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 2002  marzo 04 Lunedì calendario

Il costume italiano

• Il costume italiano. «Ci siamo quasi. Non c’è nemmeno bisogno di diramare gli inviti. L’appuntamento con il Festival di Sanremo è d’obbligo. Col telecomando in mano, alla ricerca di un nuovo idolo, i più giovani fingeranno disinteresse e sarcasmo, mentre la famiglia media si raccoglierà più o meno compatta intorno al focolare televisivo. E non credete a quelli che dicono di non averlo mai visto: dall’anno della sua rinascita -quel 1982 che proclamava con il vincitore Riccardo Fogli anche la definitiva prevalenza dell’industria discografica - è ridiventato parte obbligatoria del costume italiano» (Marinella Venegoni, 1996).

• Sanremo è come il Santo Natale. «E’ un’istituzione, una tassa, un ordine impartito da un’autorità superiore. Proprio come il Natale, nessuno ne ricorda più con precisione le origini; e proprio come a Natale, c’è sempre qualcuno che ne rimpiange l’autenticità perduta e ne lamenta la trasformazione in bieco business. Non per questo, però, la gente smette di comprare regali inutili e mangiare enormi quantità di cibo» (Fabrizio Rondolino, 2001).
• Pupari. «Il segreto del successo di Sanremo è che mischia i due generi principali della tradizione italiana, il Carnevale e il Melodramma. E’ una melodrammatica carnevalata, una pagliacciata dove tutti si travestono e tutti si prendono molto sul serio, fino alla più demente autocommiserazione. Per anni a organizzare la parata è stato chiamato il più famoso puparo italiano, Pippo Baudo: era perfetto nell’era democristiana del grande centro. Crollata la Dc, ha dovuto farsi da parte, sia pure con molta riluttanza e fastidioso ritardo» (Curzio Maltese, 1997). Pippo Baudo torna, dopo un esilio di cinque anni, per la cinquantaduesima edizione (da domani a sabato). «Mi piace il clima, magico, che si viene a creare in teatro, tra gli spettatori, e poi la sensazione di officiare una cerimonia».
• Un bel baraccone. Ricky Gianco, a Sanremo nel 1965 e nel 1970: «Era già un bel baraccone, però rappresentava ancora la musica italiana, mentre oggi è un fatto di costume. E di soldi. L’attenzione si è spostata dalle canzoni ai cantanti, dai cantanti agli ospiti, dall’evento al business. La posta sale sempre: le top model più strepitose, i conduttori fenomenali, l’elefante colorato che balla. Il circo, insomma. Rispetto alle canzoni, lo Zecchino d’oro assolve molto meglio la sua funzione. Il Festival è un alibi, perché bisogna farlo per forza: è l’unica vetrina estera della canzona italiana». «La verità è che non c’è alibi. Il fatto è che Sanremo e l’Italia coincidono. Semplicemente. E’ l’Italia contemporanea che ha imparato a dire: mi piace questo ma non mi dispiace neanche quello» (Edmondo Berselli, 2000).
• L’anno scorso la Rai ha firmato un accordo con il quale si è legata fino al 2003 al comune di Sanremo: centoventi miliardi in tre anni. La convenzione prevede un esborso di 15,5 miliardi l’anno più iva cui va aggiunta l’organizzazione di programmi collaterali tipo ”Sanremo si nasce” e ”Sanremo estate” e, soprattutto, l’aumento dell’80 per cento dei diritti tv rispetto al passato. «Cosa dia in cambio il comune di Sanremo (alla Rai, e a cittadini e turisti) rimane misterioso. Sembra che la metà dell’ingente cifra venga accantonata per costruire il tante volte annunciato Palafestival» (’Panorama”, 2001).
• Per il Festival 2002, il Teatro Ariston è stato completamente rinnovato. Novità assoluta, la disposizione dell’orchestra, sistemata in verticale su due strutture alte 12 metri, in mezzo un grande schermo di cento metri quadri, casse audio e monitor nascosti sotto la pedana su cui si esibiscono i cantanti.
• Le canzoni italiane sono sempre più standardizzate nei suoni. «La musica italiana ha bandito i mandolini napoletani, le fisarmoniche di stradella, le ciaramelle abruzzesi e le ocarine dell’Oltrepò. Risultato: i brani italiani, compresi quelli di Sanremo, sono luccicanti, internazionali, caratterizzati da fissità concettuali però spendibili ovunque. Insomma i principali prodotti sanremesi sono sempre più simili ai ritratti tardocinquecenteschi delle Fiandre: la stessa alta professionalità, lo stesso nitore di linee/suoni, ma anche la stessa ripetitività, la stessa freddezza, la stessa noia» (Tommaso Labranca, 1998).
