Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 8 aprile 2002
In Medio Oriente si prepara un terribile scontro di civiltà?
«L’ha scritto Tom Friedman la settimana scorsa in un editoriale sul ”New York Times”: quello che Osama bin Laden non è riuscito ad ottenere l’11 settembre potrebbe ora essere scatenato dalla guerra israelo-palestinese in Cisgiordania»
• In Medio Oriente si prepara un terribile scontro di civiltà?
«L’ha scritto Tom Friedman la settimana scorsa in un editoriale sul ”New York Times”: quello che Osama bin Laden non è riuscito ad ottenere l’11 settembre potrebbe ora essere scatenato dalla guerra israelo-palestinese in Cisgiordania».
• Qual è il peggiore degli scenari possibili?
«In Medio Oriente si dice che non è possibile fare la guerra senza l’Egitto e la pace senza la Siria, e viceversa. Tutto parte dall’Egitto. I media del Cairo, totalmente controllati da Hosni Mubarak, cercano di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi interni, la corruzione, il malgoverno. Così la televisione trasmette ventiquattro ore su ventiquattro le peggiori immagini dell’occupazione israeliana in Palestina. In più, per giustificare le forti spese in armamenti nonostante la crescente povertà del paese, il regime, che mantiene uno stampo militare, si vanta continuamente della sua forza. Se le cose continuassero ad andare in questo modo la gente potrebbe cominciare a chiedere: se la Palestina ci sta così a cuore, e se siamo così forti, perché non interveniamo?».
• Mubarak però ha bisogno dei soldi americani.
«Altro che! Due miliardi di dollari l’anno per nutrire una popolazione in crescita esponenziale. In realtà poi con quel denaro compra armi, ad esempio, guarda caso, i carrarmati americani M1A1s. Non dimentichiamo poi che al Cairo hanno bisogno degli Usa per tenere a bada i fondamentalisti islamici».
• L’Egitto ha anche stretti legami economici con Israele.
«è vero. Nell’ultimo decennio i due paesi hanno silenziosamente tessuto una fitta rete di rapporti di cooperazione: joint-venture private nel settore agricolo e industriale, scambi commerciali, import-export di beni di consumo. Lungo la ”desert-road” tra la capitale egiziana e Alessandria sono sorte in questi anni decine di aziende agricole che hanno messo a frutto la tecnologia e le tecniche d’irrigazione fornite da Israele. E nel Sinai avanza verso lo stato ebraico il ”gasdotto della pace” (progettato dall’Eni) che attraverso Algeria, Libia, Egitto, Israele, Libano e Siria raggiungerà la Turchia: i cantieri sono ormai alle porte della Striscia di Gaza».
• Sarebbe una follia dunque per il Cairo mettersi contro Israele e Stati Uniti.
«La pazzia tra gli esseri umani è rara. E Mubarak non è pazzo. Purtroppo però la pazzia non è così rara tra le nazioni. E potrebbe succedere, senza nessuna reale intenzione di scatenare una guerra ma spinto dalla folla, che il presidente egiziano decida di violare il trattato di pace di Anwar Sadat e spedisca la quarta divisione corazzata e l’ottava meccanizzata, in tutto 1.600 carrarmati, verso la penisola del Sinai, a minacciare la frontiera con Israele».
• A questo punto cosa succede?
«Succede che il rais siriano Bashar el-Assad è troppo giovane e insicuro e sicuramente sarebbe preso dalla tentazione di entrare in competizione con l’Egitto».
• Quanto vale l’esercito di Damasco?
«Hanno 420 mila effettivi più 120 mila riservisti, 2.400 carrarmati e altri 2.000 della riserva, 4.800 blindati, 4 mila pezzi d’artiglieria, 400 jet Mig 29/25/23/21 e Sukhoi 24/22, 200 elicotteri d’attacco, 200 elicotteri multiruolo, 21 brigate missili contraerei, 80 missili balistici scud, Ss21, M9, 16 navi lanciamissili». «Come numeri ci sono, ma in media è roba vecchia. A Tel Aviv non si fanno certo spaventare».
• Che tipo è Bahar el-Assad?
«Ha trentasei anni, viaggia su Internet, discute di globalizzazione e di riforme economiche, per cultura e mentalità si differenzia nettamente dai vecchi leader come Arafat e Mubarak. Più che invadere Israele, da cui esige comunque la restituzione delle alture del Golan, vorrebbe modernizzare un paese stremato da 30 anni di pianificazione centralizzata».
• Ci sta riuscendo?
«Il dottor Bashar, come lo chiamano in patria per la sua laurea in medicina e specializzazione in oftalmologia a Londra, ha licenziato decine di funzionari statali, ufficiali dell’esercito, agenti dei servizi accusati di corruzione, ha dato via libera all’importazione di computer, promesso una riforma fiscale e una ripresa delle privatizzazioni. Quando, nel giugno 2000, rimase orfano e fu obbligato a raccogliere l’eredità di un padre straordinario, nel bene e nel male, aveva alcune idee molto chiare. Riteneva necessario che il suo paese invertisse le priorità: prima le riforme interne, poi il processo di pace. Come dire, le alture del Golan possono aspettare, la perestrojka no. Però quando il falco Sharon compì la provocatoria visita sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme, innescando una nuova e pericolosa Intifada palestinese, fu costretto a recuperare frettolosamente la classifica delle antiche priorità».
