L’Illustrazione Italiana, 16 luglio 1916
La guerra delle idee
La guerra delle idee è, più precisamente, la guerra dell’idea tedesca contro le altre. Dopo La nuova Germania, dopo Italia e Germania, G. A. Borgese pubblica ora questo terzo volume in relazione con gli avvenimenti attuali (Milano, Treves); mirando sempre – malgrado la molta varietà dei soggetti trattati – a studiare soprattutto il germanismo antico e presente nel conflitto con gli opposti valori.
Il pensiero organico del Borgese è ben noto. Egli che conosce attraverso le forme filosofiche e letterarie lo slancio idealistico della vecchia Germania, è in grado di vedere a fondo come quello slancio, oltrepassando il segno, esaurisse e in pari tempo rinnegasse sé stesso, concretandosi in un gonfio materialismo ed aspirando per partito preso ad una funzione egemonica di gran lunga sproporzionata alle proprie forze interiori. Questo idealismo venuto a trasformarsi in un grossolano materialismo, era già alcuni anni or sono rettamente giudicato da una pura e alta anima tedesca, degna di rappresentare in mezzo alla Germania moderna alcune salde virtù dell’antica: Gustavo Gröber, il quale ricordando l’elevazione morale venuta con Kant, e la religione dell’idealità introdotta da Goethe e Schiller, da Mozart e Beethoven, osservava quanto terreno avessero perduto quelle grandi aspirazioni nella pace seguita alla guerra del 1870; e concludeva: «Al luogo delle operazioni ideali, ond’era costituito il senso della vita, è subentrato il culto dei beni materiali, della ricchezza e della potenza, del benessere fisico e della pompa, che servono all’appagamento esteriore». Sono parole che piaceranno senza dubbio anche al Borgese, il quale sa mantenersi italianamente sereno giudice di fronte ai valori spirituali del germanesimo classico. Fin troppo sereno, qualche volta, per l’onesto timore di non esserlo abbastanza. È un atteggiamento comune a non pochi fra noi, e che testimonia veramente la nobiltà istintiva del carattere italiano, ma può anche indurci a porre distinzioni eccessivamente mitologiche tra il genio della Luce e il genio delle Tenebre, tra la vecchia Germania e l’altra – quella che vediamo all’opera da due anni; mentre in realtà sono intimamente connesse. Si può vedere appunto in queste pagine, per esempio, come una nobile, se pur ingenua, concezione democratica di stampo neolatino, originatasi nelle fumose astrazioni umanitarie del Rousseau, diventi già nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte falsificazione sistematica della storia in senso tedesco e strumento di predominio del popolo eletto. Uno dei più gravi torti che abbia la nostra cultura italiana, è l’aver servilmente accettato quella concezione romantica del medioevo foggiata in Germania, contraria a ogni realtà, e in cui già si celava l’insidia pangermanista preparando il metodico abbassamento d’ogni nostra tradizione.
Composto di molti scritti variati, il libro del Borgese si aggira prevalentemente intorno a un principio sostenuto con grande acume: che già si profili la sconfitta tedesca nel campo delle idee. La Germania non ha avuto la forza di asserire gl’ideali in nome dei quali aveva iniziato la guerra. E comincia ad esser possibile una discussione di questo genere, perché la guerra già lunga ci consente di trarre oramai qualche formula dall’incomposto agitarsi dei fatti incalzanti. Tutte le profezie, fondate su verità anteriori o su presunte verità che la guerra ha distrutto, sono cadute; ma più si accumulano i fatti, e più diventano possibili, in luogo delle profezie, le deduzioni. Ancora incerte, senza dubbio, ancora provvisorie – ma tali già da appagare, almeno per ora, l’istinto costruttore del nostro intelletto che pareva smarrito.
Secondo queste prime legittime deduzioni, la Germania è già battuta. Se la dottrina d’un primato della razza germanica, scrive il Borgese, poteva magari discutersi prima della guerra, nella guerra le sue aleatorie fondamenta sono tutte crollate», perché non si vede in che consista il primato spirituale che il militarismo tedesco dovrebbe imporre al mondo. O non si vede, aggiungo, o si vede troppo. E lungi dal disanimare gli avversari, la violenza non soltanto li ha spronati alle estreme difese, ma ha ridestato in essi la lucida consapevolezza di quelle ragioni astratte che sono l’essenza della loro storia, ed appariscono oggi infinitamente superiori alle ragioni dell’aggressore. Tutto il prodigioso spettacolo della organizzazione tedesca non è servito ad altro che ad accendere più vivide e più ribelli le luci ideali delle altre genti. Partita in guerra con un fermo scopo di dominazione europea, che muoveva dal rinnegamento di tutte le altre nazionalità, la Germania si è vista subito costretta a transigere, ed il suo sforzo ha preso un andamento torbido e confuso. Non v’è nemico con cui non abbia cercato d’accordarsi separatamente, non v’è scopo singolo a cui non si sia mostrata disposta a rinunciare. Ha avuto bisogno dell’Ungheria, della Turchia, della Bulgaria, della Grecia, a prezzo di concessioni che sminuivano ogni giorno più la portata del suo sognato trionfo. Essa che rinnegava le altre nazionalità per esaltare metafisicamente la propria, s’è vista costretta a mostrarsi tutrice appunto di tutte le nazionalità disposte a servirla. Ha dovuto far suo il vocabolario nemico, e atteggiarsi a paladina dei piccoli popoli oppressi. Il suo impero oramai non potrebbe costruirsi se non nel modo più contraddittorio al concetto stesso d’impero. Dall’altra parte, 1’Intesa si viene adoprando ad acquistare quelle virtù di organismo pratico che la Germania rappresenta per meglio servirsene contro di lei. «S’è già quasi compiuto il destino di tutte le grandi guerre: gl’ideali degli avversari s’intrecciano, si compenetrano, s’invadono l’un l’altro. Alla battaglia di Lipsia gli Alleati combattevano i Francesi con pratica di strategia napoleonica e in nome d’ideali per gran parte francesi. Oggi l’Intesa imita l’organizzazione sociale e militare tedesca, moltiplica le artiglierie pesanti e fa la guerra dei sottomarini nel Baltico. E i Tedeschi s’impadroniscono dell’ideologia dell’Intesa, e portano la guerra nei Balcani in nome dell’irredentismo macedone e del principio di nazionalità applicato all’Epiro greco».
