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 2004  marzo 29 Lunedì calendario

Se si guarda al crac della Parlamat, la giustizia italiana svela di poter essere anche rapida come una lepre

• Se si guarda al crac della Parlamat, la giustizia italiana svela di poter essere anche rapida come una lepre. I fatti sono questi, e occhio alle date, per favore. Il 17 dicembre 2003 la Bank of America svela la «bufala» più farfallina inventata a Collecchio. New York fa sapere, a un’Italia imbambolata dalle menzogne e dai numeri, che il conto corrente intestato a Bonlat presso la sede di New York non esiste. Non c’è. Non c’è mai stato (forse, come vedremo). Come non ci sono i 3,95 miliardi di euro che avrebbero dovuto esserci a sentire gli amministratori della Parmalat e i revisori dei bilanci. il sorprendente, straordinario, inaspettatissimo schianto dell’ottavo gruppo industriale italiano.
• Dieci giorni dopo. 27 dicembre 2003. Sono le otto della sera. Milano. Un investigatore della Guardia di Finanza chiede a un signore ingobbito ma sorridente, reduce da sette giorni in giro per il mondo (Parma, Lisbona, Fatima, Lisbona, Madrid, Quito e Guayaquil - in Ecuador - Madrid, Zurigo, Milano, Collecchio): « lei, il dottor Tanzi?». Calisto Tanzi trova la forza (o l’avventatezza) di fare ancora un mezzo sorriso e ciao ciao alle telecamere prima di infilarsi nell’auto degli investigatori e trasferirsi nel carcere di San Vittore.
• Novantuno giorni dopo. 17 marzo 2004. Procura di Milano. I pubblici ministeri appaiono stanchi del tour de force, ma alquanto soddisfatti. Ancora 24 ore e sono in grado di chiedere il giudizio immediato contro Calisto Tanzi, i manager di Collecchio, i dirigenti delle sedi estere della Parmalat, i revisori «primari» (Deloitte&Touche) e «secondari» (Grant Thornton), i «controllori» (internal auditors), e tre dirigenti di Bank of America, l’avvocato d’affari Gianpaolo Zini e, infine, come «persone giuridiche» Bank of America, Deloitte&Touche e Gran Thornton. Ipotesi di reato: aggiotaggio, ostacolo alla Consob e concorso nel falso dei revisori [il gip ha poi rifiutato il giudizio immediato, la Procura chiederà il rito ordinario, ndr].
• Il reato di aggiotaggio è disciplinato dall’art. 501 del codice penale: «Chiunque, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, pubblica o divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo dei valori ammessi nelle liste di Borsa è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da uno a 50 milioni di lire». Dicono in Procura: «Sarà un processo senza storia perché gli imputati, da Calisto Tanzi al vero dominus finanziario della società Fausto Tonna, hanno confessato e dimostrato di aver falsificato i bilanci, deformandone le poste, occultandone le perdite, inventato di sana pianta liquidità inesistenti». A giudicare dalle facce rassegnate degli avvocati delle difese i pubblici ministeri non esagerano: l’esito del giudizio appare molto prevedibile. Tira un sospiro di sollievo soltanto Gian Piero Biancolella, avvocato di Tanzi. Il patron di Collecchio, seduto accanto agli uomini di Bank of America, intravede una possibilità di poter ridimensionare le sue responsabilità.
• Da Milano a Parma. Qui i pubblici ministeri ipotizzano contro Tanzi & soci la bancarotta fraudolenta, la truffa aggravata, il falso in bilancio. Come a Milano, i procuratori non hanno incertezze sulla conclusione del processo. «Le distrazioni di denaro dalle casse della Parmalat sono dimostrate per tabulas e di conseguenza la truffa e il falso bilancio. Contiamo di andare a giudizio entro giugno». Dicembre 2003/Giugno 2004. In soli 180 giorni, indicando responsabilità e assegnando colpe, la giustizia italiana offre una (prima) conclusione al crac industriale e finanziario più clamoroso della storia italiana, un default pari a 14,4 miliardi di euro (quasi 28 mila miliardi di lire), lo 0,7% del nostro prodotto interno lordo.
• Anche in quest’ultimo atto della Parmalat, come in molti degli atti precedenti, il padrone della scena (e della sceneggiatura) è il ragioniere Fausto Tonna. Tanzi (pare) gliel’ha lasciata volentieri. Gli interrogatori di don Calisto sono sempre zoppicanti, monchi di circostanze e punti fermi. Si sviluppano come un tormentone. Di questo tipo: « vero, con promissory notes verso terzi, cambiali finanziarie insomma, abbassavamo l’indebitamento delle società, ma per i dettagli di questa o quella operazione dovete chiedere a Tonna, lui sa tutto. vero, per aumentare l’attivo di Bonlat abbiamo fatto degli swaps con il fondo Epicurum che avevamo creato apposta. No, non ricordo quanti. Uno, forse tre, forse quattro. Dovete chiedere a Tonna, queste cose le sa lui».
• Alter ego e doppio di Calisto Tanzi. Arrogante. Irascibilissimo. Decisionista. Consapevole di sé fino al punto da coltivare, con la nipote del patron Paola Visconti, l’ambizione di «scippare» al «padrone» addirittura la società (come è emerso in alcuni interrogatori), Fausto Tonna indica ai pubblici ministeri di Milano e di Parma la strada da percorrere e undici tappe da seguire e vagliare. Undici come «i protocolli» per creare dal nulla voci attive nel bilancio e cancellare nel nulla le perdite. Gli interrogatori di Fausto Tonna, le sue visite negli uffici della Parmalat in via Oreste Grassi a Collecchio, diventano così il canovaccio dell’inchiesta e l’intreccio della pubblica ricostruzione della truffa. Il «servo padrone» di don Calisto ha in mano tutti i fili dello spettacolo, quali che siano spettatore e attore. Delle magie finanziarie che hanno tenuto in vita e sui mercati Parmalat, conosce i segreti e il doppio fondo. Dell’inchiesta giudiziaria è il pivot. consapevole di poter dire, tacere o dissimulare piegando nella direzione voluta le indagini. Soprattutto sa di poter rallentare o accelerare il gioco del disvelamento. Quanto tempo occorrerebbe ai pubblici ministeri per decrittare i «protocolli» della falsificazione dei bilanci, ammesso che senza il suo aiuto l’impresa riesca? E quanto ancora sarebbe il tempo necessario agli investigatori per correre in tre continenti, dove è presente Parmalat, per rintracciare le prove della truffa e le ragioni del crac?
