L’Illustrazione Italiana, 16 luglio 1916
I volti di Parigi
5 luglio
I fiori di Dompierre
Il giorno in cui i francesi, dopo una lunga vigilia d’armi che non fu incruenta, decisero l’avanzata insieme coi «Tommies» britannici, il generale che comandava uno dei settori della Somme, si passò un garofano alla bottoniera e disse ai suoi soldati: «Ecco un garofano che appassirà pressoi boches»: allora tutti i suoi uomini raccolsero quanti fiori e quante foglie poterono trovare intorno a loro, se ne inghirlandarono le fronti e se ne ornarono le divise; poi, cantando la marsigliese, montarono all’assalto. Tre ore dopo le trincee tedesche erano spazzate sotto l’impeto irresistibile dei fantaccini francesi e il generale del garofano entrava alla testa dei suoi soldati nel villaggio liberato di Dompierre. Di tutti i racconti che in due anni di guerra siamo oramai abituati a leggere, questo della presa di Dompierre è dei più stupefacenti. Dopo ventitré mesi di battaglie senza precedenti, dopo gli orrori delle trincee, dopo le insidie perfide dei gas asfissianti e dei liquidi infiammati, dopo l’inferno dei bombardamenti senza tregua, dopo gli eroismi non interrotti di Verdun, dopo le stragi, le ferite atroci, le lotte senza nome, le aspettative ansiose, le lunghe soste demoralizzanti; i soldati francesi hanno ancora trovato il bel gesto della loro razza e per l’assalto supremo si sono ricoperti di fiori, come i vecchi soldati del maresciallo di Soubise durante gli anni leggendari della Guerre en dentelles. Si direbbe quasi che la preoccupazione più grave del soldato francese, nel momento di offrire la sua vita alla patria, è quella di battersi e di morire con eleganza. Al principio della guerra, nei giorni epici della Marna e dell’Ourcq, i giovani sottotenenti usciti allora dalla scuola di Saint-Cyr, giurarono di comandare le loro compagnie col pennacchio azzurro e rosso della scuola sul loro kepì e coi guanti bianchi dell’uniforme di parata. Mantennero il giuramento e morirono tutti, esposti da quei segni troppo visibili della loro dignità di ufficiali. Più tardi Pierre Wolf, interrogando un operaio parigino che si era battuto sotto i pioppi verdi e freschi di Vareddes, in quei dolci e languidi mattini di settembre che salvarono Parigi, e dimandandogli che cosa più rammentava delle ore tragiche della battaglia, si ebbe questa risposta: «Mi ricordo soltanto dell’erba folta che si stendeva oltre la trincea, e che l’aria odorava di menta». Oggi a due anni di distanza sono i poilus della Somme che si cingono di fiori prima di montare all’assalto! Mi ricordo che tre anni fa, proprio qui a Parigi, un giornalista straniero mi parlava della Francia con quella leggerezza che a tutti derivava dall’ignoranza del vero spirito francese. «La guerra?» mi diceva con un’aria di perfetta sicurezza. «Ebbene lasciate che la guerra sia dichiarata e avrete immediatamente la rivoluzione. Poi, dopo i primi due o tre mesi di resistenza – ammesso che i tedeschi lascino ai francesi il tempo di resistere – avrete la nuova débâcle, più grave e più ignominiosa di quella del ’70». Non so quello che sia divenuto il mio interlocutore, ma siccome era giovine e robusto, posso nutrire la speranza che abbia pagato con la vita la sua pretenziosa sicumera. Oggi, sono passati due anni, e la Francia è sempre in prima linea più forte di prima. Da cinque mesi, sostiene – sola – a Verdun l’impeto selvaggio delle orde tedesche, e ogni luogo dovuto abbandonare riprende con un attacco sublime, come quella ridotta di Thiaumont che presa e perduta per quattro volte di seguito è ancora sotto il tiro dei suoi fucili e sotto la minaccia delle sue baionette. E quasi non bastasse lo sforzo immane e meraviglioso di Verdun, il giorno in cui gl’inglesi decidono l’avanzata, i soldati di Francia sono in prima linea e in un impeto di follia sublime conquistano, uno dopo l’altro, tre ordini di difese tedesche ed entrano vittoriosi nei villaggi liberati, cantando e coperti di fiori! Questa la Francia del 1916, nel ventesimoterzo mese di guerra e nel centotrentottesimo giorno della battaglia di Verdun. But Brutus is an honorable man…
e la Francia è una nazione in piena decadenza fisica e morale.
