisiva del denaro, quella di intermediario dello scambio. E anche lo spirito del denaro, il suo essere credito, promessa, scommessa sul futuro (perché il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, per questo è così sfuggente e indecifrabile), aleggiava qua e là ma non si era ancora mostrato nella sua compiutezza, né aveva preso corpo in una forma univoca e riconoscibile. Il denaro era come la creatura di Frankenstein, i cui pezzi fossero però sparsi per il laboratorio, il più importante non fosse ancora stato forgiato e alla quale mancasse - a darne unità, immagine e vita - il soffio dell’Artefice.
• E finalmente lo spirito del denaro decise di scendere sulla terra, di incarnarsi e di palesarsi agli uomini. L’evento ebbe luogo in Lidia, un piccolo regno dell’Asia Minore che era nell’orbita della cultura greca, fra la fine dell’ VIII secolo a.C. e l’inizio del VII. Fu il re della Lidia, Gige, progenitore del più noto Creso, a coniare la prima moneta, l’elektron (una combinazione di oro e argento), garantita nel peso, nella misura e quindi nel valore, dallo Stato, e che riuniva in sé tutte le funzioni del denaro: deposito di ricchezza, misura di valore, mezzo di pagamento, intermediario nello scambio. L’esempio fu immediatamente seguito da altre città greche dell’Asia Minore, Mileto, Efeso, Samo, Focea, cui si aggiunsero, poco dopo, Chio, Smirne, Cizico e Lampsaco.
Nella Grecia vera e propria la moneta coniata arrivò solo nel 630 a.C. e ad Atene una trentina di anni dopo: era l’obolo. Passarono però due secoli perché il denaro, dopo aver conquistato Cirene, la Tracia, l’impero persiano, le regioni interne al Mar Nero, Cipro, la Magna Grecia, approdasse anche a Roma e nell’Italia centrale. In contemporanea con la nascita del denaro, e non casualmente, fecero la loro apparizione la filosofia, la scienza, la polis (cioè la città-stato greca), la democrazia, la personalità, la distinzione fra lavoro manuale e intellettuale, il lavoro individuale, la povertà individuale e la solitudine dell’uomo.
• Il denaro generò direttamente dalle proprie costole il proprio fratello siamese, il mercato basato sul meccanismo domanda-offerta-prezzo e il suo figliolo prediletto: l’interesse e il parto di costui, l’interesse composto. E col denaro arriva il capitale. La ricchezza, da statica che era, diventa dinamica, non è più utilizzata a scopi di tesaurizzazione, di esibizione, per essere dilapidata a maggior gloria di chi la possiede, come accadeva nelle comunità neolitiche e tribali e, come negli antichi Imperi, per essere redistribuita, ma la si investe per procurarsi altra ricchezza. Si investe cioè sul futuro, che è denaro. Soprattutto la comparsa dell’interesse sconcertò gli antichi perché si riteneva inconcepibile, perverso, che una cosa inanimata per eccellenza come il denaro potesse partorire altro denaro.
Col denaro e l’interesse, che allora veniva chiamato senz’altro usura, irruppero molte attività finanziarie nuove o quasi: mutui, ipoteche, prestiti su pegno, cambi di valute e anche la cambiale che però, non potendo essere girata, non assume la funzione della carta-moneta. Intorno al IV secolo compaiono in Grecia le banche, anche se il termine è improprio perché non erano istituti specializzati esclusivamente nel concedere e ricevere prestiti ma conservarono sempre altre attività accanto a quella finanziaria.