• Fausto Tonna regala preziosissimo tempo ai magistrati - non v’ha dubbio - e i magistrati, tra Milano e Parma, non stanno lì a tormentarlo più di tanto. Per il momento, anzi, gliene sono addirittura grati. Chi con entusiasmo («La collaborazione di Tonna all’inchiesta ha avuto anche un segno etico», si sente dire). Chi con più diffidenza e maggiore pragmatismo: «Sappiamo che Tonna non ci ha detto tutto. Come sappiamo che la sua confessione non scioglie il garbuglio. Semplicemente stiamo facendo di necessità virtù perché non abbiamo le forze né il tempo per dare una risposta a tutte le domande dell’affare e ci accontentiamo, dobbiamo accontentarci, delle risposte che ci permettono di istruire il processo con solide fonti di prova». Buona ragione, perché economica, se si ha la toga sulle spalle. Non una ragione adeguata se si vuole capire che cosa è accaduto a Collecchio. Come è potuto accadere? Domande essenziali per comprendere dove il «sistema» finanziario (con i suoi controlli e le sue istituzioni e le sue regole) non ha funzionato.
• Il tableau disegnato da Fausto Tonna, nella lunga confessione, è minimalista fino al grottesco. Una banda di ragionieri di Collecchio per anni prende per il naso società di revisione, società di rating, banche nazionali e internazionali, analisti finanziari, fondi di investimento, Consob e soprattutto risparmiatori, con pochi tratti di penna, un computer e uno scanner. uno scenario che, accanto al buon senso, lascia in un canto troppe questioni. Non solo quella che naturalmente fiorisce sulla bocca di tutti: come è potuto accadere? Ma soprattutto, se Tonna non la racconta tutta, quella essenziale: che cosa è accaduto? Da quanto tempo accadeva, e perché? Altri interrogativi ne sono il necessario corollario: chi è davvero Calisto Tanzi? Di quali protezioni ha goduto? Di quali capitali si è avvantaggiato per sopravvivere, e come?
• «Chi è davvero Calisto Tanzi?» pare la prima domanda da affrontare. Cominciamo con definirlo furbissimo, e non per (non solo per) i trucchi dei bilanci della Parmalat. Tanzi è un furbissimo soprattutto perché ha fatto lievitare di sé, intorno a sé, su di sé, un’immagine efficacissima per il suo marketing personale e vincente per il marchio dell’azienda di famiglia. Religiosissimo. Morigeratissimo. Perbenissimo. Attaccatissimo alla moglie e ai figli (che poi curiosamente coinvolgerà nella catastrofe e rovinerà). Modernissimo imprenditore: non per caso, si diceva, Parmalat è l’unico marchio «globale» del Paese. Unicamente interessato ai prodotti delle sue fabbriche, e a null’altro. (Null’altro, se si esclude il football). Bene, ma era, è davvero così Calisto Tanzi? Per dirne una. Leggi che, nella cena di celebrazione in Italia dei cento anni della Chase Manhattan Bank, lo avevano sistemato alla sinistra di David Rockfeller che aveva alla sua destra Gianni Agnelli. Quella seggiola accanto al banchiere americano lo assegna a un empireo industriale, ne testimonia il successo e il prestigio personale, la collocazione in un ambito internazionale che nessun industriale italiano ha mai toccato, se non l’Avvocato e per via diciamo così «dinastica». Scopri poi, però, che non è vero niente, che quella storia è una delle tante favolette della storia di Tanzi. Chi c’era quella sera ricorda: «La cena è del 1994 e Tanzi non era seduto né alla destra né al tavolo di Rockfeller, per l’ovvia ragione che nessuno è tanto matto o scortese da far sedere chi non parla una parola di inglese accanto a chi parla solo inglese. Sicuramente Tanzi sedeva a uno tavolo importante, ma non accanto a Rockfeller. Quel che è certo è che la cosa non sembrò allora dare a Calisto alcun brivido o gratificazione. un pessimo conversatore e le occasioni mondane in società servivano soltanto ad appagare la sua ansia di offrire un’immagine di sé e del suo nome. Non aveva alcun interesse a conoscere Rockfeller, né era curioso di scambiarci due parole». Così era fatto, così è fatto don Calisto.