• Quali sono queste priorità?
«Restituzione, da parte di Israele, delle alture del Golan senza alcun compromesso; presenza del contingente d’occupazione siriano in Libano; alleanza flessibile con l’Iran e interessata tolleranza nei confronti della milizia libanese più temibile, Hezbollah, che da Teheran riceve denaro e istruzioni; infine, la consueta politica, per interposto attore, del mordi e fuggi nei confronti dello Stato ebraico, perché di altro non si tratta, visto che i due eserciti, israeliano e siriano, si son fatti un punto d’onore di non affrontarsi mai, almeno dal 1982, la data dell’attacco, pianificato proprio da Sharon, al Libano».
• A questo punto a chi tocca?
«Alla Giordania. Anche re Abdallah, come el-Assad, è giovane, ha 39 anni, e moderno. Dà grande importanza alla pace con Israele. Ma deve fare i conti con i suoi sudditi palestinesi».
• Quanti sono?
«Un milione e 570 mila su una popolazione di poco superiore ai tre milioni e mezzo. Cominciarono ad arrivare nel 1948, in seguito alla guerra da cui ebbe origine lo Stato d’Israele. Poi fu la Guerra dei Sei Giorni del 1967 a causare un’ondata di 750 mila palestinesi che si riversò in Giordania a causa dell’occupazione israeliana della West Bank. Già nel 1946, a quattro anni dalla dichiarazione d’indipendenza della Giordania, il re Abdallah I aveva formalmente annesso Gerusalemme Est e la West Bank, dichiarando l’unione delle due rive del fiume Giordano sotto l’autorità hashemita».
• Com’è andata la convivenza?
«Male. Nel 1950 la costituzione giordana riconobbe la piena cittadinanza a tutti i profughi palestinesi, ma questi, sebbene ormai parte integrante della società giordana, furono rappresentati nelle istituzioni politiche e nelle Forze Armate solo in maniera simbolica. Tutto rimase sotto il controllo dei giordani dell’East Bank, quella che chiamano Transgiordania. Fu la guerra civile del Settembre Nero, nel 1970, a dare un duro colpo all’unità nazionale. In due settimane di scontri le fazioni dell’Olp tentarono di rovesciare il governo giordano accusato di collaborare con Israele. Anche se la maggior parte dei palestinesi restò neutrale, tra le due popolazioni si aprì una ferita profonda. Alla fine ci furono 2.500 morti».
• I palestinesi continuarono a essere rappresentati nelle istituzioni giordane?
«Sì, ma solo simbolicamente. Neanche la costituzione dell’Olp nel 1964 e il suo riconoscimento da parte del mondo arabo impedirono alla Giordania di atteggiarsi a rappresentante del popolo palestinese fino alla fine degli anni Ottanta. Amman accettò formalmente, madi fatto ignorò, le decisioni del vertice arabo di Rabat del 1974, che dichiarava l’Olp ”unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”. Ma sotto la pressione degli Stati arabi e di una rivolta nei Territori palestinesi, il 31 giugno 1988 re Hussein decise di svincolare la Giordania dalla West Bank, ancora sotto occupazione israeliana, e di affidarne la responsabilità all’Olp. Il sovrano la definì una ”indipendenza amministrativa e legale”».
• Il legame dei giordano-palestinesi con la Palestina è rimasto forte?
«L’85 per cento è nato in Giordania dopo il 1948 e molti di loro non hanno mai visto la Palestina. Vivono per la maggior parte nei grandi centri di Amman, Az Zarqa e Irbid, le tre città principali del paese. Circa 250 mila vivono nei tredici campi profughi ormai diventati parte integrante del paesaggio urbano. E se ogni cittadino di origine palestinese insiste per ottenere il diritto di rientrare, in realtà sono ben pochi quelli che hanno realmente intenzione di esercitarlo. Le nuove generazioni sono integrate. Pensi: nel 1988, durante la partita di calcio tra Palestina e Giordania, ad Amman, i palestinesi più adulti tifavano per la Palestina, ma i loro figli applaudivano la Giordania».
• Nonostante ciò anche la Giordania muove contro Israele.
«Sì, e se mi si passa la battuta è colpa delle tv via satellite: la proliferazione dei canali arabi ha reso il conflitto nei Territori più vivo e vicino, come mai era stato prima. Le pressioni per l’annullamento di tutti gli accordi di pace con il ”nemico” crescono di giorno in giorno».
• A questo punto come se ne esce?