I fiori di Dompierre
Il giorno in cui i francesi, dopo una lunga vigilia d’armi che non fu incruenta, decisero l’avanzata insieme coi «Tommies» britannici, il generale che comandava uno dei settori della Somme, si passò un garofano alla bottoniera e disse ai suoi soldati: «Ecco un garofano che appassirà pressoi boches»: allora tutti i suoi uomini raccolsero quanti fiori e quante foglie poterono trovare intorno a loro, se ne inghirlandarono le fronti e se ne ornarono le divise; poi, cantando la marsigliese, montarono all’assalto. Tre ore dopo le trincee tedesche erano spazzate sotto l’impeto irresistibile dei fantaccini francesi e il generale del garofano entrava alla testa dei suoi soldati nel villaggio liberato di Dompierre. Di tutti i racconti che in due anni di guerra siamo oramai abituati a leggere, questo della presa di Dompierre è dei più stupefacenti. Dopo ventitré mesi di battaglie senza precedenti, dopo gli orrori delle trincee, dopo le insidie perfide dei gas asfissianti e dei liquidi infiammati, dopo l’inferno dei bombardamenti senza tregua, dopo gli eroismi non interrotti di Verdun, dopo le stragi, le ferite atroci, le lotte senza nome, le aspettative ansiose, le lunghe soste demoralizzanti; i soldati francesi hanno ancora trovato il bel gesto della loro razza e per l’assalto supremo si sono ricoperti di fiori, come i vecchi soldati del maresciallo di Soubise durante gli anni leggendari della Guerre en dentelles. Si direbbe quasi che la preoccupazione più grave del soldato francese, nel momento di offrire la sua vita alla patria, è quella di battersi e di morire con eleganza. Al principio della guerra, nei giorni epici della Marna e dell’Ourcq, i giovani sottotenenti usciti allora dalla scuola di Saint-Cyr, giurarono di comandare le loro compagnie col pennacchio azzurro e rosso della scuola sul loro kepì e coi guanti bianchi dell’uniforme di parata. Mantennero il giuramento e morirono tutti, esposti da quei segni troppo visibili della loro dignità di ufficiali. Più tardi Pierre Wolf, interrogando un operaio parigino che si era battuto sotto i pioppi verdi e freschi di Vareddes, in quei dolci e languidi mattini di settembre che salvarono Parigi, e dimandandogli che cosa più rammentava delle ore tragiche della battaglia, si ebbe questa risposta: «Mi ricordo soltanto dell’erba folta che si stendeva oltre la trincea, e che l’aria odorava di menta». Oggi a due anni di distanza sono i poilus della Somme che si cingono di fiori prima di montare all’assalto! Mi ricordo che tre anni fa, proprio qui a Parigi, un giornalista straniero mi parlava della Francia con quella leggerezza che a tutti derivava dall’ignoranza del vero spirito francese. «La guerra?» mi diceva con un’aria di perfetta sicurezza. «Ebbene lasciate che la guerra sia dichiarata e avrete immediatamente la rivoluzione. Poi, dopo i primi due o tre mesi di resistenza – ammesso che i tedeschi lascino ai francesi il tempo di resistere – avrete la nuova débâcle, più grave e più ignominiosa di quella del ’70». Non so quello che sia divenuto il mio interlocutore, ma siccome era giovine e robusto, posso nutrire la speranza che abbia pagato con la vita la sua pretenziosa sicumera. Oggi, sono passati due anni, e la Francia è sempre in prima linea più forte di prima. Da cinque mesi, sostiene – sola – a Verdun l’impeto selvaggio delle orde tedesche, e ogni luogo dovuto abbandonare riprende con un attacco sublime, come quella ridotta di Thiaumont che presa e perduta per quattro volte di seguito è ancora sotto il tiro dei suoi fucili e sotto la minaccia delle sue baionette. E quasi non bastasse lo sforzo immane e meraviglioso di Verdun, il giorno in cui gl’inglesi decidono l’avanzata, i soldati di Francia sono in prima linea e in un impeto di follia sublime conquistano, uno dopo l’altro, tre ordini di difese tedesche ed entrano vittoriosi nei villaggi liberati, cantando e coperti di fiori! Questa la Francia del 1916, nel ventesimoterzo mese di guerra e nel centotrentottesimo giorno della battaglia di Verdun. But Brutus is an honorable man…
e la Francia è una nazione in piena decadenza fisica e morale.