• Tutte queste sconvolgenti novità han fatto dire agli storici dell’economia che il periodo che va dal VII secolo avanti Cristo al II dopo Cristo è l’epoca del ”capitalismo antico”. Il termine va preso con le molle perché in realtà sia il denaro che il mercato incontrano molti limiti, soprattutto psicologici e religiosi. In vaste aree di quello che era diventato l’Impero romano si continuava a scambiare in natura e il popolino, che conservò anche successivamente, fin dopo la Rivoluzione industriale, una istintiva diffidenza verso il denaro, se appena poteva preferiva di gran lunga scambiare nella forma del baratto. In ogni caso già nel II secolo dopo Cristo il sistema monetario entra in crisi, con le inflazioni, il ritorno in larga misura alla redistribuzione centralizzata in natura che era stata propria degli antichi Imperi, finché col crollo dell’Impero romano il denaro scomparve quasi del tutto dalla circolazione e conobbe un’eclissi che, in Occidente, doveva durare quasi mille anni. Ma non era morto. Era solo ”in sonno”.
• Tutte queste sconvolgenti novità han fatto dire agli storici dell’economia che il periodo che va dal VII secolo avanti Cristo al II dopo Cristo è l’epoca del ”capitalismo antico”. Il termine va preso con le molle perché in realtà sia il denaro che il mercato incontrano molti limiti, soprattutto psicologici e religiosi. In vaste aree di quello che era diventato l’Impero romano si continuava a scambiare in natura e il popolino, che conservò anche successivamente, fin dopo la Rivoluzione industriale, una istintiva diffidenza verso il denaro, se appena poteva preferiva di gran lunga scambiare nella forma del baratto. In ogni caso già nel II secolo dopo Cristo il sistema monetario entra in crisi, con le inflazioni, il ritorno in larga misura alla redistribuzione centralizzata in natura che era stata propria degli antichi Imperi, finché col crollo dell’Impero romano il denaro scomparve quasi del tutto dalla circolazione e conobbe un’eclissi che, in Occidente, doveva durare quasi mille anni. Ma non era morto. Era solo ”in sonno”.
• Il collasso dell’Impero, e delle sue raffinate strutture giuridiche, sotto l’incalzare delle invasioni barbariche costringe la gente a lasciare le città e a rifugiarsi, poiché non c’è più nessuna autorità che può garantire l’incolumità, presso i monasteri e presso le poche grandi villae dei possidenti rimaste in piedi. Nascono il feudo e l’economia curtense che si caratterizza per un ritorno all’autoproduzione, all’autoconsumo, all’autosufficienza e allo scambio in natura, merce contro merce o servizi. Il denaro è ancora usato nella sua funzione di misura del valore per facilitare questi scambi nella forma del baratto.
Dopo l’anno Mille, attenuatasi la minaccia delle invasioni barbariche e degli arabi, si assiste a una prima, timida rinascita della città, che si fa consistente nel XII e nel XIII secolo con l’affermarsi in Italia dei Comuni e in Europa di alcuni grandi centri. E la città, che per definizione non è autosufficiente, vuol dire il ritorno del denaro. Si formano due economie parallele: quella cittadina, monetaria, e quella della campagna che resta naturale. La separazione non è assoluta.
A parte il fatto, strutturale, che la sostanziale autosufficienza non lo stimola ad usare il denaro, anche il contadino europeo, come già la plebe di Roma e della Grecia antiche, conserverà sempre una grande diffidenza per l’economia monetaria. A metà del Settecento, nel 1751, un economista attendibile come Ferdinando Galliani scrive: «I contadini, che costituiscono i tre quarti del nostro popolo, non regolano la decima parte dei loro consumi in denaro contante». Per tutto il Medioevo e ben dentro il XVIII secolo l’economia monetaria resta quindi largamente minoritaria. però proprio nel basso Medioevo che fanno il loro ingresso delle novità che avranno un’importanza decisiva nello sviluppo successivo del denaro. La prima, e determinante, è l’affermazione del mercante. Fino ad allora il mercante, per quanto ricco potesse essere, aveva occupato uno degli ultimi gradini della scala sociale. Era profondamente disprezzato. Presso tutte le culture preindustriali, d’Occidente e d’Oriente, si è sempre pensato che ci fosse qualcosa di marcio e di meschino nel comprare e vendere oggetti a fini di guadagno. L’attività del mercante era sentita come qualcosa di immorale.
