Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 2 marzo 2002
ìStoria della natura in Italiaî
• Paleolitico superiore. L’ambiente naturale, non adulterato dall’uomo, vive in stato di climax: quello cioè che le condizioni del suolo, del clima, dell’esposizione e dell’altitudine favoriscono come ottimale e capace di autoperpetuarsi per millenni (oppure quello, secondo un’altra interpretazione, al quale potrebbe tornare se scomparisse d’un tratto la pressione umana). Popolazione italica: sessantamila individui, uno ogni cinque chilometri quadrati.
• Colonizzazione. Dal 700 a.C. in poi la sostituzione del predominio di Roma alle tribù italiche e alla nazione etrusca modifica l’ambiente, fino ad allora seminaturale. La compagine forestale perde continuità per la costruzione di strade che frantumano l’unità ecologica. Il territorio si divide in tre comparti, che rappresentano i tre stati successivi di degradazione del climax originario e ripercorrono le tappe dell’evoluzione da un’economia legata alla caccia a una pastorale e a quella agricola: la silva, intesa come foresta chiusa, bosco sacro, macchia folta, usata per la caccia e la produzione di legname e ghiande; il saltus, costituito da vaste lande aperte, steppe cespugliate, praterie con alberi sparsi adibite al pascolo del bestiame equino, ovicaprino e bovino; l’ager, la terra coltivata.
• Consolare. Ricerche polliniche svolte da J. B. Ward Perkins nelle torbiere del piccolo lago di Monterosi, a nord di Roma lungo la via Cassia, mostrano come l’apertura della consolare nel II secolo a.C. abbia influito sulla vegetazione circostante: ai pollini delle preesistenti essenze forestali come le querce, il castagno, il frassino, prevalenti negli starti più profondi e antichi, si sovrappone progressivamente quello di piante nitrofile, tipiche degli ambienti con alte concentrazioni di bestiame (ovili, stazzi, recinti), prima, e di piante coltivate o infestanti delle messi poi.
• Panico. La selva Ciminia nel massiccio vulcanico dei monti Cimini a nord di Roma, incontaminata foresta di faggi, lecci, cerri e castagni, incuteva un tale terrore che quando nel 310 a.C. il console Quinto Fabio Rulliano si propose di attraversarla per sorprendere alle spalle l’esercito etrusco, si sparse a Roma un tal panico che il Senato gli impose di fermarsi.
• Silva. Roma sacrificò molti boschi alle richieste di legname della città. Nel IV secolo, per far funzionare undici grandi stabilimenti termali e 656 balnea di minori dimensioni, che richiedevano ingenti quantità di combustibile, si importava legna dall’Africa, essendo ormai insufficienti i boschi cedui locali. Il legname necessario alle travature, coperture e infissi delle abitazioni provenivano anche da regioni lontane. Secondo Vitruvio (I secolo a.C.) il larice delle Alpi Retiche arrivava al Po da dove, legato in grandi zattere, navigava fino a Ravenna. Di lì, caricato su navi onerarie, approdava a Ostia e poi, risalendo il Tevere, a Roma. Testimonianza di Plinio: tra il legname da opera ordinato dall’imperatore Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) per la costruzione del ponte Naumachiario v’era una trave di larice lunga 35,46 metri, larga 59,1 centimetri d’ambo i lati, con un volume di 12,38 metri cubi e un peso di circa 9 tonnellate. Altri usi del legname: la flotta (nel 256 a.C. i Romani impiegarono in una sola battaglia contro i Cartaginesi 160 navi, in uno scontro successivo 330); la copertura dei tetti, fino al 275 a.C., con scandole di faggio e di pino (ogni dieci metri quadrati di falda occorre ogni dieci anni un metro cubo di legname); impieghi bellici: palizzate per la difesa dei castra, tronchi per arieti e altre macchine d’assedio, manici per armi da getto (nell’ultima guerra punica la città di Arezzo fu costretta a fornire 50 mila aste lunghe per lance). L’ecosistema boschivo finì per essere gravemente segnato nei secoli dell’Impero, dal 27 a.C., per il progressivo espandersi del pascolo di capre e pecore che richiedono territori aperti (a differenza del bestiame bovino e suino che pascola anche nelle aree boschive), basato, per lo più, sull’usurpazione dei terreni demaniali da parte dei privati. Claudio Isidoro, semplice e oscuro privato, nel testamento stilato nell’8 a.C., lascia in eredità 4.116 schiavi, 3.600 paia di buoi e ben 257.000 capi di bestiame minuto.
• Circhi. Tra le cause della rarefazione della grande fauna durante l’Impero romano i giochi dei circhi. L’imperatore Gordiano I (157-238 d.C.) offrì alla popolazione romana, facendoli massacrare nel Colosseo 1000 orsi, 200 cervi, 100 capre selvatiche, 150 cinghiali, 200 stambecchi e 200 caprioli.