8 luglio
Odilon Redon
È morto a 76 anni di età, in una casa di un sobborgo lontano dove viveva, l’acquafortista Odilon Redon. Molti, leggendo il breve annuncio nei giornali, si sono domandati curiosamente: «Ma come, Odilon Redon era ancora vivo?» e senz’altro hanno cercato in un’altra pagina le ultime notizie della guerra e gli ultimi comunicati ufficiali. Fra una vittoria del generale Brussilow e un telegramma di Giorgio V felicitante i suoi soldati delle prime vittorie, non c’è posto per la morte di un artista sopravvissuto. Così la notizia è appena apparsa in corpo sei, subito accanto alla firma del gerente, e il vecchio disegnatore non ha avuto né meno la gloria di una necrologia. Ma la guerra ha di queste atroci esigenze: il grande egittologo Maspero è stato appena un poco più fortunato, ed il geografo Reclus ha avuto l’onore di esser rammentato per i suoi sentimenti politici e per il suo vestiario bizzarro. Odilon Redon, che viveva dimenticato in campagna, non faceva più parlare di sé, e la sua scomparsa non ha suscitato nessun ricordo nei frettolosi compilatori della cronaca cittadina. E pure egli era stato un precursore e un mezzo secolo fa il suo bulino tagliente ed esasperante aveva saputo suscitare le discussioni dei critici e l’entusiasmo degli amatori. Perché il Redon era stato uno dei primi, fra gli artisti, ad accettare quel movimento ideale e verista al tempo stesso che si era andato formando intorno ai Fiori del male di Carlo Baudelaire. Fu il disegnatore diabolico e pervertito per eccellenza e i suoi frontespizi libertini, le sue acqueforti lascive, le sue illustrazioni di una voluttà macabra, parvero una rivelazione in un’epoca in cui finivano d’illanguidire le scene sentimentali e i pallidi profili romantici delle Keepsakes inglesi. Certo, oggi a trenta anni di distanza, la sua arte non ci dice più nulla. Quello che allora pareva eccessivo è divenuto oggi fin troppo modesto e di fronte alle esasperazioni esotiche di certi disegnatori moderni, i realismi satanici di Odilon Redon potrebbero sembrare quasi casti. Ma allora egli fu l’inventore delle streghe moderne, dei nudi macabri, delle donne scheletriche in calze nere; egli fu l’illustratore di Carlo Baudelaire e di Villiers de l’Isle Adam, di Maurice Rollinat e dei primi simbolisti. Le sue punte secche, messe in fronte di libri palesi e clandestini di trenta anni fa, formavano la gioia dei collezionisti, e i critici d’avanguardia salutavano l’audacia di questo artista che sapeva tradurre in parigino gli erotismi esasperati dei disegnatori giapponesi. Ma allora erano gli anni in cui Jean des Esseintes si componeva nella sua villa di Fontenay-auxroses una vita e un’arte paradossale. Poi i tempi cambiarono e Odilon Redon scomparve dalla curiosità ansiosa del pubblico in cerca sempre di cose nuove. Oggi è morto in piena guerra e io credo di essere stato forse l’unico a ricordare la gloria effimera di questo acquafortista d’eccezione, morto, nella vita, da almeno venticinque anni!
