Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 18 marzo 2002
La devastazione della Palestina
• La devastazione della Palestina. «Dura da anni, questa tragedia cui ci separa un breve tratto di mare, ma ora ha raggiunto proporzioni e contorni paurosi. è umanamente insopportabile, una strage degli innocenti che si consuma giorno dopo giorno e che ha pochi precedenti nella storia» (Luigi Pintor).
• Israele è impegnato nella più grande offensiva militare in Palestina dalla guerra del 1967. «Durante i rastrellamenti vengono sequestrate armi e arrestati sospetti, ma la stragrande maggioranza dei fermati e interrogati viene poi rilasciata perché non ha niente a che vedere con i terroristi, i più pericolosi dei quali lasciano i campi profughi prima dell’arrivo dei soldati. Ovviamente Israele non può tollerare santuari del terrorismo. Ma questo può essere fatto senza umiliare i rifugiati, finendo con l’aumentarne la rabbia e rendendo ancora più difficile perfino il solo immaginare un futuro accordo di pace» (da un editoriale del ”New York Times”).
• Il rovescio della medaglia. «Gli attacchi terroristici dei kamikaze, i morti civili israeliani, l’aspirazione alla sicurezza di un popolo che continua a sentirsi assediato. Soltanto dopo aver capito Israele, è possibile accusarlo di eccesso di difesa» (Franco Venturini).
• L’errore di Barak. Uri Avnery, fondatore dell’organizzazione pacifista Gush Shalom: «Ehud Barak si ritirò da Camp David dopo aver fatto un’offerta assolutamente inaccettabile per qualunque palestinese. Tornò in Israele dicendo che aveva offerto ai palestinesi tutto ciò che volevano, ma Arafat aveva rifiutato e non c’era possibilità di firmare la pace. La società israeliana arrivò alla conclusione che la guerra era inevitabile e votò per la destra, perché in una situazione di crisi la risposta del Likud sembrava più conveniente di quella offerta dai laburisti».
• Sharon fu eletto un anno fa a furor di popolo. Aveva promesso che avrebbe posto fine alla seconda intifada. Ma la violenza è aumentata. Gli israeliani vivono nel terrore. Un fallimento scritto dai numeri: 327 morti israeliani e 1.150 vittime palestinesi in 17 mesi. Nella prima intifada (1987/1993) morirono 200 israeliani e 1.250 palestinesi.
• Sharon non lascia speranza ai palestinesi che per questo insistono col terrorismo suicida. Avi Pazner, portavoce di Sharon: «E’ una visione completamente sbagliata, piena di pregiudizi. Vi siete già dimenticati che l’ondata terrorista è arrivata quando ancora Barak era primo ministro, il mito di Sharon è inventato, e questo terrorismo è diventato sempre più crudele. Noi combattiamo a viso aperto dopo migliaia di attentati, mentre la nostra vita è minacciata, senza prendere di mira la popolazione civile e ci dà gran pena quando qualcuno ci va di mezzo».
• La popolazione palestinese è sottoposta a distruzioni, uccisioni, assassinii, torture. Hanan Ashrawi, portavoce della Lega Araba: «Ripetute richieste di protezione internazionale restano inascoltate, e l’interminabile ondata di violenza israeliana ha ripreso nuovo slancio. Tutto (grazie all’angusta interpretazione della realtà da parte di George W. Bush) in nome della ”guerra contro il terrorismo”, che Israele sfrutta appieno».
• Il crescente senso di insicurezza degli israeliani: nell’ultimo anno le venditedi armi sono aumentate del 75 per cento; i giornali sembrano manuali di autodifesa contro il terrorismo; l’esercito è demoralizzato da una serie di imboscate mortali; la fragile unità del governo è sempre più a rischio.
• La destra radicale israeliana vuol passare ai fatti: azioni terroristiche volte a seminare il panico fra la popolazione palestinese. Il rabbino Israel Rozen, dirigente di un istituto educativo a Gush Etzion, propone di organizzare nei territori cellule terroristiche ebraiche. «Nei dibattiti che divampano nei siti internet, i toni ricordano quelli che nel 1995 precedettero l’uccisione del premier laburista Yitzhak Rabin. La responsabilità politica dell’uccisione di quasi 350 israeliani viene fatta ricadere sui ”criminali di Oslo”: ossia su Yitzhak Rabin e Shimon Peres che nel 1993 conclusero gli accordi di riconoscimento reciproco con l’Olp di Yasser Arafat. ”Nessun esercito al mondo - sostiene Rosen - ha potuto sconfiggere un movimento di guerriglia con i carri armati. Né l’artiglieria serve a sradicare il terrorismo”» (Aldo Baquis).