• «Apparire» è apparso a Tanzi sempre più essenziale che «essere». Apparire «liquido», molto «liquido» era, poi, il primo degli imperativi della sua strategia. Liquido, Tanzi? Anche questa era una bufala. Parola di un banchiere: Gianmario Roveraro, che organizzò per Parmalat la quotazione in Borsa alla fine del 1990. «La collocazione delle azioni - racconta Roveraro - aveva avuto, prima del nostro arrivo, qualche difficoltà per un motivo noto a tutti: Tanzi non pagava i fornitori. Lo sapevano tutti tra l’Emilia e la Lombardia, così le banche erano sul ”chi vive” e prudenti i risparmiatori». Tanzi non pagava perché le casse della Parmalat erano stente, perché - in quel 1989 - era già ridotto maluccio. Tanto che, appena due anni dopo la quotazione in Borsa, è costretto a chiedere, con un secondo aumento di capitale, ancora denaro fresco al mercato. L’aumento di capitale è di 430 miliardi. Per la metà lo avrebbe dovuto conferire la famiglia di Collecchio. Ma lo fece e, se lo fece, dove prese il denaro? «Mah! - sospira Roveraro - Allora Tanzi mi disse che aveva attinto al patrimonio della moglie». Per 215 miliardi? «Così mi disse e io gli credetti anche se cominciai ad avere dei dubbi quando, subito dopo, chiese a me come all’avvocato Sergio Erede e a Renato Picco (Eridania-Ferruzzi) di lasciare libero il posto nel consiglio d’amministrazione che da quel momento è stato sempre composto da familiari di Tanzi o da dipendenti della Parmalat». Le manipolazioni di bilancio cominciano in quell’anno, dunque, con le poste che la famiglia doveva conferire all’aumento di capitale. « - scrivono i pm di Milano - riscontrare oggettivamente che la contabilità del gruppo Parmalat è stata totalmente falsificata quanto meno dal 1990». A voce un pubblico ministero dice di più: «Saremo in grado di dimostrare che, già alla fine degli anni Ottanta, la Parmalat era tecnicamente fallita».
• Tecnicamente fallita alla fine degli anni Ottanta. Si sa come don Calisto si salvò in quell’occasione. Ricorse ai buoni uffici di Giuseppe Gennari, un finanziere tanto oscuro quanto aggressivo che gli fu presentato da Mario Mutti, gladiatore dello «stay behind» e massone. Meno di pubblico dominio è che la società di Gennari, la Finanziaria Centronord (Fcn), come ricorda Florio Fiorini che vi investì una parte della sua liquidazione dell’Eni, fosse «più o meno una società di strozzo che erogava modesti prestiti a piccoli imprenditori, a commercianti e artigiani scontando i crediti presso il Monte dei Paschi di Siena dov’era direttore generale Carlo Zini che la Fcn aveva fondato e poi abbandonato». Sarà per questi nomi e questi metodi e questa storia che il 1989 e il 1990 sono gli anni più oscuri dell’avventura di Tanzi. In una delle principali merchant bank del tempo si ritenne (lo ha ricordato Marco Vitale), che la società fosse «opaca, la natura dei nuovi capitali entrati ambigua, la fiducia nell’imprenditore Tanzi bassa». Non si comprende infatti con quali risorse Tanzi sia entrato, con la finanziaria di famiglia (la Coloniale), in Fcn e con quali quattrini Gennari abbia potuto fare ingresso nella Coloniale prima e in Parmalat poi (fino a possederne, a sentir lui, più del 50 per cento). Un uomo d’affari di Milano seppe, qualche tempo dopo, che «fu il gran maestro della massoneria Armando Corona a salvare il cattolicissimo Tanzi». Non ci mancava che questa. La massoneria. Il rumor, senza conferma, si diffonde. E ingrassa se si prende per buona la convinzione che il Monte Paschi fosse controllato dai massoni toscani e che a mediare tra Tanzi, la banca di Siena e Gennari fosse, come s’è detto, il massone Mario Mutti.
• Guai però a parlare di massoneria con Carlo Zini che, dei Paschi, era in quegli anni provveditore (direttore generale). «Ma quale massoneria - dice oggi - Che bisogno della massoneria aveva Tanzi! In quel tempo era la politica a governare il credito. La deputazione del Monte dei Paschi era composta con il bilancino. Otto membri. Tre alla Dc, due al Pci e due al Psi, uno alternativamente al Psdi e al Pri. Il provveditore nominato dal ministro del Tesoro. Tanzi non aveva bisogno dei massoni, gli era sufficiente l’amicizia dei politici. Anzi, a Siena era sufficiente saperlo amici dei politici». Così si spiega perché, nella primavera del 1989, la merchant bank dei Paschi (la Centrofinanziaria) organizzò in gran fretta alla Parmalat un prestito di 120 miliardi a patto che Tanzi si liberasse della disastrosa proprietà di Odeon Tv e si impegnasse, in caso di mancato rimborso entro tre anni, a consegnare alle banche il 22 per cento dell’azienda. «Che - ricorda oggi Zini - eravamo già pronti a cedere alla Kraft».
• Ancora debiti. Ancora con il fiato sospeso. Tuttavia Tanzi ce la fa. Ancora una volta, non si sa come. «Fu salvata - ha scritto Marco Vitale (’Corriere della Sera”) - dalla brillante operazione condotta dalla Akros di Gianmario Roveraro, mobilitando capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato». C’è chi sostiene che, fallito il tentativo di Gennari appoggiato dal Monte dei Paschi, sia stata l’Opus Dei a tirare fuori dai guai don Calisto. E, in effetti, tutti gli uomini chiave dello sbarco di Parmalat in Piazza Affari sono dell’Opus. Lo è Gianmario Roveraro. Lo è Ettore Gotti Tedeschi che introduce Tanzi da Roveraro. stato scritto che per ottenere i favori dell’Opus, don Calisto furbissimo abbia organizzato addirittura «un circolo di preghiera». «Posso dire - taglia corto, gentile e infastidito, Roveraro - che Calisto Tanzi non ha mai partecipato a iniziative dell’Opus Dei né a quelle collettive di dottrina né a quelle individuali di ascesi. E comunque l’Opus non c’entra nulla in questa storia e non si occupa di queste cose. La finanza non è cattolica né laica o massonica: è semplicemente finanza».