• Reazione selvosa. Recupero silvestre generalizzato che si verifica nell’Alto Medioevo per il venire a mancare della pressione antropica: la situazione forestale è paragonabile a quella del periodo Mesolitico (a un ambiente coltivato in cui siano presenti le reliquie della originaria vegetazione silvana, bastano da 100 a 150 anni per tornare allo stato di foresta). Tra le cause della trasformazione la discesa dei Longobardi nella Pianura Padana, nel 568, attraverso le Alpi Giulie: popolo di guerrieri, pastori e cacciatori, si dedicava alla caccia, alla guerra, al pascolo brado, attività legate alla foresta e al saltus.
• Optimum climaticum. L’innalzamento della temperatura tra l’800 e il 1300, che provocando lo scioglimento dei ghiacci polari e continentali, fece innalzare il livello dei mari e impaludare vasti tratti di pianura costiera: l’inquinamento salino delle falde freatiche dolci più esterne impedì l’irrigazione dei campi, mise fuori uso i pozzi, e determinò l’abbandono dei coltivi e delle abitazioni di pianura, ma permise di coltivare frumento anche a quote molto alte, al di sopra dei 1000-1500 metri, a scapito degli habitat naturali.
• Venezia. Sorta nel VI secolo, aveva una grande necessità di alberi d’alto fusto: per le navi da flotta (150 unità nel XVI secolo, con una vita media di una dozzina d’anni) e per la fondazione degli edifici, un palo, preferibilmente di rovere, infisso nel fondo della laguna, per ogni metro lineare di fondazione dei muri maestri, perimetrali o di spina: tra il XIII e il XIV secolo dai 10 ai 12 milioni di pali, una foresta sommersa di ventimila ettari (senza contare il legname necessario per altri usi, travature per solai, tetti, pavimenti e infissi). Tra i tanti editti e bandi a tutela del bosco, la legge Provisio quercuum in Consilio Rogatorum del 15 luglio 1470, che stabilì, pena sanzioni severissime, la tutela delle roveri, ovunque cresciute, anche in terreni privati, per gli usi dell’Arsenale e del magistrato delle acque.
• Rinascimento. Con il perfezionamento delle tecniche di lavorazione dei campi, e l’aumento della popolazione (8 milioni di abitanti nel Quattrocento e 10 nel Cinquecento), la copertura boschiva nel XVI secolo si riduce al 50 per cento del territorio italiano (90 per cento in epoca preistorica). L’eliminazione delle selve (spesso con l’aiuto del fuoco), oltre che dall’esigenza di reperire terreni coltivabili (l’irrigidimento del clima, tra l’altro spinse più a valle colture che con l’Optimum Climatico medievale si erano estesi a luoghi elevati), è accelerato dalla cessazione di alcune usanze, come la caccia grossa, per il declino del feudalesimo, e il pascolo brado dei suini. L’introduzione dal Nuovo Mondo nel XVI e XVII secolo del mais, che garantisce una produzione facilmente immagazzinabile, e il rifiorire dell’olivicoltura, che rende meno insostituibile il grasso suino, fanno sì che l’importanza dei querceti d’alto fusto diminuisca: un ettaro poteva sostenere un solo maiale, mentre la stessa superficie, coltivata, produceva di più, oltretutto in derrate facilmente conservabili. Altro grave fattore di riduzione delle compagini forestali l’aumento della pastorizia per la produzione di lana, merce molto ricercata, soprattutto dopo che il re di Napoli Alfonso d’Aragona (1396-1450), introdusse nel regno le pecore merinos spagnole. Il grande incremento del bestiame transumante provocò l’eliminazione di buona parte dei primitivi querceti e faggeti montani per far luogo ai pascoli delle pecore.
• Francesi. I boschi veneti affidati nel 1601 all’Arsenale veneziano dal Consiglio dei Dieci, furono ben custoditi, fino al 1797. Quell’anno con la vittoriosa Campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte, in pochi mesi le truppe francesi inflissero perdite forestali molto ingenti. Scrive Di Bérengerer di quel giorno in cui quattro capitani della marina francese giunsero nel bosco Cansiglio per tagliare 20 mila larici, ma non trovando larici, si limitarono a tagliare 514 abeti di grossa mole. Dopo il trattato di pace con l’Austria, firmato a Campoformio il 18 ottobre 1797, Venezia passò sotto il dominio austriaco, che riprese a curare la tutela dei boschi.
