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 1916  luglio 23 Domenica calendario

Il poeta Ludwig Hansteken

Morto di questi giorni, benché non in guerra, merita una commemorazione il poeta Ludwig Hansteken.
In guerra il poeta Hansteken non poteva morire. I poeti come lui sono per natura neutrali. E hanno quasi sempre la ventura di nascere in paesi neutrali. In Olanda per esempio o in Isvezia. Ma se pur nascono in più vulcaniche terre, ove sciaguratamente la coltura e le discipline spirituali non siano riuscite a mortificare il selvaggio istinto, costretti anch’essi a indossare la divisa militare, non c’è pericolo che muoiano di piombo o di ferro o di strapazzo. Così vestiti vanno a combattere idealmente o negli uffici di maggiorità o a servizio d’organizzazioni civili, con una penna in mano e davanti a un tavolino. E qua nelle tregue assaporano a occhi semichiusi, rosicchiando in punta il cannello della penna, l’angosciosa dolcezza di visioni lontane nella manica della loro giubba grigio-verde. Visioni, o d’una scolorita campagna settembrina, o d’un malinconico lago, ove Dio solo sa che strani galleggiamenti può loro suggerire la tenue riccia peluria dell’inoffeso e inoffensivo panno militare.
È vero che, per fortuna dell’umanità, se non di piombo, di ferro o di strapazzo, possono ben morire di questi strani, ambigui galleggiamenti i poeti come Ludwig Hansteken. Il quale, difatti, è morto come vedremo, affogato in uno dei tanti canali che scorrono per i paesi d’Olanda, spintovi, a quanto pare, appena appena, da una smaniosa mano femminile vendicatrice, mentr’egli sospirava a notte, non propriamente alle purissime stelle, ma ai loro riflessi che appunto galleggiavano con smorfiosi serpeggiamenti, tra altri men nobili relitti, in quel canale.
Per fortuna dell’umanità, ho detto; potrei aggiungere: per fortuna di loro stessi. perché i poeti come Ludwig Hansteken non sono tanto per gli altri, quanto per loro stessi un tormento.
Gli altri, possono anche riderne; io per me confesso che soglio farmene le più matte risate, perché in verità mi sembra che nulla si possa dare di più goffo e di più buffo di quel loro tormento. Tormento d’una disperata impotenza che, pur tenendoli perennemente con le lagrime in pelle, li rende innocuamente e pazzescamente cattivi. Vedo che avrebbero tutti una gran sete di soffrire; piangono di questa sete; ma la grigia angolosa rabbia della loro aridità sassosa impedisce ad essi di cavare un qualche refrigerio finanche da quelle stesse lagrime amare. Vogliono esser poeti; vogliono; lo ripetono con esasperata ostinazione: – Noi siamo poeti! noi siamo poeti! noi siamo poeti! –; cercano di spremerla in tutti i modi una gocciolina di poesia; ahimè, è come spremere un sasso. Ma questo appunto essi vogliono: spremere i sassi, perché non c’è gusto per loro a trar sugo vivo sostanzioso dai saporiti frutti che maturano nei fertili assolati giardini della fantasia. Credono che ciò che gli altri fanno non valga la pena d esser fatto. Bisogna fare l’impossibile, perché soltanto nell’impossibile possono trovar la scusa della loro impotenza. E condannati da questa impotenza a star fuori per sempre da quei giardini, stringono rabbiosamente nel pugno sudato i loro sassi e, dopo averli spremuti e spremuti e spremuti, vedendo che, se ne cavan qualche stilla, non è del sasso, ma delle loro mani spellate, stilla di sudicio sudore, li avventano contro quei frutti succosi, non si capisce bene se per disdegno, per ira, per dispetto o per vendetta, giacché nessuno veramente riesce a comprender nulla delle smorfie, delle boccacce, dei borbottamenti con cui accompagnano il lancio di quei sassi insudiciati.