• Prendiamone atto e annotiamo qualche prima conclusione. Per i pubblici ministeri, che si preparano a portare in giudizio Tanzi & soci, a soli tre mesi dal crac, Parmalat è «tecnicamente fallita» già alla fine degli anni Ottanta. I capitali che vi affluiscono in quella stagione (consentono la quotazione alla Borsa di Milano) sono, nell’opinione della comunità finanziaria, «oscuri e non chiarissimi». A cavallo del 1990, la formidabile politica di acquisizioni all’estero aggrava ancora di più l’indebitamento di Calisto Tanzi. Fausto Tonna manipola i bilanci, nasconde le perdite, gonfia gli attivi. Come entra, dunque, Parmalat negli anni Novanta? Per saperlo conviene incontrare un «bucaniere» della finanza opaca. Florio Fiorini.
• Florio Fiorini è stato un «bucaniere» della finanza internazionale, un fantasioso «lavandaio» (è un’autodefinizione). Oggi, dopo quattro anni di prigione in Svizzera, assegnato (come si dice) ai servizi sociali per le condanne in Italia, è un pacioso signore innamorato di numeri e percentuali, apparentemente pacificato con se stesso e gli altri, alle prese con qualche acciacco del corpo e molti ricordi. Tra i suoi ricordi, c’è Calisto Tanzi. Florio Fiorini ebbe come socio don Calisto in una finanziaria che lanciò all’inizio degli anni Ottanta, la Sidit, Società italo-danubiana d’investimenti e trading. Ma soprattutto lo liberò del «vuoto a perdere» di Odeon Tv dove il Lattaio aveva versato in pochi anni 80 milioni di euro (anno 1988/89): era la condizione essenziale offerta a don Calisto per incassare un prestito di 120 miliardi dalla merchant bank del Monte dei Paschi di Siena. Le cose andarono così (Fiorini le ha raccontate in un interrogatorio, pubblicato da Milano Finanza). «Noi della Sasea, quando abbiamo acquistato Odeon Tv da Tanzi, l’abbiamo messa in fallimento e fatto il concordato fallimentare al 25 per cento, pagando cioè soltanto 25 miliardi anziché 100». Pagando? Si fa per dire. Fiorini: «I 25 miliardi ce li aveva dati il San Paolo. Ero andato a chiederli a Torino. Il vicedirettore della banca sentì il presidente Zandano e in mezz’ora ci concesse il credito. Naturalmente mi sono ben guardato dal restituire i 25 miliardi al San Paolo».
• In poche righe, avete letto del «metodo Sasea». Si tratta di questo. Fiorini fonda la finanziaria Sasea. Apre una sede a Ginevra e attende i clienti che non mancano. I clienti non sono altro che le banche alle prese con crediti inesigibili e un cliente «praticamente fallito». I banchieri vanno allora da Fiorini a Ginevra («C’era la fila davanti alla porta dell’ufficio») e gli propongono di acquistare - con un finanziamento della stessa banca - quella società a mal partito. Chiaro, no? La banca ha tra i clienti un’impresa che non è in grado rimborsare il debito concessole. Finanzia allora Fiorini che, con i soldi di quella stessa banca, compra l’impresa. La banca elimina dai suoi bilanci il credito inesigibile, incassa addirittura le provvigioni per il nuovo affare. Gli azionisti sono contenti. Il management anche. Fiorini intasca il denaro che «naturalmente» non pensa di restituire e, in più, prova a fare qualche soldo da quel che ha comprato, magari smembrandolo, infiocchettandolo e vendendolo. I «bucanieri» chiamano quest’operazione «il cambio di cavallo».
• Fiorini trova ora una posizione più comoda sul divano e dice: «Parmalat non è stata che una Sasea industriale». Come dire, una pattumiera dove le banche hanno scaricato imprese decotte e crediti inesigibili. In cambio, don Calisto ha potuto contare sul denaro fresco che lo ha tenuto a galla per 15 anni. Spiega Fiorini: «Parmalat è diventata una Sasea industriale soltanto nella fase terminale della sua lunga malattia. Conviene allora chiedersi che cosa ha provocato la malattia e, per rispondersi, bisogna conoscere la legge dell’interesse composto. Voi la conoscete, la legge dell’interesse composto?».
• Affrontiamone ora le ragioni. In cima alla lista, c’è la mancanza di «mezzi propri». Tanzi, di suo, non ha il becco di un quattrino da investire. Come sanno i banchieri che lo hanno «portato» in borsa, non ha capitali da conferire alla società. Quando versa le sue quote capitale, si indebita. Quando non le versa, crea una ricchezza virtuale, falsificata nei rendiconti. Secondo il bilancio consolidato della Parmalat al 31 dicembre 2002, approvato dall’assemblea del 30 aprile 2003, i fondi versati dall’azionista ammontano a 872 milioni di euro. La finanziaria di famiglia, la Coloniale, controlla il 50,1 per cento della Parmalat. Avrebbe dunque dovuto versare 436 milioni di euro. Tanzi non li ha. Può reperirli soltanto Tonna «il mago» con un qualche artificio contabile. stato quindi creato un indebitamento di 436 milioni di euro. L’indebitamento ci obbliga finalmente a comprendere che cosa diavolo è l’interesse composto. meno complicato di quanto non lasci pensare la formula: nell’interesse composto, gli interessi si sommano al capitale per produrre a loro volta interessi. un’esposizione che, nel tempo, diventa esponenziale e così quei 436 milioni di euro che Tanzi non versa, diventano l’anno successivo 745 milioni.