11 luglio
L’inverno nell’estate
L’altra mattina, passando dinanzi al termometro appeso nel hall dell’albergo ho constatato che avevamo appena otto gradi sopra zero. Poco più che in inverno, dunque, e siccome nel corso della giornata siamo arrivati a un massimo di dodici gradi, è proprio il caso, questa volta, di credere alla frase tante volte udita e ripetuta «a memoria d’uomo non si ricordava un’estate come questa»; esteticamente lo spettacolo di una Parigi invernale in pieno mese di luglio è di una leggiadria infinita. Mai come in quest’anno i grandi alberi dei suoi viali sono stati più verdi e più freschi; mai come in quest’anno le aiuole dei suoi giardini hanno avuto un’erba più tenera e più vellutata. Sotto l’oppressione delle nuvole grigie, contro il grigio dei palazzi di pietra, i pelargoni, le speronelle, i papaveri, le rose muschiate, le zinnie, le nappe di cardinale, gli agerati e tutti i fiori violenti all’estate, acquistano un fiammeggiare più intenso, quasi ravvivati quotidianamente dall’acqua che il cielo versa su loro senza parsimonia. Verso il tramonto, dall’arco del Carosello guardando in su fino ai Campi Elisi, pare di vivere uno di quei quadri paradossali nei quali un Alberto Besnard si sia compiaciuto di mischiare i colori di tutte le stagioni trionfanti: fiori estivi sotto un cielo invernale; alberi primaverili contro un orizzonte d’autunno. Le gocciole che pendono da ogni foglia s’illuminano nei riflessi rosei e perlacei del sole che tramonta, stemperando la sua luce pallida fra i grandi cumuli di nuvole lattiginosi che si accavallano all’orizzonte. E mentre le rondini radendo il suolo lanciano il loro grido evocatore di tutti i calori dell’estate, le signore che passano frettolose accanto a noi si avvolgono nelle pellicce e corrono a chiudersi nelle tea-rooms dove un’atmosfera più tiepida offre un riparo al brivido del tramonto. Finiti, per quest’anno, i tè all’aria aperta del Grand Trianon o del Padiglione d’Armenonville, finiti i pranzi intimi nell’Isola, agli Ambassadeurs, o in quel bizzarro Coucou di Montmartre, piccola osteria d’infimo ordine che lo snobismo ha messo di moda e dove un bergamasco gozzuto e balbettante tiene ad ogni ora pronto uno di quei piatti italiani che hanno sempre solleticato la ghiottoneria dei parigini anche prima dell’alleanza. Tutte queste cose, sono buone per l’estate e noi siamo in pieno inverno – un inverno di riviera se volete – ma un inverno vero e proprio con tutte le sue pioggie, con tutte le sue nebbie, con tutti i suoi venti, non ostante che il calendario segni il mese canicolare di luglio e che la chiesa celebri la festa del Corpus Domini. Povere piccole comunicande, in grandi veli bianchi e in vesti lunghe! Per costoro la Fête Dieu dovrebbe essere un giorno di luce e di sole, una grande profusione di gigli, una gita in campagna con relativo desinare in giardino, un ritorno trionfale tra la folla indomenicata che guarda le loro vesti bianche con quel rispetto che questo popolo giacobino ha sempre per le manifestazioni religiose. E invece le abbiamo vedute uscire dalla chiesa della Maddalena sotto gli ombrelli sgocciolanti, con le sottane alzate a mezza gamba e con le scarpine bianche tutte inzaccherate di mota. L’effetto era perduto e la gente intorno rideva a quello spettacolo. «È colpa della guerra», diceva accanto a me una vecchietta scuotendo malinconicamente il capo. «con tutte quelle cannonate come volete che non piova?» E se ne andava convinta di questa verità che del resto è oramai comune a tutto il popolo parigino. Se non che l’Accademia delle Scienze se ne è impadronita e ha tenuto una seduta a posta per smentire la leggenda. L’Accademia non manca mai in un’occasione come questa: giorni sono si è riunita per discutere se si poteva o no sentire il rumore del cannone dai sobborghi parigini. Qualcuno asseriva di sì, qualcun altro negava. Allora tutti quei dotti personaggi hanno riunito il loro sinedrio e dopo molte discussioni piene di dottrina e di acume hanno deciso che il rumore del cannone si doveva udire da Parigi, visto che Parigi è a cento chilometri soltanto dalla linea di battaglia, e che il suono si propaga assai facilmente fino a 250 chilometri di distanza. Emesso questo verdetto importante, si sono dovuti riunire di nuovo per decidere se lo stato attuale dell’atmosfera era cagionato veramente dallo spostamento dell’aria dovuto alle cannonate della Somme o di Verdun. E hanno stabilito di no, mettendo la pazzia del tempo a conto delle depressioni atmosferiche, degli ice-bergs galleggianti in pieno oceano, ai solstizi, agli equinozi, e a una quantità di belle cose che non hanno a far niente con i 75 del generale Joffre e con le grosse lazy-Lizzies dell’artiglieria inglese. Ma intanto piove, e le belle signore, nonostante la guerra e la durezza dei tempi, sono in fondo dispiacentissime di non aver potuto inaugurare una di quelle deliziose toilette – «leggere come un alito di aprile» – che avevano fatto una comparsa fugace nei salotti di prova delle grandi faiseuses della Rue de la Paix...