• Complici o impotenti. Usa, Europa, Onu, mondo arabo, sinistra israeliana vogliono fermare il conflitto; Sharon, i suoi generali, la destra, i coloni paiono intenzionati a proseguirlo. «Complici confessi sono gli Usa, che iscrivono questo scenario in quello molto più ampio aperto dal crollo delle due torri. Impotente è l’Onu, silente o balbettante è l’Europa con falliche eccezioni. Onore alla minoranza pacifista israeliana, ma l’opinione ebraica nel mondo non si dissocia da Tel Aviv» (Pintor).
• La ”dottrina Bush”. «Si era pensato, a Washington, di poter combattere in Afghanistan lasciando che fosse l’alleato israeliano a gestire il conflitto con i palestinesi. Ma l’illusione è caduta perché la mancata cattura di Bin Laden esige nuove dimostrazioni di forza, perché si è rafforzato il timore che quel che resta di Al Qaeda possa avere accesso ad armamenti di distruzione di massa, perché nel mirino sono ora gli arsenali di Saddam Hussein e i governi moderati arabi (come sta constatando il vicepresidente Cheney) non accettano di chiudere un occhio in Iraq mentre i carri armati di Sharon si scatenano nei Territori. Già nell’autunno scorso, quando gli Usa chiamavano a raccolta la coalizione antitalebana, Ariel Sharon ebbe a dire che Israele non intendeva fare la fine della Cecoslovacchia nel 1938. Ma può resistere ancora oggi questa volontà di non piegarsi agli interessi altrui? Può continuare a usare le maniere forti il premier di Israele, quando l’obiettivo Saddam Hussein esige una linea più morbida?» (Franco Venturini).
• Sharon vuol continuare con gli omicidi mirati ed è disposto solo a ritiri simbolici. In cambio i palestinesi dovrebbero prendere iniziative per ridurre la violenza. Condizioni respinte con decisione da Arafat che, come gli Usa, chiede il ritiro totale. Washington è d’accordo sul diritto all’autodifesa di Israele ed è disposta a concedere ampi margini di manovra, ma vuole evitare qualsiasi escalation.
• Ora che gli Stati Uniti sono tornati in gioco, le scelte di Sharon possono essere soltanto due. «La prima, cui forse stiamo assistendo, è di sparare ad alzo zero sui palestinesi ben sapendo di doversi fermare tra poco: la riapertura del dialogo negoziale partirebbe allora da posizioni di forza, diventerebbe più agevole fare ”concessioni”, la marcia indietro risulterebbe compensata anche in Parlamento e nell’opinione pubblica dall’offensiva appena conclusa. La seconda opzione è sinonimo di catastrofe: se Sharon ha deciso di sabotare qualsiasi tentativo di tregua, le stragi continueranno a dispetto di tutti» (Franco Venturini).
• Il ruolo dell’Europa. Richard Perle, consigliere del vicepresidente Richard Cheney e del capo del Pentagono Donald Rumsfeld: «Gli europei ci devono aiutare subito. Minacciando i palestinesi di togliere loro gli aiuti economici se non depongono le armi. Sono i palestinesi a volere il bagno di sangue perché li avvantaggia politicamente. Ma, senza l’appoggio europeo, Arafat varrebbe zero».
• Gli elettori israeliani chiedono principalmente due cose ai primi ministri: «Garantire la sicurezza e non intaccare le relazioni con gli Usa. Il premier sta mancando entrambi gli obiettivi. Agli americani non interessa chi comanda quanto che giochi secondo le regole americane. ”Israele sotto la guida di Sharon non lo sta facendo”, dice Joel Peters, analista politico alla Ben Gurion University» (Harvey Morris).
• La diplomazia Usa si basa sul Piano Tenet e sul Piano Mitchell. Il primo, elaborato nel giugno 2001 dal capo della Cia e mai entrato in vigore, stabilisce modalità per un cessate il fuoco tra le parti. Alle autorità palestinesi è richiesto di arrestare membri di organizzazioni che Israele accusa di preparare attentati terroristici, sequestrare armi detenute illegalmente dai palestinesi e mettere fine al clima di violenza nei Territori. A Israele di non attaccare le istituzioni civili e militari dell’Anp, di arretrare sulle posizioni anteriori all’inizio della nuova Intifada. Il secondo prende il nome dal senatore che l’ha proposto: presentato da una Commissione internazionale nel maggio 2001, chiede all’Anp di impedire azioni terroristiche e a Gerusalemme di congelare le attività di colonizzazione e togliere il blocco dei territori.
