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 1916  luglio 16 Domenica calendario

La questione delle torri a Bologna

Bologna – una fra le più belle, certo, delle antiche e gloriose città artistiche d’Italia – è, non ostante la guerra, in preda ad un rinnovamento edilizio che reca seco, come tutti i rinnovamenti, i suoi beni ed i suoi mali. Lo sventramento di quello che era, in passato, il caratteristico Mercato di Mezzo, poi via Rizzoli, ha fatto venire in luce, di mezzo ai vecchi fabbricati demoliti, due antiche torri medioevali, l’Artenisia e la Riccadonna, che con l’Asinella e la Garisenda, formavano, nei secoli addietro, il gruppo delle quattro torri storiche, nel centro di Bologna, superba allora di almeno duecento torri. Disgraziatamente, il moderno, inesorabile «piano regolatore» prevede la demolizione delle due torri scoperte, di guisa che esse sono condannate a cadere vittime del piccone, se un’illuminata pressione dell’opinione pubblica, nel nome della storia e della bellezza, non interviene a salvarle.
Di coteste ragioni ha cercato di rendersi interprete, con una lettera pubblicata in un giornale bolognese, il prof. Giorgio Del Vecchio, che, pur attendendo ai suoi doveri di ufficiale dell’esercito, sente tutto il fervore di una difesa delle ragioni della storia e dell’arte, che in Bologna hanno così fondati e cospicui diritti.
«Le torri dei Riccadonna e degli Artenisi sono – scrive egli – esteticamente e storicamente, un sol tutto con quelle dei Garisendi e degli Asinelli; né importa se per lungo tempo furon nascoste; che anzi la secolare oblivione ne ha reso ora più grata la scoperta. Questa, se maggiore fosse il culto della bellezza nel nostro popolo, avrebbe dovuto esser celebrata da riti unanimi nella città, come in un caso analogo sarebbe accaduto in Roma o nell’Ellade, che vi avrebbero forse scorto l’indicazione di un qualche fato; e la scoperta avrebbe dovuto suscitare in tutti gli spiriti un fervore intenso e quasi geloso di conservazione e reintegrazione. Certamente le torri quali ora appaiono, mozze e sfigurate dagli edifici che per tanto tempo vi si addossarono, non possono rimanere; è mestieri metterle in luce, riportarle alla prisca altezza e ridar loro in tutto la sembianza d’origine. Chi non sappia in qualche modo anticipar colla fantasia tale necessario lavoro, non si attenti di giudicare se le torri debbano o non debbano essere conservate; perché conservare in questo caso significa innanzi tutto restaurare. La reintegrazione compiuta convincerà poi anche i dubitosi e gli ostili, come accadde già sempre in analoghe congiunture; per esempio a Milano, ove non è alcuno il quale oggi non riconosca il folle errore che sarebbe stata la demolizione, già quasi deliberata, del Castello Sforzesco; e a Genova, ove ognuno ammira il restaurato Palazzo di San Giorgio, miracolosamente salvo dopo che già per l’aberrazione di quasi tutti parea condannato. Se la ragione ancor vale, non si distrugga in un attimo ciò che si dovrebbe poi sempre rimpiangere! Non si aggiunga ancora una pagina a quel tristo e troppo lungo capitolo delle distruzioni bolognesi, che il Rubbiani con giusta melanconia di poeta intitolava Lacrymae Bononiae!».