• Fra l’XI e il XIII secolo si forma invece, prima nell’Italia del centro e del nord poi nelle Fiandre e in Inghilterra, una forte, organizzata e agguerrita classe di mercanti che si consolida ulteriormente nel XIII e XIV secolo. E l’ascesa del mercante significa ascesa contestuale del denaro perché, come scrive Sondari, l’attività del mercante «viene dal denaro e al denaro ritorna». Ma il fatto veramente dirompente è che col mercante dell’ultimo Medioevo nasce un tipo d’uomo completamente nuovo, una figura sconosciuta alle società precedenti: il borghese. Max Weber e Wermer Sombart ci hanno fornito un elenco dettagliato delle attitudini del borghese ai tempi di quello che viene chiamato il ”capitalismo commerciale”: individualista, inquieto, industrioso, attivo, anzi superattivo, doveristico, razionale, calcolatore, metodico, ordinato, costante, frugale, moderato, parsimonioso, timorato di Dio e, infine, amante del rischio ma ”con judicio”. E certamente queste sono le caratteristiche del borghese, ma esistevano anche prima seppur non tutte concentrate nello stesso individuo. allora la sete di guadagno a individuarlo.
• Dall’attività del mercante germogliano poi due istituti che daranno ulteriore sviluppo al denaro. Una è la lettera di cambio, la prima forma di cartamoneta, una moneta cioè priva, esplicitamente, di qualsiasi valore intrinseco, nemmeno immaginario. Una moneta, come si dice, fiduciaria, basata sulla fiducia.
La lettera di cambio nasce dall’esigenza di trasferire denaro in luoghi lontani senza doverlo trasportare materialmente, con i relativi rischi. C’è un mercante, poniamo, di Firenze che è in affari con un suo collega, poniamo, di Bruges. Il mercante fiorentino deve pagare un terzo soggetto a Bruges. Cosa fa? Spedisce a costui una lettera il cui contenuto è la richiesta al mercante di Bruges di saldare in vece sua il debito («E per me pagherete al latore della presente...» è la formula di rito). Per riprendersi i quattrini il mercante di Bruges chiede al collega fiorentino di fare un’operazione analoga, oppure sconta la somma in un altro affare che ha con lui. La lettera di cambio può essere triangolare, quadrangolare, eccetera, può essere cioè ceduta a terzi e da questi ad altri ancora e costituisce quindi la prima forma di circolante in cartamoneta. Il più antico esempio conosciuto è del 1155, ed è contenuto in un documento genovese, ma si tratta di un’eccezione. La lettera di cambio è ben documentata solo a partire dal Trecento.
Con la lettera di cambio si comincia a speculare in senso finanziario, a comprare denaro con altro denaro, si comincia a ”scontare”: se chi è in possesso della lettera ha bisogno di liquidità gli si compra la lettera a un prezzo inferiore. Nasce anche il primo mercato finanziario: la Fiera di Besançon, nel 1535, dove si traffica esclusivamente a lettere di cambio. Queste Fiere di cambio fungono anche da camere di compensazione molto simili alle moderne clearing houses.
• Pure la Banca nasce dall’attività del mercante, che spesso opera come un banchiere, facendo prestiti occasionali e accettando depositi da familiari e amici. La professionalizzazione e la specializzazione del credito come attività esclusiva si ha però solo con la nascita dei Banchi pubblici. Il primo in assoluto è la Taula de canvi di Barcellona, del 1401, seguita pochi anni dopo dal più noto Banco di San Giorgio aperto a Genova nel 1408. I Banchi pubblici, con gli anticipi, i prestiti, i mutui, i titoli pubblici, molto simili ai nostri Bot, le girate da conto a conto, ampliano enormemente i mezzi di pagamento, gonfiano cioè il volume del denaro. L’oro e l’argento, che sono la moneta corrente dall’epoca del ”capitalismo antico”, non bastano più all’arrembante ”capitalismo commerciale”.