• «La prima causa dell’indebitamento - sostiene Fiorini - la si può definire la ”sindrome di Tapie”». Ricordate Bernard Tapie, il magnate francese? Un giorno, un giudice gli contesta di aver usato il denaro dell’ Adidas per finanziare l’ Olimpique Marsiglia. Tapie lo guarda stralunato e sbotta incredulo in una frase diventata celebre: «Ma si tratta sempre di mie società!». La stessa incredulità ha mostrato don Calisto di fronte ai pubblici ministeri di Milano e di Parma. Per il Lattaio il portafoglio era sempre suo, che fosse nella tasca destra o in quella sinistra. Che fossero denari della ”Coloniale”, la finanziaria di famiglia. O della Parmalat finanziaria, quotata in Borsa. O della Sata, che custodisce le azioni di controllo del gruppo agroalimentare. un unico calderone, per Tanzi. Vi finisce di tutto. L’ingaggio di un goleador. L’acquisto di un villaggio vacanze. Il finanziamento della società di turismo Parmatour (non fa parte del bilancio consolidato Parmalat). L’impresa disastrosa di Odeon Tv, e le barche e le case e l’aereo e l’elicottero. Tutto suo. Tutto frutto del suo lavoro. E quindi... Questa però è solo una premessa per comprendere le cause dell’indebitamento della società di Collecchio.
• Un’altra causa evidente dell’indebitamento è, secondo Florio Fiorini, la distribuzione indebita dei dividendi. Già, perché Tanzi ostinatamente aggrappato alla sua luccicante immagine di self made man, costruttore di un impero agroalimentare mondiale, finge di guadagnare quel che non guadagnava. Ne distribuisce i dividendi e ci paga le tasse. Nel solo 2002 sono stati pagati 104 milioni di imposte mentre la Parmalat ha distribuito, negli ultimi esercizi, dividendi per ben 16 milioni di euro all’anno. Ossia un totale di 150 milioni nell’ultimo decennio. un’altra accelerazione all’indebitamento, che si è incrementato, dati del 2003, di circa 250 milioni. Ci sono poi gli investimenti. Quella campagna napoleonica di acquisizioni in tre continenti che ha fatto di Parmalat il marchio di successo (presunto) che tutti credevamo di conoscere. Il bilancio al 31 dicembre 2002 dà conto di investimenti finanziari e tecnici di ben 3.980 milioni di euro. «Io calcolo - dice Fiorini - che, in assenza di fondi propri, gli investimenti senza adeguata copertura finanziaria hanno prodotto un indebitamento pari a 6,805 miliardi di euro nel 2003».
• Ci sono poi gli oneri del finanziamento e del rifinanziamento. Price Waterhouse & Cooper’ s, per conto del commissario Bondi, determina l’indebitamento reale in 14,4 miliardi di euro circa. «Ipotizziamo - ragiona il ”bucaniere” - che, nell’ultimo decennio, i finanziamenti siano stati rinnovati almeno una volta. Si arriva a una ”cifra d’affari” di 28 miliardi di euro. Applicando le commissioni usuali del 2,50 per cento si ottiene una cifra di 700 milioni di euro che, per il benedetto interesse composto, provocano un indebitamento di circa 1 miliardo e 200 milioni di euro nel 2003». «Se tiriamo qualche somma - conclude Fiorini - si ottiene un totale di circa 9 miliardi di euro per cause interne alla Parmalat». Consideriamo ora le cause esterne alla società. Di Odeon Tv si è detto. Dal rapporto Price Waterhouse appare evidente che la perdita Odeon Tv è stata trasferita dalla Sata alla Parmalat mediante la maggiorazione del prezzo delle società concessionarie e della loro «intermediazione» nella distribuzione dei prodotti Parmalat in Italia. Non è l’unica operazione della Sata. In questa finanziaria si sarebbero concentrati gli «attivi» della famiglia (barche, aziende agricole) che, a una prima stima, ammontano a 150 milioni di euro. Nel 2003, la loro influenza sui conti della Parmalat è di 250 milioni di euro. La cifra coincide con le analisi di Price Waterhouse, che indica un totale di pagamenti da Parmalat a Sata di 171 milioni nei soli anni 1997-2003.
• C’è poi la squadra di calcio. Il costo del «giocattolo di famiglia» ammonta, più o meno, a 300 milioni di euro che influiscono nel 2003 per circa 500 milioni. Anche questa stima è coerente con il ”Rapporto Price” che indica in 69 milioni di euro i pagamenti di Parmalat a favore del football club per il solo 2003.
Infine, il turismo. Misteriosissimo affare. Potrebbe riservare delle sorprese in un affare che è già di per sé sorprendente. Neppure Tonna ne vuole sapere niente di quel che è accaduto. Se ne tiene alla larga nelle sue confessioni. Dice che «non se n’è mai occupato». Anche i banchieri che conoscono buona parte della storia della famiglia di Collecchio si meravigliano dell’imponenza delle perdite. Forse le ragioni sono in alcune impensierite supposizioni avanzate a mezza bocca dai pubblici ministeri. «Ci sono intorno alla Parmatour degli strani personaggi che possono aver avuto legami con la criminalità organizzata». In via ufficiosa, qualche pubblico ministero ammette che «per il turismo bisognerà organizzare presto un’indagine a parte» perché non si esclude che quella società sia diventata, con Tanzi con l’acqua alla gola, una «lavanderia di denaro sporco». Comunque, secondo stime dedotte dai bilanci disponibili delle società turistiche, i trasferimenti da Parmalat a Parmatour ammonterebbero a 500 milioni di euro. Per l’interesse composto, questi trasferimenti impropri influirebbero per 850 milioni nel 2003. Ancora una volta, il risultato è congruo con i valori del ”Rapporto Price” che valuta i trasferimenti da Parmalat a Parmatour in 287 milioni di euro nei soli anni 1997-2003.

• Bisogna anche qui fare qualche somma. Gli esborsi per le aziende della famiglia Tanzi influiscono nel 2003 per una cifra complessiva di 2 miliardi di euro. Nove (cause interne a Parmalat) più due (cause esterne), undici miliardi di euro. Se la voragine è di 14,4 miliardi di euro, dove sono finiti 3 miliardi e mezzo di euro, che sono la bella somma di settemila miliardi di lire?