• Arafat, la grande incognita. «I palestinesi esultano per l’ultima conta delle vittime che mostra un morto israeliano ogni tre dei loro. Arafat combatte per cacciare Israele dai territori, quando poteva ottenere gli stessi risultati con il compromesso durante i colloqui di Camp David. Deve scrivere il racconto della liberazione del suo popolo, dopo mille anni di occupazione ottomana, britannica, giordana e israeliana» (dal ”Washington Post”).«Arafat si sente come il leader di un altro grande momento storico del popolo palestinese. Il numero delle vittime probabilmente, oltre a dolergli, gli appare come la porta per l’indipendenza, per un destino in marcia verso la gloria. Ogni missile che cade su un ufficio a Gaza o Ramallah eleva il suo status agli occhi dei palestinesi, che in passato lo avevano spesso discusso, anche in modo molto duro e pressante; ogni attentato firmato Fatah lo pone più decisamente nel cuore belligerante della sua nazione. La sua gente è in stato di grande mancanza, l’acqua, la benzina, gli ospedali, le infrastrutture, l’economia, tutto piange e ha bisogno di pace. Ma vorrà Arafat trattare, quando questa situazione gli garantisce un così grande consenso interno e anche internazionale, soprattutto da parte europea?» (Nirenstein).
• Arafat non ha alcuna intenzione di punire chiunque attacchi soldati o coloni nei territori, nella Striscia di Gaza, e nella zona di West Bank: secondo i leader di Fatah, gli attentati suicidi all’interno di Israele destano sdegno nell’opinione pubblica internazionale, «per il resto non c’è nessuno al mondo che ci possa condannare».
• Nella notte tra martedì e mercoledì il Consiglio di sicurezza ha approvato una risoluzione proposta dagli Usa che auspica la creazione di due Stati, Israele e Palestina. L’Onu chiede la cessazione immediata di tutti gli atti di violenza e la riapertura delle trattative per la realizzazione del piano Tenet e delle raccomandazioni del piano Mitchell. La risoluzione è stata approvata con 14 voti a favore, nessuno contrario e la sola astensione della Siria, che avrebbe voluto un linguaggio più duro nei confronti di Gerusalemme.
• Questa risoluzione potrebbe rappresentare una svolta. Giandomenico Picco: «Gli americani, che per la prima volta hanno sostenuto una risoluzione con il concetto dei due Stati, stanno conducendo due missioni nella regione, con il mediatore Zinni e il vicepresidente Cheney. A questo si somma la proposta di pace saudita, che è frutto della serietà del principe Abdallah, e per la prima volta offre la normalizzazione dei rapporti con Israele, condivisa anche dal presidente siriano. L’Onu inoltre ha un ruolo accresciuto, perché Kofi Annan è il primo Segretario generale considerato come un interlocutore dagli israeliani, che l’anno scorso hanno accettato la sua presenza nella regione nel mezzo di una crisi».
• Nel vertice di Beirut del 27 e 28 marzo gli arabi offriranno a Israele ”l’ultima possibilità di pace”. l’opinione del segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, a proposito della presentazione prevista in quella sede del piano di pace del principe ereditario saudita Abdullah ben Abdel Aziz. In apertura del vertice del Cairo, Mussa aveva sottolineato la necessità di ”prendere misure per proteggere la sicurezza nazionale” dei paesi arabi nel caso che Israele continui a rifiutare la pace.
• Il Piano Saudita. Abdallah, principe ereditario saudita, ha proposto che gli israeliani si ritirino dai territori occupati nella guerra del 1967. In cambio, i Paesi arabi si impegnano a normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico. «Noi non leghiamo in maniera automatica», è però il senso del discorso del principe ereditario, «il riconoscimento di Israele al suo ritiro dai territori occupati nella guerra del 1967. La questione verrà affrontata quando sarà il momento dai diretti interessati, cioè dai palestinesi». In questa sfumatura di linguaggio è racchiusa la potenzialità di successo del piano saudita. Significa che non vi è da parte araba alcun ”do ut des” nei confronti dello Stato ebraico; esisterebbero dunque margini, sia pure stretti, per discutere e trattare.
• Il 46 per cento degli ebrei di Israele è favorevole a una nuova deportazione dei palestinesi, come già avvenne nel 1948 e nel 1967, dai territori occupati che così, secondo i piani di Sharon potranno essere annessi ad Israele. Il 38 per cento è d’accordo con la deportazione anche degli arabi di Israele. Il 60 per cento vede con favore una politica che incoraggi gli arabi israeliani a lasciare il paese: costituirebbero una minaccia per la sicurezza dello Stato. Il 49 per cento vedrebbe comunque con favore il ritiro dagli insediamenti nel cuore della West Bank e Gaza.
• Lo spirito di Rabin: «Negoziare la pace come se il terrorismo non esistesse, combattere il terrorismo come se non ci fosse il processo di pace».