• Cantanti. Luisa Corna, «ragazza-calendario che si mostra dal muro di un’officina, soubrette che sa parlare di calcio a Controcampo su Italia 1, stangona che si nasconde gli anni ma fa comunque sognare gli italiani» , parteciperà al Festival in coppia con Fausto Leali: «La notizia sorprende solo gli ignoranti, quelli che non sanno che si esibisce almeno tre sere alla settimana in discoteca, alle convention, nei locali, in tv. E che ha inciso un disco. Un singolo, ma pur sempre un disco» (Claudio Sabelli Fioretti).
• Le parole sono obbligatoriamente nazionalpopolari: «Una quantità incontrollata di tu e di te circola in queste canzoni, tra l’invettiva, il lamento e il colloquiale intimistico, con l’amore come Leitmotiv ricorrente (raramente l’amicizia), un amore sociologicamente declinato secondo i canoni di Francesco Alberoni, come asserisce Mietta ”Fare l’amore / mette in pericolo / tranquille parole”. O come Spagna: ”L’amore resta un mistero / che non si svelerà mai / e a volte capita che ami chi non ha / per te nessuna pietà”. Sono versi suoi, di quell’amarezza che piace tanto al pubblico di Paolo Limiti» (Piero Gelli, 2000).
• Parole 2. «Il cielo batte la terra 9 a 3. La pace sconfigge la guerra 6 a 3. Vivere la vince su morire 7 a 5. La vita (18) cancella la morte che non c’è. Dolore appare 6 volte, gli fanno da esatto contrappeso piacere (2), gioia (2), allegria (2). Piangere e ridere risultano pari e patta (4). La luce (14) surclassa il buio (4). Piccola rivincita: il male (5) sconfigge il bene (2). Ma mette le cose a posto buono (3) che non ha in alternativa alcun cattivo. Di bugie ce ne sono 2, di verità nessuna: ma vero (9) ha la meglio su finto (4), sincero (3) su falso che non compare mai. Versi: Perché spari cazzate... e spari / e non c’hai neanche la mira; Non ho visto nessuno / andare incontro a un calcio in faccia; Perché cerco lavoro e non lo trovo / Risultato non c’ho mai una lira; ... se io non fossi qui / e tu non fossi tu... / sarebbe un’altra vita...» (Mario Missiroli, 1998).
• Parole 3. «E’ con Modugno che a Sanremo capisco l’importanza delle parole. Non tanto nel 1958 (’Nel blu dipinto di blu”) quanto nel 1959 (’Piove”). Se chiedete in giro il titolo di queste due canzoni molti vi diranno ”Volare” e ”Ciao ciao bambina”, il che dimostra la forza del ritornello e anche delle parole. La folgorazione del 1971, Dalla con ”4/3/1943”. L’attacco: ”Dice che era un bell’uomo e veniva veniva dal mare”, evoca il primo Pavese, anche se non c’entra niente» (Gianni Mura, 2000).
• Verseggiatori. «Dovrebbe andare in galera chi ha paragonato Mogol ad alcuni grandi poeti. E’ un populismo spaventoso. E del resto non discriminare è oggi la regola. La parola d’ordine. Vogliamo chiamare poesie i loro testi? Bene, allora rivediamo la terminologia, definiamo lirica la poesia, e lirici i poeti. Perché sono due storie molto diverse. La poesia vera è sintesi di emozione e pensiero: non ha bisogno della musica. E anche se in una canzone ci sono versi metricamente perfetti, non basta questo per definire poeta un cantautore. Al massimo verseggiatore» (Patrizia Valduga, 1999).
• Sono finiti i tempi in cui si poteva liquidare l’intero festival come una farsa televisiva «per appassionati del kitsch musicale in cui trionfavano, a dispetto di tutto quello che raccontava la realtà della musica, i soliti Ricchi e Poveri, Toto Cutugno, Al Bano e Romina. Dove il festival non perde il vizio è nelle premiazioni, nelle quali accadono episodi incredibili, spesso grotteschi. La sequenza dei vincitori degli ultimi anni, con rare eccezioni, è sconcertante. Ricordate i Jalisse, Aleandro Baldi, Annalisa Minetti? Bene, questo è l’albo d’oro di un festival che vuole essere la celebrazione della canzone italiana» (Gino Castaldo, 2000).