Odilon Redon
È morto a 76 anni di età, in una casa di un sobborgo lontano dove viveva, l’acquafortista Odilon Redon. Molti, leggendo il breve annuncio nei giornali, si sono domandati curiosamente: «Ma come, Odilon Redon era ancora vivo?» e senz’altro hanno cercato in un’altra pagina le ultime notizie della guerra e gli ultimi comunicati ufficiali. Fra una vittoria del generale Brussilow e un telegramma di Giorgio V felicitante i suoi soldati delle prime vittorie, non c’è posto per la morte di un artista sopravvissuto. Così la notizia è appena apparsa in corpo sei, subito accanto alla firma del gerente, e il vecchio disegnatore non ha avuto né meno la gloria di una necrologia. Ma la guerra ha di queste atroci esigenze: il grande egittologo Maspero è stato appena un poco più fortunato, ed il geografo Reclus ha avuto l’onore di esser rammentato per i suoi sentimenti politici e per il suo vestiario bizzarro. Odilon Redon, che viveva dimenticato in campagna, non faceva più parlare di sé, e la sua scomparsa non ha suscitato nessun ricordo nei frettolosi compilatori della cronaca cittadina. E pure egli era stato un precursore e un mezzo secolo fa il suo bulino tagliente ed esasperante aveva saputo suscitare le discussioni dei critici e l’entusiasmo degli amatori. Perché il Redon era stato uno dei primi, fra gli artisti, ad accettare quel movimento ideale e verista al tempo stesso che si era andato formando intorno ai Fiori del male di Carlo Baudelaire. Fu il disegnatore diabolico e pervertito per eccellenza e i suoi frontespizi libertini, le sue acqueforti lascive, le sue illustrazioni di una voluttà macabra, parvero una rivelazione in un’epoca in cui finivano d’illanguidire le scene sentimentali e i pallidi profili romantici delle Keepsakes inglesi. Certo, oggi a trenta anni di distanza, la sua arte non ci dice più nulla. Quello che allora pareva eccessivo è divenuto oggi fin troppo modesto e di fronte alle esasperazioni esotiche di certi disegnatori moderni, i realismi satanici di Odilon Redon potrebbero sembrare quasi casti. Ma allora egli fu l’inventore delle streghe moderne, dei nudi macabri, delle donne scheletriche in calze nere; egli fu l’illustratore di Carlo Baudelaire e di Villiers de l’Isle Adam, di Maurice Rollinat e dei primi simbolisti. Le sue punte secche, messe in fronte di libri palesi e clandestini di trenta anni fa, formavano la gioia dei collezionisti, e i critici d’avanguardia salutavano l’audacia di questo artista che sapeva tradurre in parigino gli erotismi esasperati dei disegnatori giapponesi. Ma allora erano gli anni in cui Jean des Esseintes si componeva nella sua villa di Fontenay-auxroses una vita e un’arte paradossale. Poi i tempi cambiarono e Odilon Redon scomparve dalla curiosità ansiosa del pubblico in cerca sempre di cose nuove. Oggi è morto in piena guerra e io credo di essere stato forse l’unico a ricordare la gloria effimera di questo acquafortista d’eccezione, morto, nella vita, da almeno venticinque anni!
