Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 10 giugno 2002
Prima degli immigrati l’Italia deve regolarizzare se stessa
• Prima degli immigrati l’Italia deve regolarizzare se stessa.
La nostra industria non può sopravvivere senza l’aiuto degli extracomunitari? Guidalberto Guidi, consigliere della Confindustria per le relazioni industriali, dice che da Lampedusa alla Valle d’Aosta, se consideriamo anche l’agricoltura oltre che il settore produttivo, le imprese hanno l’esigenza di ricorrere agli immigrati. Inoltre, avere collaboratori familiari provenienti dall’esterno dei confini europei consente alle donne di poter lavorare. La questione interessa insomma tutta la popolazione italiana.
• Non potremmo utilizzare i disoccupati? Gli italiani non sono più disposti a svolgere certi mestieri. Il saldo demografico è fortemente negativo. Molti giovani ritengono non gratificante lavorare in un’azienda. Eppoi in Italia la mobilità è molto difficile.
• Cosa stabilisce la nuova legge che sta varando il governo? Gli extracomunitari potranno entrare in Italia solo con un contratto di lavoro già stipulato e solo per 2 anni, rinnovabile 6 volte. Dopo potranno ottenere il permesso definitivo. Sarà il ministero del Lavoro a indicare la richiesta di manodopera e quindi le quote di ammissione. La ricongiunzione familiare è limitata a coniuge, figli minori e genitori, questi ultimi solo se l’immigrato è l’unico figlio. A tutti gli immigrati quando chiederanno o rinnoveranno il permesso di soggiorno saranno prese le impronte digitali.
• Gli industriali sono contenti? Insomma, sono preoccupati perché se un immigrato perde il lavoro, magari a causa di una crisi economica congiunturale, ha solo sei mesi di tempo per trovarne un altro, altrimenti viene espulso. Vorrebbero che il tempo per la ricerca di un nuovo impiego fosse maggiore. [1] La stessa preoccupazione è espressa dall’ex ministro dell’Interno Enzo Bianco: dice che bisogna pensare a chi magari ha i figli nelle nostre scuole e si sta integrando. Secondo lui queste persone faranno di tutto per non abbandonare l’Italia, e rischiamo di trasformare i legali in clandestini. Proprio l’opposto di quello che serve.
• Secondo alcuni questo sarà l’effetto di tutta la legge. Il sociologo Salvatore Palidda, consulente dell’Ocse, dice che è un luogo comune quello secondo cui regolamentando gli accessi si limitano gli ingressi degli extracomunitari. Le politiche proibizioniste in tema di flussi migratori serviranno solo a far aumentare l’arrivo dei clandestini. E fa l’esempio degli Stati Uniti, dove ce ne sono 7 milioni, la metà dei quali ha perso la posizione di regolare non avendo più i requisiti per rinnovare il permesso di soggiorno.
• Quanti sono gli extracomunitari in Italia? Al primo gennaio 2001 quelli regolari erano 1.464.589, 792.591 maschi e 671.998 femmine. Sono il 2 per cento della popolazione residente, quota largamente inferiore alla media degli altri Paesi europei. I marocchini, 159.599, sono i più numerosi, poi vengono gli albanesi, che sono poco più di 142.066, i rumeni, 68.929, i filippini, 65.353, i cinesi, 60.075. Quelli con un lavoro subordinato sono 609.205, 78.992 sono dediti al commercio o al lavoro autonomo, 323.430 sono approdati in Italia per motivi di famiglia, i cosiddetti ricongiungimenti, 27.693 per ragioni di studio, 41.529 per motivi religiosi. Il grosso degli immigrati viene a cercare una vita decente, un benessere per la propria famiglia, una promozione per i propri figli.
• Cos’è l’effetto ”push and pull”, ”attira e spingi”? Il 27 per cento del Pil italiano è dato all’economia sommersa. Il 17 per cento della forza lavoro è in nero. La richiesta di manodopera non qualificata non cesserà mai. Siamo il terzo Paese al mondo nella contraffazione di marchi. Tutto questo attira immigrati. Attraverso le organizzazioni cattoliche o in alcuni casi il sindacato, avvengono anche delle selezioni. C’è chi si rivolge alla parrocchia per avere una colf o un aiuto domestico. O, in Emilia, al sindacato, per operai a basso costo.
• E il ”push”? Il rumeno che al suo Paese guadagna 100 mila lire al mese da un imprenditore italiano, prima o poi verrà in Italia dove lo pagano di più.
• E’ un’immigrazione va e vieni. Rimangono pochi anni per raccogliere un po’ di soldi, tornano al loro Paese e si costruiscono una casa. Poi i soldi finiscono e si riparte. C’è chi l’ha fatto anche cinque volte in trenta anni.
• In Italia non c’è una comunità prevalente. A differenza di quanto avviene in Paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna, dove esiste una matrice dominante nell’immigrazione, maghrebini in Francia, indopakistani in Gran Bretagna, turchi in Germania, da noi c’è un forte differenziale etnico.
• L’Italia non ha mai intrattenuto relazioni privilegiate con le sue ex colonie.