«Mettiamo che sia tutta una finta. Che Egitto, Siria e Giordania vogliano solo fare scena per tenere buone le opinioni pubbliche locali. Una mediazione diplomatica internazionale potrebbe far rientrare la crisi. Ma qui entra in gioco il fattore popolare: l’entusiasmo della gente potrebbe costringere alcuni paesi arabi a far arrivare le proprie truppe. Primo fra tutti, ovviamente, l’Iraq, che per far giungere al fronte i suoi carrarmati dotati, mettiamo, di armi chimiche o addirittura biologiche, dovrebbe chiedere il permesso di transito alla Siria, o alla Giordania, o a tutte e due. C’è da scommettere che el-Assad e re Abdallah siano terrorizzati al solo pensiero, ma a questo punto come potrebbero dire di no?».
• Quali altri nemici deve temere Tel Aviv?
«Restano gli Hezbollah accampati nel sud del Libano, al confine nord di Israele. Sono equipaggiati con missili non molto precisi ma che possono fare molti danni».
• Sembra lo scenario della guerra del 1967.
«Sì, e il discorso vale soprattutto per gli arabi, che subirono un’umiliazione storica ancora oggi ben impressa nella loro memoria. A dire il vero però la situazione non è proprio la stessa: la bilancia militare questa volta è ancora più a vantaggio degli israeliani. Contro il terrorismo hanno dei problemi, ma se si tratta di far la guerra, nella regione non c’è nessuno che gli possa tener testa».
• Sono così forti gli israeliani?
«Hanno 133 mila effettivi più 650 mila riservisti, 1.000 tank più 2.000 di riserva, 5.500 blindati, 3 mila pezzi d’artiglieria, 330 jet F15 e F16 più 200 F4, A4 e Kfir, 100 elicotteri d’attacco, 150 elicotteri multiruolo, 10 battaglioni missili contraerei, 150 missili balistici con 200 testate nucleari, 3 sottomarini, 15 navi lanciamissili. Solo nel 1999 hanno importato armi per 3,3 miliardi di dollari, oltre la metà elargiti da Washington come aiuti militari: un terzo più dell’Egitto, ben 26 volte più della Siria».
• Facendo due conti hanno meno carrarmati degli altri
«Sono solo numeri: l’undicesima divisione corazzata è più moderna delle avversarie, e più veloce. L’artiglieria, preparata al cento percento da istruttori donne, non ha rivali. Non parliamo della situazione nei cieli: gli esperti prevedono che, per ogni aereo di Tel Aviv abbattuto, Damasco ne perderebbe trenta. Sa come finì nel 1982? Israele batte Siria 82 a 0».
• E i missili iracheni?
«Ammettiamo pure che Saddam Hussein decida di usare quelle armi che per tanto tempo e con tanta forza ha negato di possedere: i 50 missili Scud lanciati nel 1991, durante la guerra del Golfo, fecero tanta paura ma nessun morto. Anche se venissero usati per disperdere gas nervino e antrace farebbero poche vittime, perché l’Iraq non ha la tecnologia per realizzare un’arma di questo tipo».
• E un’eventuale opzione atomica?
«La minaccia non convenzionale da parte di paesi islamici, vicini o lontani, non esiste: non perché non dispongano di tali armi o non desiderino procurarsene, ma perché Israele custodisce importanti luoghi santi islamici, nei quali risiedono milioni di musulmani. Il paese che osasse impiegare armi di distruzione di massa in un luogo simile verrebbe condannato dai popoli musulmani per le generazioni a venire».
• Sulla bomba di Gerusalemme, ormai, ci sono pochi dubbi.
«L’arsenale nucleare israeliano è, da anni, almeno in parte, un segreto di pulcinella. Le pubblicazioni specializzate internazionali ne riportano da tempo, nei loro annuari strategici, la consistenza. L’’International Military Balance 1998/99”, ad esempio, riporta una capacità presunta di più di 100 testate nucleari».
• Dunque gli arabi non hanno possibilità di vincere e alla fine non attaccano.
«Infatti attacca Israele».
• Attacca Israele???
«è ovvio: l’Egitto manda i carrarmati davanti alla penisola del Sinai, la Siria alle alture del Golan, la Giordania davanti alla Cisgiordania, intanto, ”via Damasco e Amman”, arrivano le divisioni corazzate di Saddam Hussein. Sharon non ha scelta: richiama mezzo milione di riservisti. E cosa succede? Il paese va alla paralisi economica perché quasi tutti gli uomini e le donne in grado di lavorare sono stati richiamati al fronte. Per Israele è una situazione insostenibile: bisogna finirla il più presto possibile».
• E cosa succede?
«Le truppe terrestri arabe vengono sbaragliate in pochi giorni e subiscono un’umiliazione peggiore di quella del 1967».
• Quindi vince Israele?
«No, non vince Israele».
• Perché?
«Perché Israele non dimostra niente. Resta nella situazione in cui si trova adesso. Tutti sanno che è più forte dei suoi vicini. I paesi arabi, invece, sono umiliati: è l’occasione che i fondamentalisti islamici aspettavano per sollevare le masse contro i governi moderati e prendere il potere».
• Tom Friedman...
«Bravo: quello che Osama bin Laden non è riuscito ad ottenere l’11 settembre sarà scatenato dalla guerra israelo-palestinese in Cisgiordania».