• Fiorini ridacchia e puntualizza. «Questo importo va depurato del coefficiente di conversione dovuto agli interessi composti e scende dunque a 2,3 miliardi di euro». A questo ammonta, dunque, il tesoro dilapidato o custodito chi lo sa dove da don Calisto? Fiorini: «Certo, qui ci può soccorrere fra’ Paolo Sarpi, quando descrive come utilizzavano i soldi delle indulgenze gli inviati di Papa Leone Medici in Germania: ”Spendevano in osterie e vino e in cose ancor più da tacere i soldi che il popolo aveva risparmiato”. Ma delle cose ancor più da tacere è meglio che ne parlino i magistrati e non un bucaniere come me». Un ”bucaniere” come Fiorini può invece vedere nelle ultime acquisizioni della Parmalat finanziata dalle banche americane il vecchio gioco del «cambio di cavallo». Come l’acquisto delle obbligazioni del Banco Totta o gli oneri finanziari aggiuntivi per 52 milioni di euro a favore di Credit Suisse First Boston. la trasformazione della Parmalat in «Sasea industriale». la favola rovesciata di Collecchio. L’azienda globale e di successo diventa la pattumiera dove le banche scaricano le industrie agroalimentari disastrate che hanno finanziato. Il bel principe azzurro diventa un brutto ranocchio preso a calci da chi passa. Ma questa è una storia che affronteremo nella prossima puntata.
• Se ha ragione il ”bucaniere” Florio Fiorini e «Parmalat è una Sasea industriale»; se, come sostiene un inquirente, Parmalat è «un’azienda marcia utilizzata dalle banche», bisogna riprendere in mano il filo dei rapporti tra Collecchio e il sistema creditizio italiano e internazionale. stata la spregiudicatezza delle banche a strozzare Parmalat nella sua fase terminale? Finora abbiamo visto Calisto Tanzi prigioniero prima di capitali opachi (all’epoca della quotazione in borsa) che lo rimettono in piedi quando, alla fine degli anni 80, è già «tecnicamente fallito». Quindi, assediato dalle pressioni di un sistema bancario domestico deciso, in qualche caso, a utilizzare la sua azienda per rientrare di partite in sofferenza anche verso creditori terzi (il «cambio di cavallo», come nel caso Eurolat-Cirio). Infine, ostaggio dello strumento finanziario dei bond. Oggi, per raccontare la sua catastrofica fine, don Calisto dice una cosa semplice: «Sono vittima di una estorsione». Denuncia le «clausole capestro» imposte dalle banche che accompagnavano la collocazione del debito Parmalat sul mercato dei risparmiatori e le minacce di renderne pubblica la sostanza. Rivela che i comunicati di informazione al mercato che accompagnavano ciascuna emissione obbligazionaria «venivano concordati alla lettera» con gli istituti di credito che curavano il collocamento. Indica nelle commissioni versate in occasione dell’emissione di bond una voce consistente dell’emorragia di liquidità (40 i milioni di euro pagati nel solo 2003).
• «Balle», replicano le banche. Parmalat è stato un pessimo affare che «le banche hanno pagato duramente», ha ricordato da ultimo Corrado Passera di Banca Intesa in un’intervista a ”Repubblica”. Perché questo dicono i numeri delle esposizioni cui restano impiccate al momento del crac. In Italia e all’estero. Qualche cifra: 386 milioni di euro Capitalia; 360 Banca Intesa; 300 San Paolo-Imi; 160 Unicredit; 125 Monte Paschi Siena; 110 Bnl; 100 Banca Popolare di Milano; 689 milioni di dollari Citibank; 374 milioni di dollari Bank of America. «Se comanda il gioco, nessuno è così pazzo - dice un banchiere - da mollare un cliente sapendo che in questo modo non rientrerà delle sue esposizioni. vero, nella fase terminale di Parmalat le banche hanno attivato ogni strumento possibile per ridurre le perdite. Ma questo fa parte da sempre delle regole del gioco. Le banche non sono istituti di beneficienza».
• Nel 1993, Tanzi ha bisogno di crescere e bussa all’unica porta che conta davvero sui mercati internazionali. Quella di Chase Manhattan (oggi Jp Morgan-Chase). una scelta felice, perché la strada del Lattaio incrocia quella di un uomo capace di visione, Federico Imbert. Nasce un’amicizia che Tanzi rivendicava ieri e rivendica oggi. Imbert è pronto a scommettere su Parmalat perché ci crede. Perché gli impianti dell’azienda, il suo core business, suggeriscono non solo una solidità industriale del gruppo ma ne fanno intravedere grandi margini di espansione che possono farne la prima vera multinazionale italiana. Collecchio partecipa dunque della stagione in cui tutti i grandi gruppi italiani scoprono il nuovo mercato dei bond e ne ottiene risultati lusinghieri (spesso la domanda di bond Parmalat è doppia rispetto all’offerta). Tra il ’94 e il ’96, la scommessa di Imbert ha insomma successo e Tanzi avvia un napoleonico piano di acquisizioni estere. In tre anni, Collecchio diventa il centro di un interesse finanziario che rende il gruppo cliente conteso dai colossi del credito americano ed europeo. Chase Manhattan non è più il solo interlocutore di Parmalat. Tutti vogliono venire a Collecchio. Tutti cercano Tanzi. E chi si fa avanti deve avere qualcosa di meglio e di più da offrire. Che cosa?