Se li intendono tra loro, quei borbottamenti inintelligibili. Ma spesso avviene per certi rumori, se non risponde in noi l’immagine di ciò che li abbia prodotti, che si rimanga incerti, sospesi, storditi, anche angosciati, a chiedere intorno: – che è stato? com’è? che significa? – Ed ecco allora tanti poveri allocchi, con angustiosa perplessità di pollastri che muovano a scatto lo stupido capo crestuto a guardare di qua e di là, e non sappiano posar la zampa sul tappeto del salotto in cui per caso si sono introdotti, scappando dalla stia; ecco, dico, tanti poveri allocchi giovinetti andar loro appresso cercando di cavar il senso astruso da quei borbottamenti e d’interpretar quelle smorfie e quelle boccacce; ed essi attirarseli attorno facendone di sempre più complicate e difficili. Uno stormo di fiere donnette esasperate anche li attornia, che han bisogno di credere che qualcuno possa dare a intendere come nobili aspirazioni ideali le loro torbide smanie uterine. E tutti costoro, allocchi e donnette, si struggono di sapere come debbano parlare, come atteggiarsi per piacer loro: si fanno dare in mano quei sassi sudati; li voltano e rivoltano per scoprirvi preziosità di novissime gemme; provano anche a metterseli in bocca per succhiarli come caramelle. Alla fine non hanno il coraggio di dirselo, ma sentono d’esser sotto un incubo che paralizza ogni loro spontaneità, lega i loro passi, opprime loro il respiro.
Orbene, quest’incubo troviamo con perfetta evidenza descritto e rappresentato in un recentissimo libro di Rosso di San Secondo, che mostra d’averlo per alcun tempo sofferto e d’essersene alla fine giocondamente liberato.
Il San Secondo conobbe in Olanda il prototipo di questi poeti, Ludwig Hansteken, e ne narra in cento pagine la vita e la morte. Punto per punto, con sottilissima analisi armata di fosforiche arguzie, investiga e scopre il dramma di quest’uomo, dramma sordo, angoscioso, disgustoso; e le ragioni per cui quest’uomo, questo impotente, con la sua pesante tristezza fosse riuscito a preoccupare gli altri della sua esistenza. Il sentimento che spingeva Hansteken verso gli uomini, dice il San Secondo, non era pietà né amore «che, pesante com’era, il suo istinto lo avrebbe piuttosto indotto a vivere leggiucchiando e appisolandosi: per varcar la soglia di casa egli infatti doveva forzare la sua natura; per avvicinare un suo simile, poi, doveva addirittura vincere la repulsione che hanno tutti i pigri, gl’indifferenti, i nati sordi di spirito, per quelli che invece hanno nel sangue la solerzia, la brama di vedere, conoscere, godere, vivere in una parola. Pure un tale sforzo sarebbe potuto essere nobile, come tutto ciò che tende a modificare la propria natura con il dominio della volontà; ma Hansteken, se ben credesse appunto così, in realtà presentandosi ai consimili in quella veste di ammonitrice gravità, non obbediva che a un segreto senso d’invidia, acre, biliosa, per quelli che la vitalità piena e un po’anche spensierata induceva, non solo ad assaporare con voluttà il piacere d’esistere, ma, oltrepassando i limiti del giusto, a commettere peccato». Hansteken, insomma, non ha quell’ebete sobrietà che potrebbe farlo pago: l’odio per il peccato attivo sorgeva in lui «dal non potere egli stesso commetterlo»: i peccati per soverchio di vitalità erano, infatti, per lui, un rimprovero sordo, una umiliazione continua per la sua fiacca gravezza. Le sue stesse lagrime non erano, perciò, com’egli credeva, la naturale espressione della sua pietà per i fratelli, bensì della sua amarezza, della sua insoddisfazione, del fastidio sterile che lo spiritello interno gli comunicava, lottando invano contro il torpore invincibile della sua stanca natura. Sincero era dunque in lui soltanto questo stato penoso di disagio che, vestito dalla illusione d’essere invece altra cosa, si rappresentava agli uomini normali come una forma superiore o per lo meno strana d’esistenza». Ed