Più o meno in contemporanea con l’affermarsi dei Banchi pubblici compaiono le monete cosiddette immaginarie, cioè monete di conto che servono da unità di misura, per calcolare il valore delle monete effettivamente circolanti, fissare prezzi e salari, tenere la contabilità commerciale, ma che non hanno alcun corrispondente materiale. Nel XVI secolo, nel XV e in alcuni casi anche prima, la lira tornese, la lira parisis, la lira sterlina, il ducato veneziano, il ducato di Spagna, nonostante i loro nomi fascinosi, non esistono in natura.
• La comparsa della moneta immaginaria, di quella scritturale (lettera di cambio), la diffusione sistematica del credito tramite i banchi, fanno parte di quel processo di progressiva smaterializzazione e astrazione del denaro che ha il suo apice ai giorni nostri.
Ma, per il momento, questi giochetti finanziari riguardano solo i mercanti, i banchieri, i gabelotti, cioè il ristretto giro di persone che maneggia il denaro per professione. Anche la moneta coniata rimane «una cabala intesa da pochi». Gli altri preferiscono scambiare servendosi della vecchia moneta-merce o addirittura nella forma del baratto.
Perché il denaro conquisti l’intero esistente bisognerà aspettare un avvenimento speciale: la Rivoluzione industriale.
Con questo evento, strettamente intrecciato ad altre rivoluzioni, che le sono più o meno coeve, agraria, scientifica, tecnologica, politica, religiosa (la Riforma protestante), si compie in Europa un capovolgimento di portata copernicana: si passa da un’epoca in cui l’economia è ancora subordinata alle esigenze della comunità umana a un’altra in cui le leggi economiche prendono liberamente il sopravvento ed è l’uomo a doversi piegare ad esse. Ciò potenzia ovviamente il denaro che dell’economia diventa il centro, tanto che Pierre Vilar può scrivere che «il passaggio dal feudalesimo al capitalismo è il passaggio da un’economia dove il denaro è secondario ad un’economia monetaria». La Rivoluzione industriale, che parte dall’Inghilterra intorno al 1750 e si completa, in Europa, almeno per i maggiori Paesi, e negli Stati Uniti verso il 1870, accelera, spostando il centro della produzione dalla terra alla fabbrica, tutti i processi che portano alla circolazione del denaro.
• Quello che prima era un produttore, il contadino, che viveva del suo sulla terra, diventa un consumatore e un salariato che per procurarsi i beni di sussistenza ha solo il denaro scambiato con la sua forza-lavoro. Non solo. Con l’industrialismo il mercato è invaso da un’immensa e variegata quantità di beni e a questo punto il bisogno dell’individuo di procurarsi denaro diventa totale: se prima gli era necessario soltanto per la sussistenza, e per quella parte di sussistenza che non riusciva a procacciarsi direttamente, adesso per tutto ci vuole il denaro. Ma se con l’industrialismo il denaro è indispensabile a valle del ciclo produttivo, ancor più lo è a monte. I macchinari complessi propri dell’industria vogliono infatti previsioni e investimenti a lungo e a lunghissimo termine che possono essere calcolati e fatti solo con capitale monetario. Inoltre, come nota Simmel, il denaro è indispensabile alla tecnica perché è il veicolo che congiunge tutte le tecniche «senza il quale le singole tecniche della nostra civiltà non potrebbero sussistere, esso le intreccia come il mezzo dei mezzi, come la tecnica più generale».
Per poter circolare più liberamente e rapidamente il denaro si avvale di un’invenzione rivoluzionaria che Adam Smith ed Henry Thornthon paragonarono alle maggiori innovazioni tecnologiche della Rivoluzione industriale: la banconota. Con la banconota infatti il denaro si emancipa da qualsiasi valore intrinseco, si pone definitivamente come oggetto a sé stante, come merce totalmente indipendente dalle altre, e inizia un processo di progressivo distacco dalla materia che lo porterà a ricongiungersi, depurato di ogni equivoco, con la sua natura mentale e ideale.