• «Tra il ’96 e il ’97 - spiega un banchiere italiano a ”Repubblica” - Parmalat è un boccone che fa gola a tutti. Anche se i suoi numeri già cominciano a dare dei segnali di sbilanciamento». Alla fine del ’96, l’indebitamento lordo del gruppo (vale a dire la somma delle sue esposizioni verso le banche e dell’ammontare di bond che circolano sul mercato) ha superato i 2.500 miliardi di lire (circa 1 miliardo e 200 mila euro) e per sostenere la liquidità è stato necessario un aumento di capitale di 370 miliardi di lire, che Calisto - non deve sorprendere, ormai lo sappiamo - sottoscrive, per la sua quota, con soldi che non ha e che questa volta ottiene con un prestito concesso dall’Ubs. Di più: il gruppo fatica a penetrare sui nuovi mercati americani e in Italia vede addirittura ridotta la sua quota di mercato. Ci vorrebbe qualcuno capace di far ragionare il Cavaliere e il suo direttore finanziario Fausto Tonna e invece... «Invece - dice il banchiere - mentre Chase Manhattan, con Imbert, comincia a raffreddare i suoi rapporti con Parmalat, appare sulla scena Citibank. E, come sempre, lo fa in modo aggressivo. Con il piglio da cowboy che le è proprio: con nessuna prudenza, poco discernimento e troppi soldi. Troppi...».
• Nel quadriennio 1997-2000, l’arrivo a Collecchio dei cowboy imprime una nuova accelerazione alle acquisizioni, all’emissione di bond. Con uno schema nuovo. La banca non è più il semplice veicolo di raccolta di liquidi sul mercato finalizzati ad una singola operazione: sia questa una acquisizione o un’iniezione di liquidità necessaria ad alleggerire gli oneri sul debito senza dover ricorrere alla cassa. No, la banca, ora, gioca più parti in commedia. Citibank apre linee di credito che assicurano un finanziamento commerciale a pioggia sganciato dal risultato. Sollecita il management Parmalat a ricorrere al mercato con l’emissione di bond attraverso pool di banche internazionali. Propone acquisizioni di aziende nel cui capitale decide di entrare per una quota parte, salvo vincolare la Parmalat al riacquisto di quelle azioni entro un certo termine (accade in Canada con l’acquisto di ”Beatrice food” e ”Ault food”).
•  una manna che produce grande liquidità e impone uno spregiudicato modello operativo. Chi vuole fare affari con Collecchio - siano le banche americane, siano quelle italiane - deve adeguarsi. una nuova routine che nessuno oggi sembra disposto a credere sia figlia della fantasia del ragionier Tonna o del patròn Tanzi, che di finanza poco o nulla sa e non parla una parola di inglese. Ragiona un inquirente milanese: « qualcuno esterno a Parmalat che suggerisce il nuovo modo di stare sui mercati finanziari». Chi? «Forse un avvocato di affari milanese». Sta di fatto che il «nuovo modello operativo» finisce per incoraggiare, consapevolmente o meno, il sistema già in piedi dagli inizi degli anni 90 della contabilità parallela, delle discariche off-shore, funzionali a ricevere i trasferimenti di crediti inesigibili o fittizi. Dunque, ad allontanare quanto più possibile dalla società madre (Parmalat) il peso di voci che ne avrebbero appesantito il bilancio, modificandone il segno.
• Ora, è ovvio chiedersi: Citibank sapeva di quel che avveniva nella cucina di Tonna? E se lo sapeva, Parmalat pagava un prezzo per il silenzio? Un pubblico ministero la mette così: «Io non so quanto Citibank sapesse della contabilità parallela e del sistema delle discariche. Ammettiamo pure che nulla sapesse. Un fatto però è certo. Citibank che propone e mette a disposizione di Collecchio la ”Buconero”, una società costituita in Delaware necessaria a erogare finanziamenti indiretti a Parmalat attraverso una sua controllata. Al di là del nome scelto per la società, quantomeno imbarazzante, mi domando che necessità vi fosse di alimentare un sistema di prestiti di società infragruppo attraverso una società costituita nel paradiso fiscale del Delaware». Bene. E Tanzi? Davvero Tanzi nulla sapeva del gioco che era stato allestito? O, quantomeno, è possibile che nessuno lo avesse avvertito del baratro in cui stava cacciando Parmalat? «Tanzi - riferisce a Repubblica una fonte a lui vicina - venne messo in guardia nel 2000 proprio dal suo amico Federico Imbert, colui che gli aveva fatto scoprire i bond».
• Per quel che ”Repubblica” è in grado di ricostruire, il consiglio che nel 2000 Imbert e con lui Jp Morgan-Chase depositano a Collecchio suona sostanzialmente così: 1) Parmalat ha triplicato in tre anni il suo debito lordo, portandolo da 1 miliardo e 800 mila euro a 5 miliardi e 400 milioni, dunque è necessario non gonfiarlo ulteriormente; 2) La liquidità di cassa deve essere utilizzata per abbattere questo debito; 3) Parmalat è cresciuta molto negli anni 90 e gli indicatori macroeconomici consigliano a questo punto di disinvestire rapidamente da tutti gli assets non strategici, in cui l’azienda non è leader di mercato. A cominciare dal Canada.
• Tanzi ascolta (o forse fa finta di ascoltare), prende tempo spiegando che l’ultima parola dovrà essere di Tonna. Di fatto scarta, perché non vuole o non può fare altrimenti, quelle indicazioni e la giostra del debito continua a girare. Jp Morgan-Chase si ritira dalla competizione e nel 2000 cura l’ultimo collocamento di bond Parmalat (che porterà poi la data del 10 gennaio 2001). Lasciando nella partita contabile con Collecchio una sola, modesta, sofferenza di 50 milioni di euro. Denaro prestato alla ”Coloniale”, la finanziaria della famiglia Tanzi, nel 1999 e con rimborso previsto nel 2005. La corsa verso il precipizio, come racconta Tonna, è ai suoi ultimi passi: «La situazione di reale dissesto del gruppo Parmalat si può ritenere esistente già agli inizi del 2001» (verbale del 7 gennaio). Ma quel dissesto viene trascinato in avanti per altri trentasei mesi, durante i quali Collecchio collocherà altri 2,8 miliardi di euro in bond. Chi traina questa ultima fase dell’agonia? Un altro colosso del credito americano che si è mosso a lungo sullo sfondo, Bank of America. Che fa presto di Parmalat il suo primo cliente in Italia.