ecco il segreto del fascino e la ragione dell’incubo: rappresentare agli altri questa impotenza chiusa, ansiosa, travagliosa, come una forma superiore di esistenza. «Se il poeta Hansteken avesse potuto cantare, dice altrove il San Secondo, non sarebbe stato così molesto al suo prossimo, né avrebbe avuto bisogno di quelle sue enormi costruzioni teoriche, simili a cattedrali di cartapesta, per giustificare la sua esistenza. Perché era questo il dubbio assillante che rodeva l’animo dello sventurato: che egli non avesse, in fondo, nessuna ragione d’esistere. Aveva creduto di dovere, per un bene supremo, rinunziare alla vita, per votarsi tutt’intero alla sua dea, l’arte. Aveva creduto che tale altissima finalità gli desse il diritto di sacrificare non solo la sua, ma anche resistenza degli altri: d’imporre, con violenza testarda, a tutta la cittadinanza la sua personalità, prim’ancora che si fosse espressa; aveva voluto che tutti sapessero che egli esisteva, lui, Ludwig Hansteken; che tutti con un sacro sgomento attendessero la grande parola che avrebbe detta. Ma Hansteken continuava a torcersi nel suo disperato monologo, ripeteva, in ogni verso, quello che aveva sempre detto: era come se girasse intorno a un nucleo chiuso che non riusciva a fendere, ad espugnare. E nei momenti più acuti di esasperazione, ecco che con sguardi freddi e taglienti insultava quelli stessi che, deferenti e mansueti, avevano ancora fiducia in lui, e gliela mostravano con una sottomissione ansiosa e piena di bontà».
Bisognava che qualcuno, per toglierlo da quel tormento, dichiarasse apertamente innanzi a tutti ciò che lui, Hansteken, voleva che gli altri alla fine comprendessero: che la poesia, cioè, non era tanto nella parola, quanto nella pausa; che la più alta cima della poesia insomma era il silenzio. perché umiliarlo ancora con quell’aria d’attesa deferente? Che attendevano ancora da lui? Egli aveva detto quello che doveva dire. Ora il sublime stava nel silenzio. Zitto lui, zitti tutti.
Se questo veramente si fosse chiarito agli altri, Hansteken, pago, non più costretto a violentare con disumani sforzi la tetra sordità del suo spirito, infecondo, immediatamente non sarebbe stato più un essere torbido e falso; tutta la sua complessità si sarebbe sciolta e sarebbe apparsa così puerile da rasentare la più umile elementarità. perché i poeti come lui sono in fondo orgogliosi come fanciulli che si vantano d’esser soldati perché si sono messi in capo un kepì di cartone o che piangono per avere gli zuccherini e vogliono esser carezzati e giocare a far da papà.
Così appunto conclude il San Secondo, nell’estrosa commemorazione del poeta, commemorazione che è come il farnetico d’un rimorso per la violenta liberazione dall’incubo di lui perpetrata da una delle donnette più esasperate, proseliti del poeta, una certa Berta Tausen, la quale, passeggiando una notte con lui lungo un canale, lo aveva con una lieve spinta consegnato all’immortalità e ai pesciolini di quel canale.
Fa veramente piacere che questa liberazione da un incubo che opprime ancora parecchi giovani sia opera d’un giovane scrittore come Rosso di San Secondo, d’uno cioè che davvicino ha potuto studiare il complicato meccanismo di questi poeti che han per prototipo Ludwig Hansteken. La rappresentazione della vita e della morte di costui ha tutta l’aria, ripeto, d’una giocondissima vendetta. Le sei novelle della prima parte del volume, fresche, ariose e pur così impresse di solchi profondamene scavati nella tragica vita, le quattro elegie dell’intermezzo a Maryke con quel riso indimenticabile degli occhi della signora Liesbeth, sembrano veramente le foglie brillanti al soffio del ponentino nei giardini di cui ho parlato più su: quelli della fantasia, in cui il San Secondo è entrato da padrone per andare a svesciare in fondo ad essi quel buffo e triste rospo abbottato, simbolo dell’impotenza: il poeta Ludwig Hansteken.

La Tribuna