Tutto questo il Borgese dimostra benissimo, con la sua logica mobile e serrata. Ma l’interpenetrazione scambievole dei nemici sarà poi qualcosa di più che una realtà apparente, o meglio occasionale, effimera, dell’oggi? Non sarà un mezzo di lotta, più che uno scambio effettivo di valori? Un artificio per la vittoria, un adattamento ai bisogni dell’ora, più che un frutto durevole? Non so fino a che punto, dopo la guerra, l’Intesa conserverà la disciplina dell’organizzazione, appresa in quest’ansia febbrile di conflitti, – ma in ogni modo si può essere ben sicuri, che la Germania, se le riuscisse, non tarderebbe a gettar lungi da sé la maschera delle nostre ideologie e a ritrovare intatto il principio metafisico della propria brutalità. Il Borgese attende, nel futuro, una nuova sintesi spirituale dei popoli avvinti nella battaglia; ma forse è più facile che nella stretta ciascuno impari invece a veder più chiara e più salda l’immagine reale di sé stesso, con la visione approfondita che i popoli come i singoli uomini acquistano soltanto nelle ore supreme dell’esistenza.
Questo ha già fatto l’Italia, nel giorno in cui cominciò la sua guerra, risolvendovisi dopo un conflitto interiore veramente tragico, determinato da ben altri impulsi che non fosse il calcolo materialistico degli interessi: determinato da una profondissima, invincibile necessità della sua anima.
Ma scoprire la propria anima non è sempre facile. Spesso ne abbiamo, o ci pare d’averne, più d’una. E fra i migliori capitoli di questo bel libro è appunto quello che studia Le due anime dell’Italia.
Nel secolo decimonono, osserva il Borgese, le varie tendenze della cultura europea erano giunte a sviluppi logici estremi, aspramente discordi. «La dottrina dell’amore e della pietà raggiungeva espressioni quasi medioevalmente innocenti in un Dostojewski, in un Pascoli; la dottrina della violenza (che per modo di dire si chiamò pagana, quasi che veramente in Grecia e in Roma fossero suonate voci simili) giungeva fino al ditirambo di Nietzsche e più in là». Scoppiato il conflitto, la tradizione cristiana si raccolse presso i popoli coalizzati, gli elementi del cosidetto neopaganesimo si addensarono a conto della Germania. E l’Italia poteva credere di avere la sua anima nell’uno e nell’altro campo. Ella è stata, nei secoli, mistica e cinica, cristiana e titanica. Ha avuto i Fioretti di San Francesco e la Vita di Benvenuto Cellini, tanto amata da Goethe. La vecchia anima mistica dell’Italia era rifiorita già nel Risorgimento nazionale, e Garibaldi fu un francescano. Poi, negli ultimi anni, era tornata a prevalere l’altra corrente. Alla fine, con la dichiarazione di guerra, l’anima mistica riprese il sopravvento trionfando della cinica anima che dopo aver dato il suo massimo fiore nella rinascenza continua a rivelarsi di tempo in tempo nella stirpe.
È una costruzione elegante, se pure un po’ forzata nel suo schematismo, e contiene veramente molta verità. Ma vorrei che il Borgese, con quello stesso senso sicuro della nostra storia che lo ha guidato nel descrivere le due anime, ne mettesse in luce ancora una terza. Perché né la prima né la seconda comprendono tutta la vita italiana. Non possono, sole, spiegar né tutto il passato né tutto il presente. né l’una né l’altra è latina, pure essendo entrambe italiane. C’è dunque la terza anima, l’anima della nostra diretta discendenza latina: l’anima ferma e quadrata del diritto, dell’armonia, del sano equilibrio morale. Questa prevalse nella generazione d’Italiani che preparò i nostri nuovi destini verso la seconda metà del settecento: la generazione di Pietro Verri e di Giuseppe Parini. Questa ancora si fece più tardi romantica, ma prendendo dal Romanticismo straniero solo quel tanto che s’accordava col suo solido, realistico senso del giusto e del vero: e si chiamò, allora, Alessandro Manzoni. Una terza anima, dunque: la migliore, forse, che s’illumina di fede misurata e diritta, di sana, forte nobiltà ideale, senza mai perdere di vista la forma concreta delle cose. ET anima più intimamente, tradizionalmente italiana, dalla Divina Commedia in qua. E la nostra guerra è piena di lei.