Infatti. Non si è mai verificata un’immigrazione massiccia dalla Somalia, dall’Etiopia o dalla Libia. Il sistema coloniale italiano era basato su un assetto di protettorato o di indirect rule, il che ha ammorbidito tutta la fase di decolonizzazione. Tale processo, invece, nel subcontinente indiano o in Algeria ha provocato gravi crisi politiche che, a loro volta, hanno messo in moto importanti flussi migratori da quei Paesi verso l’Europa. Va ricordato anche che, fino a tempi piuttosto recenti, l’Italia è stata Paese d’emigrazione, e che la sua crescita economica solo negli ultimi anni ha richiesto il ricorso alla manodopera immigrata.
• Conta anche la nostra posizione geografica. Il doppio versante mediterraneo, quello balcanico e quello arabo-africano, comprime il paese fra due spinte migratorie, una da Sud e l’altra da Est; quest’ultima spinta investe non solo il litorale adriatico, ma anche la terraferma, in particolare la zona di Gorizia. Confinando con la Slovenia, l’Italia funge da ponte per l’immigrazione mediorientale e balcanica.
• Come la pensano gli italiani riguardo all’immigrazione? Ricordo un sondaggio Datamedia dell’agosto scorso: il 71,4 per cento era favorevole all’introduzione di restrizioni per fronteggiare i clandestini; il 69,2 per cento riteneva giusto che gli ingressi di extracomunitari fossero regolati esclusivamente in base alle necessità del mercato del lavoro; solo il 33,7 per cento approvava l’introduzione del reato di immigrazione clandestina; il 74,9 per cento era favorevole ad una sanatoria riguardante i clandestini che già lavoravano in Italia; il 78 per cento riteneva giusto escludere dai ricongiungimenti zii e fratelli.
• L’immigrazione genera insicurezza? L’indagine condotta dalla Fondazione Nordest in cinque Paesi europei nei primi mesi nel 2002 dice che suscita meno allarme che in passato. Un cittadino su cinque la teme per motivi religiosi e di identità nazionale, poco meno di tre su dieci per timori legati all’occupazione, quasi quattro per ragioni di ordine pubblico. Quote significative, ma in sensibile calo rispetto agli anni scorsi.
• Ilvo Diamanti parla di quattro paradossi. «Il primo riguarda l’aporia tra la retorica posta sulla globalizzazione: le merci, le imprese, i capitali che viaggiano senza confini, oltre i confini; e la richiesta di marcare e controllare di nuovo i confini quando si parla di flussi migratori: persone, lavoro. Il secondo riguarda il contrasto fra l’immagine di un paese saturo, non più in grado di accogliere gli altri. E una società vecchia, che degli altri ha bisogno: per ragioni di ”assistenza”; di sostegno alla produzione. O, semplicemente, per svecchiare il suo impianto demografico. E, perché no?, la sua cultura. Noi Paese di emigranti. Di viaggiatori e di commercianti. Quattro milioni di italiani e 70 milioni di oriundi sparsi nel mondo. Potremmo ridurci a fortezza chiusa? Il terzo paradosso, riguarda un paese che dichiara la guerra ai clandestini, ma impedisce alle imprese di ”regolare” la presenza di coloro che da tempo lavorano presso di loro; alle famiglie di ”regolare” le persone che assistono i loro anziani e i loro malati; agli stranieri che da tempo lavorano nelle aziende e nelle famiglie di ”regolare” la propria esistenza, la propria posizione. Il quarto paradosso evoca la presunta guerra al sommerso, all’informale, alla ”clandestinità”, riguardo agli stranieri. Quando gli stessi tratti costituiscono, riflettono, in Italia, una costante dello sviluppo, dello stesso rapporto fra cittadini e Stato, basta pensare al fisco, al tessuto produttivo».
• I clandestini producono criminalità? Tutti concordano sul forte impatto che la clandestinità ha sulla microcriminalità. Omicron (Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord, ndr) ha presentato nello scorso dicembre la ricerca sull’influenza della criminalità straniera in tre grandi aree metropolitane europee, Barcellona, Parigi e Milano: risulta che l’area della clandestinità «è un ottimo bacino di reclutamento per la bassa manovalanza criminale» e «il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è diventato uno dei business privilegiati di numerose organizzazioni criminali di matrice straniera.
• La Spagna è uno dei Paesi più colpiti. L’anno scorso, grazie alla regolarizzazione straordinaria dei lavoratori clandestini, ha avuto il saldo migratorio più elevato dell’Ue: 213 mila immigrati, il 23,8 per cento più del 2000. Ma la sanatoria che ha portato a 1.109.060 il numero di lavoratori stranieri su una popolazione totale di 41.122.000 persone, non ha prodotto solo ricchezza. La criminalità è aumentata del 9,35 per cento. Juan Cotino Ferrer, direttore della polizia di Stato, dice che «la maggioranza dei delitti registratisi nel 2001 sono stati compiuti da delinquenti stranieri residenti nel Paese». Secondo il ministero dell’Interno a Madrid operano 20 pericolosissime gang. Delle 40 smantellate l’anno scorso, ben 30 erano formate da immigrati colombiani.