• Lupi. Nell’Ottocento l’incremento delle popolazioni rurali e la conseguente la distruzione dell’habitat forestale in cui viveva il lupo, per ricavarne pascoli, indussero in questo animale comportamenti aggressivi anche nei confronti dell’uomo e soprattutto dei bambini. Competizione sui pascoli e alle abbeverate, distruzione dell’habitat e caccia determinano la scomparsa della fauna selvatica. La carenza delle prede naturali, cervo, capriolo, cinghiale, induce il lupo alla predazione del loro ”surrogato’ domestico. Inoltre il lupo si è assuefatto alla carne umana per l’abitudine di cibarsi dei cadaveri delle tante guerre dell’epoca, insepolti o insufficientemente inumati. Delle 67 vittime di un comportamento antropofago del lupo riferito ad alcune aree della Padania dal 1801 al 1825, 58 erano "fanciulli" o "giovinetti", per il fatto che alla custodia delle greggi erano adibiti i più piccoli della famiglia rurale. Dalla relazione ufficiale sui metodi per attirare il lupo che nel 1792 mieteva vittime tra i fanciulli nei boschi di Cusagio, Arluno, Cesano Boscone e nei dintorni di Milano: "Coperta che sarà la rete in modo da non riconoscersi lo zimbello, si metterà sul terrapieno posto in mezzo un fanciullo di tenera età e, quando la stagione lo permetta, anche interamente ignudo o coperto di tela color carne, al fine di incitare maggiormente l’appetito dell’animale. facile avvedersi che i contadini rifiuteranno di esporre i loro figli, quantunque, come s’è detto non vi sia l’ombra del pericolo. Incontrandosi, poi delle difficoltà per avere il fanciullo, lo si potrà facilmente trovare tra quelli che corrono le strade e vivono industriandosi, piccoli ladroncelli eccetera, tra i quali pochi rifiuteranno l’offerta".
• Circoli. Alla fine del Settecento oltre il 27 per cento della popolazione si concentrava nelle aree di montagna, il 44 per cento sulle colline e il restante 28 per cento nelle pianure. Data questa distribuzione, l’aumento della popolazione determinò dissesti idrogeologici: in altura i terreni coltivati si estesero a danno dei boschi e delle macchie. Dalle pendici non più presidiate dalla vegetazione le acque sregolate scendevano a valle creando acquitrini e paludi, terreno ideale per l’insorgere della malaria, malattia diffusa soprattutto al sud, che contribuiva a relegare alle quote più alte le popolazioni rurali.
• Sila. L’equilibrio della Sila fu compromesso quando, attraversato lo Stretto il 20 agosto 1860, Garibaldi emanò il Decreto dittatoriale che, in omaggio agli antichi diritti delle popolazioni di Cosenza e dei Casali, consentì l’occupazione, il diboscamento (anche col fuoco) delle antiche selve e il loro dissodamento.
• Guerre. La prima guerra mondiale danneggiò 31.780 ettari di boschi montani, nelle province di Udine, Belluno, Treviso, Venezia e Vicenza. Alfonso Alessandrini, nel 1971: "Si calcola che per riottenere una produzione pari a quella del periodo anteguerra, si debba attendere il 2000".
• Battaglie. Con la ”Battaglia del Grano”, dal 1926 al 1937, per rendere l’Italia autosufficiente nell’approvvigionamento di frumento, 300 mila ettari dei suoli prosciugati furono destinati a questa coltura e anche nei terreni da tempo coltivati l’ansia di raggiungere gli obiettivi di produzione portò a far eliminare le ultime tracce di natura, come siepi, alberi isolati, piccoli stagni e boschetti in favore di vaste monocolture erbacee.
• Estinzioni. Nel 1918 morì l’ultima lince delle Alpi (una vecchia femmina guerca e zoppa presa in una tagliola nel Gran Paradiso); nel 1920 la gru fu estinta come nidificante, grazie alla bonifica delle aree di Portogruaro (il cui nome deriva dall’uccello) ove si riproduceva, e al saccheggio stematico dei suoi nidi; il francolino scomparve dalla Sicilia nel 1869; la quaglia tridattila, sempre in Sicilia, verso il 1920; l’ultimo avvoltoio barbuto delle Alpi fu abbattuto il 29 ottobre 1913 nel Gran Paradiso da un cacciatore bergamasco e in Sicilia scomparve nel 1916; l’avvoltoio monaco scomparve in Sicilia nei primi anni del secolo, e il lupo si estinse nel 1923 (l’ultimo lupo delle Alpi fu un esemlpare ucciso in Valtellina nel 1874).
• Bagni. Sulle coste, alla fine delle incursioni piratesche, determinata dalla conquista dell’Algeria da parte della Francia nel 1830, le bonifiche che ridussero di molto, soprattutto sui litorali settentrionali, il pericolo malarico, contribuirono a diffondere sempre più la moda dei bagni di mare. Il primo centro del turismo di bagni a Rimini fu inaugurato nel 1843. Ma la cittadina adriatica si sviluppò all’inizio del Novecento, con la costruzione del lungomare, del Grand Hotel (1907) e di tutte le strutture destinate alla balneazione. A Viareggio, in Versilia, il primo stabilimento balneare comunale a pagamento risale al 1827. Col tempo gli stabilimenti presero il posto dell’antica duna costiera, alle cui spalle il lungomare e molti edifici della città sostituirono la boscaglia paludosa che, prima delle bonifiche, correva intatta lungo tutto il litorale.