• La banconota fa la sua apparizione alla fine del XVII secolo in contemporanea con la nascita della Banca d’Inghilterra (1694). Già da tempo i banchieri usavano rilasciare come controvalore delle monete metalliche e dei preziosi loro affidati dei certificati di deposito, cioè dei biglietti che erano trasferibili a terzi. I più noti sono i goldsmiths note, più tardi chiamati banker’s note. Ma fra i certificati di deposito (o le lettere di cambio o i titoli del debito pubblico) e la banconota c’è un salto di qualità: la girata dei certificati di deposito, delle lettere di cambio, dei titoli, può essere rifiutata, la banconota, emessa dalla Banca d’Inghilterra, no, ha cioè corso legale. Il sistema fu adottato, più o meno rapidamente, da tutti i Paesi europei. La Banca di emissione è obbligata a convertire le banconote in monete metalliche, in oro e argento, a chiunque ne faccia richiesta. Da qui la scritta, che appare ancor oggi, del tutto incongrua, sulle nostre monete cartacee:«pagabili a vista al portatore».
• Poiché però le Banche centrali, contando sul calcolo delle probabilità, presero a emettere banconote in misura di gran lunga superiore alle loro riserve in oro e argento, il primo periodo delle Banche di emissione è caratterizzato da una serie di clamorosi crack le cui conseguenze ricaddero sui possessori delle banconote che videro, spesso da un giorno all’altro, polverizzarsi il loro capitale. Ma con la banconota siamo appena agli inizi della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Molto più efficaci, in questo senso, della Banca di emissione sono le Banche ordinarie il cui sistema si sviluppa enormemente nell’800 per sovvenire alle esigenze delle imprese industriali. La Banca ordinaria è un formidabile fabbricante di denaro attraverso la creazione di quella che viene comunemente chiamata la ”quasi moneta”: assegni, depositi, trasferimenti di partite fra clienti della stessa banca, compensazioni fra banche, benefici, interessi, carte di credito. Ma il modo più consueto, e più rilevante, con cui la Banca crea denaro è di fare prestiti o aprire crediti che è poi la sua funzione principale. Ecco quindi innescato un formidabile moltiplicatore di denaro, anche se in questa attività la Banca incontra un limite costituito dal fondo di riserva che per legge deve tenere (riserva legale) e che nei paesi industrializzati è nell’ordine del 20%.
• Ma da cosa è costituita questa riserva? Noi, in genere, pensiamo che nella Banca ci siano se non lingotti d’oro, perlomeno banconote, lire, dollari, marchi, fra poco euro, insomma ”fresca”. Ma non è così. Ciò che possiede la Banca è ciò che abbiamo noi: della carta in cui sta scritto che la Banca detiene tot lire, o Bot o obbligazioni o ipoteche o quant’altro. In questo mare di carta e di segni che costituisce la ricchezza della Banca il fondo di riserva si distingue solo perché è vincolato, cioè quella carta o piuttosto quei segni debbono restare nella disponibilità della Banca e non possono essere trasferiti a terzi.
Ma non è solo la Banca che può creare credito e quindi denaro. Lo può fare lo Stato emettendo titoli, lo possono fare le imprese con le azioni e le obbligazioni e, in definitiva, lo può fare chiunque conceda un prestito o contragga un debito. Nel calderone della quasi moneta vanno quindi messi anche i pegni, le ipoteche, le polizze di assicurazione, i fondi di previdenza, i ratei, i prestiti del ”cravattaro”. Ed è questo tipo di denaro - creditizio e scritturale - che ha da tempo preso il sopravvento sulla banconota che sta per diventare un reperto archeologico. Secondo il classico manuale del Samuelson le banconote oggi circolanti nel mondo costituiscono un decimo della quasi moneta, ma si tratta di una stima gravemente approssimata per difetto. L’enorme espansione del denaro in tutte le sue forme - valutaria, scritturale, creditizia - ha dato luogo a una progressiva finanziarizzazione dell’economia. Il denaro finanziario è denaro che opera su se stesso, che compra altro denaro, che specula su denaro. E non potrebbe fare diversamente perché la massa di denaro in circolazione è tale che basterebbe a comprare venti volte tutti i beni e i servizi della terra.