• Cancellata la giuria di qualità, quest’anno si rimanda tutto a quelle demoscopiche, «imprevedibili». «Come tutti gli anni c’è la canzone vincitrice annunciata e poiché, come nei premi letterari, anche in quelli canori lo sconosciuto non rende più, si punta soltanto su valori assodati» (Piero Gelli) [12]. Quest’anno l’annunciato è Gino Paoli: «Io non sono il tipo che si agita per vincere. Molti tuttavia misurano il prossimo col loro metro. Così, se fossi un giurato popolare, questa previsione m’insinuerebbe il tarlo del dubbio sulla solita pastetta. E magari non voterei Paoli».
• Ricordate Paolo Vallesi? «Un tipetto con la barba malrasata, candidato al ruolo di ”nuovo Masini”, fosse mai che uno non bastasse. Lo incontrai per la prima volta nell’autunno del 1991, faceva un concerto in un postaccio vicino a Torino; gli chiesi dei suoi progetti, e lui rispose che sarebbe andato al Festival. Era giovane e ingenuo, e un po’ spaccone, e si vantò: ”Mi hanno promesso il terzo posto”. La faccenda mi divertì, e alla vigilia del Sanremo 1992, la raccontai in un articolo sulla ”Stampa”. Poi, le incorruttibili giurie popolari del Festival votarono liberamente, e Paolo Vallesi si piazzò al terzo posto» (Gabriele Ferraris, 1999).
• Come si spiegano, allora, certe strane vittorie? Ricky Gianco: «E’ come l’elezione di papa Luciani: quando tutti pensano solo a controllarsi l’un l’altro ci può scappare l’imprevisto. Le vittorie sono sempre pilotate. Di solito sono accordi ed equilibri fra le case discografiche».
• Chi vince? E chi se ne frega, chi vince. «L’importante è esserci, farsi vedere, mostrarsi sorridere. Farsi vedere anche da tutti gli sfigatissimi che aspettano assiepati sulla passerella sistemata davanti al teatro Ariston, e che non pagheranno mai diecimila lire per un concerto dei cantanti in gara, ma siccome guardare è gratis fanno urletti quasi convinti quando riconoscono una faccia nota. A Sanremo non è il caso di fare gli schizzinosi. Malgrado la nonchalance di quelli, fra i cantanti, che ostentano di disinteressarsi al voto delle giurie, dalla prestazione su quel palco dipendono carriere, rinascite, vendite, ricollocazioni sul mercato» (Edmondo Berselli, 2000).
• Sanremo non fa vendere le canzoni in gara (salvo pochissime eccezioni) ma non ha eguali per far conoscere gli artisti stranieri. «Aerei privati, limousine e lussi vari sono perciò a carico delle major. La Rai sta a guardare, fregandosi le mani. Ma paga il gettone di presenza e le spese ai superospiti italiani, curiosa categoria di artisti che da Sanremo hanno preso (la notorietà quando erano sconosciuti) e prenderanno (la promozione dell’album ora), ma che non vogliono sporcarsi col meccanismo della gara» (Stefania Berbenni, 2000).
• Quanto vale il Festival? Federico Kujawska, responsabile relazioni esterne del gruppo Emi Sanremo: «Parlare di flop non sarebbe carino. Il trend è negativo. Ma vale per tutto il mercato. Basta guardare le cifre dell’anno scorso. C’è una diminuzione e in tutti gli artisti». Secondo i dati della Waterhouse Cooper il mercato è calato del 9 per cento per unità vendute e del 7,92 per cento in valore.
• Sanremo è un fenomeno di costume che con la musica ha ben poco a che fare. «Girolamo Caccia-Dominioni, presidente della Fimi, l’associazione dei discografici italiani, dice che basta fare una considerazione: i principali consumatori di musica pop hanno tra i 16 e i 23 anni. Il target del Festival, invece, va dai 25 anni in su. Strano ragionamento da parte di un discografico. Evidentemente, anche per la categoria, Sanremo rappresenta un oggetto di antiquariato irrecuperabile» (Alberto Dentice e Stefano Pistolini, 1998).