• Sci. Sulle montagne nell’Ottocento le stazioni climatiche d’alta quota per la cura della tubercolosi avevano fatto insediare i primi alberghi e sanatori. Alla fine del secolo, l’introduzione dello sci fa perdere alle Alpi la loro integrità. Conseguenze degli insediamenti al servizio dei bacini sciistici: depauperamento della flora alpina e allontanamento di molte specie particolarmente sensibili, come il gallo cedrone, la pernice bianca, il gallo forcello, il capriolo, la lepre variabile, l’orso bruno e la lince.
• Edilizia. Il 90 per cento dell’intero costruito italiano attuale è stato costruito nel secondo dopoguerra.
• Policoro. Con la riforma fondiaria del Mezzogiorno alla fine degli anni ’50 il bosco di Policoro, vasto 1.600 ettari, più 110 ettari di stagni, fino ad allora mantenuto per le cacce baronali ai cinghiali e caprioli, fu liberato dal vincolo idrogeologico e "passato a taglio raso con dicioccamento". I lavori terminarono nel 1961: gli olmi furono destinati alle costruzioni navali; i tronchi di ontano alle casse da morto per il mercato di Bari; il legno dei frassini acquistato dalla Fiat per le rifiniture della carrozzeria della Giardinetta 500; tronchi di olmo, di cerro e di frassino usati per traversine ferroviarie; il resto, come legna da ardere. Il tutto per un volume di 500.000 metri cubi, di cui 150.000 di tronchi lisci, dritti e senza nodi, pari a 150.000 alberi di grandi dimensioni.
• Coste. Dal 1967 al 1997, mentre i paesi dell’Unione europea hanno perso il due per cento del terreno coltivabile, in Italia il calo, dovuto soprattutto all’invasione di cemento e asfalto, è stato del venti per cento. Nel 1985, dei 7.456 chilometri di costa, ne restavano solo mille allo stato di natura originaria. Secondo uno studio del Wwf, condotto con l’aiuto del veliero Oloferne dal 1995 al 1997, risultava che il 58 per cento delle coste italiane era interessato da occupazione intensiva da edificato (175 abitazioni per vacanza a chilometro), il 13 per cento era occupato estensivamente da costruzioni sparse e solo il 29 per cento figurava libero da costruzioni (ma non da altre forme di trasformazione dell’ambiente costiero, come colture industriali, serre, campeggi, itticolture intensive).
• Chimica. Sostanze chimiche ad uso fitoiatrico, riversate sui terreni italiani nel 1991: 1.950.000 quintali, 3,4 chilogrammi a persona, 14 chilogrammi a ettaro (con punte di 35,6 kg di pesticidi per ettaro di frutteto).
• Pesticidi. Anno di picco nell’uso di pesticidi, il 1988: 32.700 tonnellate, contro le 1.170 del 1960 (da quell’anno diminuirono). Conseguenze: perdita delle specie messicole (papavero, fiordaliso, speronella, specchio di Venere, gladiolo, gittaione) e degli animali ad esse infeudati (farfalle, lucciole, allodole, zigoli). La eliminazione del verde marginale (siepi e boschetti, stagni e filari) per facilitare la manovra delle grandi macchine agricole provocò la diminuzione di molte specie animali legate all’ambiente rurale come la lepre, la starna (già in declino per la caccia), i rapaci (minacciati dall’accumulo di pesticidi nei loro tessuti), il riccio e numerosi uccelli, mammiferi e rettili insettivori. La presenza di pesticidi nelle acque ferme superficiali determinò l’estinzione nelle popolazioni di anfibi (soprattutto, nelle risaie).
• Incendi. Tra il 1970 e il 2000 si sono verificati in Italia 300.000 incendi che hanno devastato 3.650.000 ettari di territorio, il 50 per cento boschi. Il tutto su una superficie forestale che va, a seconda dei parametri di rilevazione, dai 6,8 milioni di ettari (dati Istat), agli 8,7 milioni di ettari dell’inventario Forestale Nazionale del 1987.
• Prezzi. Aneddoto che girava negli anni Cinquanta in occasione della lottizzazione di 5.000 ettari in Sardegna, 55 chilometri di costa, zona chiamata proprio allora Costa Smeralda, a proposito dell’acquisto a prezzi molto bassi di tratti di costa: la risposta del contadino proprietario di un grande appezzamento costiero a cui fu offerto un miliardo per l’acquisto della sua terra: "Non se ne parla neppure, voglio almeno 100 milioni".