• L’ultimo grido in questo gioco cannibalistico sono i prodotti Derivati, i Futures, gli Swaps, gli ancor più sofisticati hedges e certe opzioni dal significativo nome di kneck-out di cui lo stesso Seres ha ammesso che amplificano eccessivamente la volatilità del mercato finanziario. Il Dictionary of finance dà questa definizione dei Derivati: «I contratti Derivati e i loro affini sono opzioni su opzioni su opzioni, scommesse su scommesse di scommesse, speculazioni sulla speculazione e sulla speculazione delle speculazioni, transazioni su simboli di simboli di simboli, moltiplicazioni di moltiplicatori, in un avvitamento all’insù, verso il futuro, che teoricamente non ha limite».
Il mercato dei Derivati, in cui ballano ogni anno valori per la sbalorditiva cifra di 41 mila miliardi di dollari, ha ormai surclassato quello tradizionale in cui si scambiano azioni, obbligazioni, titoli di stato, valuta. Adesso si preferisce scambiare rischi allo stato puro, deprivati, in pratica, di ogni ragione sottostante. Al fenomeno della finanziarizzazione del denaro si accompagna quello della sua progressiva smaterializzazione, del distacco cioè da qualsiasi supporto fisico, anche indiretto.
• All’inizio il denaro è moneta-merce. Si tratti di buoi, di riso, di sale, di polli, è qualcosa di consistente e reale che può essere utilizzato anche altrimenti qualora, per qualsiasi ragione, perda la sua funzione e il suo valore di denaro.
Le cose cominciano a complicarsi quando nasce la moneta coniata in metallo prezioso. L’oro e l’argento sono già una convenzione. Però conservano consistenza materiale e una certa utilità intrinseca seppur limitata e di molto inferiore al loro valore di scambio. Il successivo salto di qualità si ha con l’invenzione della banconota, moneta cartacea priva di qualsiasi valore intrinseco anche immaginario. Ma all’inizio la banconota è immediatamente convertibile in oro e in argento ed è quindi agganciata a qualcosa di solido e parzialmente utile. Inoltre la carta è di per sé priva di valore ma è pur sempre materia. Eppoi accanto ai biglietti di carta continuano a circolare, per lungo tempo, le tradizionali monete d’oro e d’argento.
Il sistema della convertibilità, che tiene il denaro legato a una merce (da un certo momento in poi esclusivamente l’oro) ha operato, sia pur con numerose interruzioni, e via via in modo sempre più indiretto, rarefatto e, da ultimo, teorico, fin quasi ai nostri giorni. La convertibilità della banconota, nata nel 1694, rimane indiscussa per circa un secolo, fino al 1799 quando, in seguito alle guerre con la Francia rivoluzionaria, l’Inghilterra la sospende per la prima volta e introduce il corso forzoso: non solo la banconota deve essere accettata da chi la riceve come fosse moneta sonante (corso legale), ma non può nemmeno essere convertita. Il sistema viene accolto da tutti i più importanti Paesi europei, tranne la Francia.