• Se ne sono viste delle belle, in mezzo secolo di festival. «Dalla valletta alla pin-up, dalla brava presentatrice all’austera attrice di prosa, dall’annunciatrice professional alla figlia d’arte. Nel 1995 l’idea, o l’ideuzza, è di fingere rivalità: la bionda contro la bruna, Anna Falchi contro Claudia Koll, e poi la Ferilli, che trionfa nonostante gli abiti guepière di Dolce&Gabbana, in tandem con l’eterea Valeria Mazza, annus domini 1996» (Laura Laurenzi, 2000).
• Tornato Baudo, torna la regola ”una bionda e una bruna”. La bionda è Vittoria Belvedere: trent’anni, nata a Vibo Valentia ma cresciuta in Brianza, alta, sottile, attrice di fiction di successo (’Piazza di Spagna”, ”Lui e lei”, ”Bel Ami”), sposata con un «principe azzurrro perfetto», un figlio di un anno e mezzo. La parte della bruna è toccata a Manuela Arcuri, 25 anni, di Latina, single, «ha fatto i calendari, ha frequentato uno sceicco»: «Se Baudo ti sceglie significa che non sei l’ultima»
• A Sanremo non succede quasi niente, stare nel backstage è proprio noioso. «E forse negli anni è leggermente peggiorato: ricordo la prima volta che andai, le urla dei ragazzini per Boy George. L’anno scorso nessuno s’è filato Russell Crowe, Anastacia, Eminem; l’unico momento di brivido per Cristina del Grande Fratello» (Omar Calabrese, 2002). «Poiché delle canzonette non importa niente a nessuno, e poiché per una settimana bene o male a Sanremo bisogna rimanerci, il Festival è prodigo di spettacoli d’arte varia. Un anno furono invece i bodyguard a rallegrare le notti sanremesi: convinti di essere a Saigon durante l’offensiva Vietcong, cominciarono a picchiare un paio di fotografi; quindi, sull’onda dell’entusiasmo, passarono ai cameramen, ai giornalisti, ai passanti. Mancò poco che picchiassero anche Baudo, qualcuno ci contava» (Gabriele Ferraris, 1999).
• Intellettuali. «Umberto Eco non se ne perde uno, anche se non mi ha mai spiegato il perché» (Angelo Guglielmi). «Gli intellettuali, che di norma vedono Sanremo ma preferiscono non dirlo agli amici, che a loro volta naturalmente vedono Sanremo, dovranno fingere di seguire con passione, su Raisat, una straordinaria versione teatrale di Madame Bovary prodotta dalla Bbc. Ci saranno i sottotitoli, ma in questi casi è buona regola sostenere di averne fatto tranquillamente a meno» (Fabrizio Rondolino, 2001).
• Profezie autoavverantesi. «Anche nel migliore dei casi, nel Sanremo più riuscito e fortunato, alla fine in questo paese canterino rimangono sempre in oltre trenta milioni che il Festival non lo guardano per niente» (Antonio Dipollina, 2002). «Il successo di Sanremo è la cosiddetta profezia che si autoavvera: si dice che è un evento televisivo imbattibile, così nessuna rete si organizza seriamente per contrastare questo primato, e il pubblico si sparpaglia sulle varie offerte» (Omar Calabrese, 2002).
• La deficiente. «Per consentire al presidente Carlo Azeglio Ciampi e alla signora Franca di sfuggire al Festival, Rete 4 sposta in prima serata ”Terranostra”, sgangheratissima telenovela brasiliana che ha per protagonisti Matteo e Giuliana, due italiani emigrati oltreoceano alla fine dell’Ottocento. Che di ”Terranostra” Ciampi sia un fan è probabilmente una trovata del diabolico ufficio stampa Mediaset: ma è bello credere che sia davvero così e probabilmente ci credono anche al Quirinale» (Fabrizio Rondolino, 2001).
• Metooism. «Bisognerebbe che qualche sondaggista dimostrasse che i veri beniamini del pubblico sono sempre di origine proletaria o piccolo borghese. E’ questo che avvicina il canto, e il Festival, alla gente: se ce l’ha fatta lui, potrei farcela anch’io. In America lo chiamano metooism, e i sociologi ci hanno costruito una teoria che spiega addirittura come e perché ogni cittadino potrebbe, se volesse, diventare presidente degli Stati Uniti. Ma gli americani, si sa, sono sempre esagerati: a noi italiani bastano le canzonette" (Marinella Venegoni, 1996).