• L’integrazione multiculturalista è fallita. Largamente. Sofri dice che la frammentazione comunitaria ha prevalso dovunque, e assai più seccamente di quanto non avvenisse, per esempio, negli Stati Uniti. Là, senza immaginare grotteschi paesaggi idilliaci, perché la vita degli immigrati, a cominciare dagli italiani, fu durissima, le comunità nazionali furono una tappa e uno strumento del melting pot civile e istituzionale. In Europa è successo assai meno, in Italia il progetto multiculturale non è stato più che un’ideologia marginale. Lo Stato e le istituzioni hanno fomentato o spalleggiato la diffidenza per gli immigrati, e perseguito le persone, senza scalfire il problema, un po’ come succede con la guerra alla droga, tradotta nella guerra ai drogati.
• Non è andata meglio con l’accoglienza. «Hanno pensato, ammesso che pensassero, che non fosse affar loro, e tutt’al più hanno lasciato fare, come in tanti altri campi cruciali, al volontariato. Nelle sue due forme principali. Quella del mondo cattolico, che ha ammesso a comprensibile malincuore di trovarsi di fronte a un problema politico esorbitante dalla carità. E quella di un composito e vasto arcipelago di enti locali, associazioni, gruppi, partiti, centri sociali, che hanno fatto della solidarietà con gli stranieri poveri un impegno distintivo».
• In molte carceri italiane gli extracomunitari sono maggioranza. E la tendenza non farà che accrescersi. Sofri dice che la percentuale di costoro che aveva avuto già a che fare con la giustizia nei Paesi di origine, o che comunque è venuta in Europa con l’intenzione di vivere illegalmente, è irrisoria. La galera li fissa per sempre all’esistenza illegale. Diventano ergastolani intermittenti delle prigioni italiane. Nessuna cura appropriata viene loro dedicata: meno che ai detenuti italiani, già spaventosamente lasciati alla mortificazione e all’inebetimento.
• Eppure costano cari, i detenuti. Molto cari. Naturalmente, rendono. «Rendono a una ampia rete di impieghi e professioni - ancora Sofri - che vanno dalla gamma dei carcerieri alle forze di polizia ad avvocati, magistrati, assistenti e controllori sociali, fornitori, e in più un indotto rilevante di mestieri derivati, leciti o no. Se una quota della spesa fosse impiegata per formare e informare le persone che incappano nello strascico poliziesco e giudiziario; per offrire loro un’istruzione generale, ”civica”, diciamo così, e specifica, professionale; per avviarli, sulla scorta di una valutazione che sarebbe allora fondata, ai lavori regolari richiesti dall’economia e dalla società: si otterrebbe di ridurre la ”microcriminalità”, di rispondere a una domanda di lavoro, e di provare a fare dei nuovi arrivati gli ambasciatori possibili della democrazia presso i loro Paesi di origine, e non gli emissari dell’Internazionale islamista in Europa».
• Insomma, gli extracomunitari sono un business. Francesco Costa, un giovanotto di 29 anni, ha trasformato la società finanziaria fondata dal padre in un piccolo impero commerciale che li fa fruttare. Prima di tutto si è accordato con la multinazionale americana Western Union, specializzata in trasferimento di denaro: in sei anni, utilizzando in parte il sistema del franchising, in parte il sistema dei corner presso banche, ha aperto duemila punti di raccolta. Fra un po’ ce ne saranno anche nei distributori Agip. Nel 2001 sono stati intermediati duemila miliardi di lire, che per Costa equivalgono a cento miliardi di fatturato, quest’anno dovrebbero raddoppiare. Oggi l’Italia, per la Western, è il secondo mercato dopo gli Usa. Ora Costa ha deciso di aggiungere ai suoi duemila punti vendita anche i servizi postali, mentre per i telefoni ha fatto un’asta con Wind e Telecom. A febbraio stava trattando con la Bnl per emettere carte di credito per immigrati garantite da un deposito, presso la sua società, di almeno 2.500 euro.
• Quanti ne possiamo sopportare? Conviene dirlo con chiarezza, come ha fatto Michele Ainis sulla ”Stampa”: più di tanti non ne possiamo accogliere. Anche se i numeri ci mostrano un continente asiatico che in mezzo secolo ha quasi triplicato la sua popolazione, e che di questo passo, secondo i World Population Prospects dell’Onu, entro il 2050 toccherà la soglia di 7 miliardi di persone. Per ogni bambino che ha la ventura di nascere al Nord, ne vengono alla luce otto nel Sud del mondo. Ma in Europa stiamo già stretti. In Italia ogni chilometro quadrato è diviso fra 196 abitanti, in Egitto ce ne sono 63.
• Però siamo vecchi, e non facciamo figli. Al ritmo attuale noi italiani diventeremo 50 milioni nel 2015, 38 milioni nel 2050. Significa che c’è ancora un po’ di posto. Regoliamolo, dice Ainis, ma senza illuderci di poterlo dilatare all’infinito. E dedichiamoci piuttosto a definire il perimetro d’una nuova identità, la nostra, ma insieme anche la loro, un’identità italiana per gli immigrati regolari.