11 luglio
L’inverno nell’estate
L’altra mattina, passando dinanzi al termometro appeso nel hall dell’albergo ho constatato che avevamo appena otto gradi sopra zero. Poco più che in inverno, dunque, e siccome nel corso della giornata siamo arrivati a un massimo di dodici gradi, è proprio il caso, questa volta, di credere alla frase tante volte udita e ripetuta «a memoria d’uomo non si ricordava un’estate come questa»; esteticamente lo spettacolo di una Parigi invernale in pieno mese di luglio è di una leggiadria infinita. Mai come in quest’anno i grandi alberi dei suoi viali sono stati più verdi e più freschi; mai come in quest’anno le aiuole dei suoi giardini hanno avuto un’erba più tenera e più vellutata. Sotto l’oppressione delle nuvole grigie, contro il grigio dei palazzi di pietra, i pelargoni, le speronelle, i papaveri, le rose muschiate, le zinnie, le nappe di cardinale, gli agerati e tutti i fiori violenti all’estate, acquistano un fiammeggiare più intenso, quasi ravvivati quotidianamente dall’acqua che il cielo versa su loro senza parsimonia. Verso il tramonto, dall’arco del Carosello guardando in su fino ai Campi Elisi, pare di vivere uno di quei quadri paradossali nei quali un Alberto Besnard si sia compiaciuto di mischiare i colori di tutte le stagioni trionfanti: fiori estivi sotto un cielo invernale; alberi primaverili contro un orizzonte d’autunno. Le gocciole che pendono da ogni foglia s’illuminano nei riflessi rosei e perlacei del sole che tramonta, stemperando la sua luce pallida fra i grandi cumuli di nuvole lattiginosi che si accavallano all’orizzonte. E mentre le rondini radendo il suolo lanciano il loro grido evocatore di tutti i calori dell’estate, le signore che passano frettolose accanto a noi si avvolgono nelle pellicce e corrono a chiudersi nelle tea-rooms dove un’atmosfera più tiepida offre un riparo al brivido del tramonto. Finiti, per quest’anno, i tè all’aria aperta del Grand Trianon o del Padiglione d’Armenonville, finiti i pranzi intimi nell’Isola, agli Ambassadeurs, o in quel bizzarro Coucou di Montmartre, piccola osteria d’infimo ordine che lo snobismo ha messo di moda e dove un bergamasco gozzuto e balbettante tiene ad ogni ora pronto uno di quei piatti italiani che hanno sempre solleticato la ghiottoneria dei parigini anche prima dell’alleanza. Tutte queste cose, sono buone per l’estate e noi siamo in pieno inverno – un inverno di riviera se volete – ma un inverno vero e proprio con tutte le sue pioggie, con tutte le sue nebbie, con tutti i suoi venti, non ostante che il calendario segni il mese canicolare di luglio e che la chiesa celebri la festa del Corpus Domini. Povere piccole comunicande, in grandi veli bianchi e in vesti lunghe! Per costoro la Fête Dieu dovrebbe essere un giorno di luce e di sole, una grande profusione di gigli, una gita in campagna con relativo desinare in giardino, un ritorno trionfale tra la folla indomenicata che guarda le loro vesti bianche con quel rispetto che questo popolo giacobino ha sempre per le manifestazioni religiose. E invece le abbiamo vedute uscire dalla chiesa della Maddalena sotto gli ombrelli sgocciolanti, con le sottane alzate a mezza gamba e con le scarpine bianche tutte inzaccherate di mota. L’effetto era perduto e la gente intorno rideva a quello spettacolo. «È colpa della guerra», diceva accanto a me una vecchietta scuotendo malinconicamente il capo. «con tutte quelle cannonate come volete che non piova?» E se ne andava convinta di questa verità che del resto è oramai comune a tutto il popolo parigino. Se non che l’Accademia delle Scienze se ne è impadronita e ha tenuto una seduta a posta per smentire la leggenda. L’Accademia non manca mai in un’occasione come questa: giorni sono si è riunita per discutere se si poteva o no sentire il rumore del cannone dai sobborghi parigini. Qualcuno asseriva di sì, qualcun altro negava. Allora tutti quei dotti personaggi hanno riunito il loro sinedrio e dopo molte discussioni piene di dottrina e di acume hanno deciso che il rumore del cannone si doveva udire da Parigi, visto che Parigi è a cento chilometri soltanto dalla linea di battaglia, e che il suono si propaga assai facilmente fino a 250 chilometri di distanza. Emesso questo verdetto importante, si sono dovuti riunire di nuovo per decidere se lo stato attuale dell’atmosfera era cagionato veramente dallo spostamento dell’aria dovuto alle cannonate della Somme o di Verdun. E hanno stabilito di no, mettendo la pazzia del tempo a conto delle depressioni atmosferiche, degli ice-bergs galleggianti in pieno oceano, ai solstizi, agli equinozi, e a una quantità di belle cose che non hanno a far niente con i 75 del generale Joffre e con le grosse lazy-Lizzies dell’artiglieria inglese. Ma intanto piove, e le belle signore, nonostante la guerra e la durezza dei tempi, sono in fondo dispiacentissime di non aver potuto inaugurare una di quelle deliziose toilette – «leggere come un alito di aprile» – che avevano fatto una comparsa fugace nei salotti di prova delle grandi faiseuses della Rue de la Paix...