• Nel 1821 l’Inghilterra, passata la buriana delle guerre, ripristina la convertibilità della moneta e stabilisce che deve esserci una proporzione fissa fra banconote in circolazione e riserva aurea, monete e lingotti (bullion), oltre la quale non si può andare (currency school). il gold standard. Il sistema arriva a regime, nel senso che si estende a tutti i principali Paesi europei e agli Stati Uniti, negli anni ’70 dell’Ottocento. Tutte le Banche di emissione dànno oro se gli si portano banconote. Quello che va dal 1870 al 1940 è il periodo aureo, è il caso di dirlo, del gold standard, in cui effettivamente funzionò secondo le proprie premesse. Il gold standard salta per sempre con la prima guerra mondiale, poiché nessuno Stato può più garantire la convertibilità dovendo gonfiare a dismisura l’emissione di banconote per sostenere le spese di guerra. Intanto escono dalla circolazione le monete in metallo prezioso che entrano a far parte della numismatica (gli ultimi, sporadici, esempi di utilizzo di questa moneta si hanno negli anni Venti). Nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, le potenze che stavano per uscire vincitrici dal secondo conflitto mondiale stabilirono un nuovo regime monetario chiamato gold exchange standard. Le varie monete nazionali non sono più direttamente convertibili in oro ma in dollari (di cui le rispettive Banche centrali devono tenere una certa riserva), mentre i dollari sono invece convertibili presso la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti. Cioè una finzione (le banconote di ogni Paese) sono garantite da un’altra finzione (il dollaro) che a sua volta è garantito da una semifinzione, l’oro. Ma insomma laggiù, nei forzieri di Fort Knox, c’è ancora qualcosa di materialmente solido, di quantitativamente limitato e di vagamente utile a costituire perlomeno un punto di riferimento del sistema del denaro. Un tenuissimo filo tiene ancora legata la massa della cartamoneta alla materia.
• Il sistema del gold exchange standard non funzionò mai sul serio perché gli Stati Uniti frapponevano ogni sorta di difficoltà alla convertibilità dei dollari altrui nel loro oro. Nell’agosto del 1971 Richard Nixon, con un atto di chiarezza e di onestà, mise ufficialmente fine al gold standard. Da allora il denaro cartaceo e scritturale si libra sul nulla, liberato da ogni residua ipocrisia.
Ma intanto anche nel mondo di carta erano intervenute altre e decisive trasformazioni. Come un tempo la moneta metallica, anche la banconota è in via di estinzione. Si va, come dicono gli esperti, verso una cashless society , una società senza circolante.
qualcosa già in atto da tempo: tutto il denaro cartaceo tende se non a eclissarsi perlomeno a imboscarsi e a rendersi inafferrabile. Chi ha mai visto un Bot o un’azione in carne e ossa? Eppure Bot, azioni, obbligazioni devono esistere nel fondo di qualche caveau e, se non con fattezze ben definite e sgargianti colori, almeno come segni scritti su carta. finché le cose stanno così il denaro è ancora legato, sia pur flebilmente, alla materia. Materia priva di qualsiasi valore e quasi impalpabile, come la scrittura su carta, ma pur sempre materia. Però anche quest’ultimo legame col mondo fisico sta per sciogliersi.
• l’ora della moneta elettronica. Già adesso parte del denaro è formata da bit e byte, cioè da impulsi elettronici. Il denaro che viaggia su computer e che viene comprato e venduto mille volte al giorno trova un supporto cartaceo e scritturale solo in un secondo momento, alla fine delle operazioni, quando ha già spostato equilibri economici e sociali, fatte e disfatte fortune.
Ma c’è anche denaro che è già totalmente e solamente elettronico. Con la plastic card e la ancor più sofisticata smart-chip-card il cliente di una Banca può spostare valuta dal proprio ”database”, che attesta la sua disponibilità finanziaria, al ”database” di un creditore e, viceversa, ricevere valuta da altri ”database”. Le transazioni vengono registrate su copie magnetiche e magneto-ottiche. Sono i cosiddetti conti virtuali. La Borsa non è ormai che un computer che interagisce con un’infinità di altri computer. Tutto questo si chiama Finanza virtuale globale.
Con la moneta elettronica si spezza l’ultimo legame fra denaro e materia. E dopo una marcia durata tremila anni il denaro si ricongiunge finalmente a se stesso, alla sua essenza, ridiventa una pura logica, spirito disincarnato. Un’ idea nella testa dell’uomo.