• Lo strumento che la BofA offre a un Tanzi che ormai ha bisogno di liquidità come l’aria che respira è quello dei ”Private placement” sul mercato americano (i cosiddetti USPP), il collocamento diretto presso investitori istituzionali di bond non destinati alla circolazione. un gioco che muove - secondo i ricordi di Ferraris, direttore finanziario di Collecchio succeduto a Tonna - «oltre un miliardo di dollari». Che sollecita un’ultima stagione di acrobazie finanziarie cui partecipano a diverso titolo, separatamente, ma con modalità simili, anche Credit Suisse first Boston, Ubs (operazione ”Banco Totta”), Morgan Stanley, Nextra. , soprattutto, un gioco truccato, perché buona parte di quei bond che Bank of America dichiara al mercato collocati presso investitori istituzionali sono in realtà riacquistati dalla stessa Parmalat attraverso trust off-shore creati dallo studio newyorchese di Giampaolo Zini.
• «Quantomeno siamo di fronte a una deception of Us investors - chiosa un banchiere italiano con ”Repubblica” - Inganno dei risparmiatori americani. Ed è quantomeno singolare che, a leggere le cronache, se ne occupi un tale Luca Sala, un signore che dicono essere stato responsabile della filiale italiana di Bank of America, ma che nessuno conosceva. Che viene licenziato nel giugno 2003 dalla Banca per asserite truffe sui rimborsi benzina e subito assunto come consulente da Parmalat». Indagato dalla Procura di Milano per aggiotaggio e riciclaggio, Sala ha restituito qualche settimana fa, in singolare coincidenza della visita degli ispettori della Sec (Security exchange commision, la Consob americana), 30 milioni di euro che gli erano stati sequestrati su conti svizzeri, frutto - dice - di «commissioni su legittime operazioni di riassicurazioni del debito di Bank of America verso Parmalat a fronte del cosiddetto ”rischio politico paese”». Rischio politico paese. Il banchiere ora si fa sarcastico: «Davvero? Rischio politico paese? Esistono delle operazioni di questo genere? Buono a sapersi, perché non le conosce nessuno. Perché invece non provate a chiedervi se quei denari restituiti da Sala sono davvero suoi o non sono magari di qualcun altro all’interno della Banca? Se non erano il prezzo pagato per ammorbidire le due diligence sui conti Parmalat».
•  un fatto che Calisto Tanzi dice ai pubblici ministeri, con la consueta genericità: «Quasi tutte le banche, tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 si erano messe in fila per chiedere il rientro delle esposizioni. Al punto che, nel marzo 2003, accennai a Federico Imbert di Jp Morgan l’assoluta carenza di liquidità del gruppo. E questo perché avevo individuato in Jp Morgan e City bank e altre banche internazionali le uniche che potevano avere la forza di risollevare il gruppo». A raccogliere l’ultimo appello, però, sarà proprio Bank of America. «Sapevo - dice ancora Calisto - che era una banca amica e che i rapporti li teneva Tonna con Sala. Non chiedetemi perché. Chiedetelo a Tonna?». Non sorprende che nessuno creda a Luca Sala. Non sorprende che nell’amore a prima vista tra Parmalat e Bank of America si senta molta puzza di bruciato. Quel che sorprende, invece, è come ora qualcuno cominci a dubitare dell’altro nodo che stringe la banda di Collecchio a Bank of America: il falso documento che certificava le disponibilità liquide (3,9 miliardi euro) di Bonlat.
• Una fonte qualificata della piazza finanziaria milanese dice: «Sicuramente il conto Bonlat è un falso. Ma magari c’è un motivo per cui il falso portava il logo di Bank of America. Forse perché esisteva davvero una provvista liquida di Parmalat presso Bank of America. Una provvista vincolata a garanzia di finanziamenti erogati nel tempo dalla banca a Parmalat e non dichiarabili. Una provvista che è stata incassata nei giorni immediatamente precedenti il crac e di cui nessuno ha interesse a parlare. Provate a chiedere in giro?». Non sembra essere troppo lontana dal vero l’indicazione del banchiere milanese. Come documenta uno scambio di e-mail (oggi agli atti dell’inchiesta della Procura di Milano) tra la sede italiana e quella americana di Bank of America, almeno dal 12 dicembre 2003, dunque sette giorni prima che ne venisse data comunicazione al mercato, la banca americana era consapevole non solo dello stato di dissesto del gruppo, ma che il conto Bonlat era un falso, dunque del crac. Ebbene, quei sette giorni verranno utilizzati da Bank of America per trattenere le liquidità Parmalat depositate presso la banca a garanzia di un collocamento di obbligazioni. Girata ad un pubblico ministero di Parma, la questione non sembra allora suscitare alcuno stupore. Al contrario. «Sì, è possibile che esistesse una provvista di cui ancora non sappiamo». La Sec e l’Fbi sono per il momento molto più curiosi dei magistrati italiani. Che hanno fretta di chiudere con i processi la prima parte dell’affare Parmalat. Sarà una prima conclusione utile a proteggere i risparmiatori, necessaria a individuare le mosse colpevoli delle banche. A illuminare le torsioni di un sistema che ha dimostrato la sua inadeguatezza ordinamentale. Sarà solo la fine del primo capitolo della storia scritta da Calisto Tanzi, lattaio di Collecchio, Parma.