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 1916  luglio 09 Domenica calendario

Rinnovamento

I

Come al solito, Anna Maria, poiché fu scesa dal tram, si sentì piena di un intenerimento e di un’ammirazione verso sé stessa. Abitualmente, ella disdegnava la carrozza di tutti: e metterci piede adesso le pareva un atto di meritoria abnegazione: come se, fra tutti i sacrifici che i tempi imponevano, più che alle borse alle anime, il suo fosse il più alto e il più degno, anche perché il più volontario. Aver democratizzato i suoi mezzi di trasporto le pareva aver nobilitato tutta la sua vita. Per cui, quando intorno a lei, o per convinzione o per paradosso, qualcheduno parlava della elevazione degli spiriti che la guerra aveva portato con sé, ella protendeva subito il suo bel viso roseo e fresco di donnina elegante, come per dire modestamente:
– Eccomi: sono qua, io: l’esempio!
Quel tram suburbano portava «l’esempio» ad un’altra missione. Ma questa, che certo era più grande di quella di andare in tram, a lei era parsa più piccola. Di infermiere ce n’erano tante fra le sue amiche: quasi tutte. Ognuna d’esse aveva voluto portar la sua croce; rossa naturalmente. Per cui Anna non ne inorgogliva. Tanto più che il posto a cui ella era stata «adibita» per dirla con parola burocratica a lei sconosciuta prima, era un ospedale signorile e ristretto, creato in una villa antica, in mezzo a un giardino mirabile, che adesso quel principio d’aprile faceva sorridere come un ritrovo di felicità.
Così Anna Maria aveva pagato e pagava il suo tributo al dovere comune. E cercava di pagarlo il più alacremente possibile, intenerendosi su sé stessa e ammirandosi, ma non tanto che la leggerezza del suo carattere se ne alterasse a fondo. Neppure nei sentimenti leggeri ella era… profonda! Era tutta superficie, sebbene superficie graziosa. La sua vita facile e la sua salute costante, se non da ogni fastidio, l’avevano preservata da ogni senso dei fastidii istessi. Si era sposata senz’amore a vent’anni; si era divisa dal marito senza dolore a venticinque. Per qualche torto ch’egli le aveva fatto, incitato forse dalla sua freddezza: torti che sua madre, i parenti, le amiche, le avevano presentati come irrimediabili, insieme col rimedio dell’allontanamento. Ella si era lasciata «separare» quasi senza accorgersene e quasi senza darsi la pena di volerlo. E il marito, che era un uomo di mondo, se n’era andato discretamente, come un signore che non ama il chiasso, e che in tutte le cose che fa, anche le più definitive, sa mettere una riserva, una discrezione di buon gusto.
Adesso, Anna Maria era tornata come una ragazza, senza pensieri, senza desideri, senza amarezze, senza emozioni. Sua madre che viveva con lei, ma in appartamento separato, coltivava quella indifferenza con un affetto egoista. I suoi fratelli erano lontani, prima: chi a viaggiare, chi a non far niente. Adesso miravano a non andare alla guerra, soltanto. Il marito c’era andato, invece. Dopo aver battagliato con la suocera forse egli non aveva paura delle mitragliatrici.
Affondando nella polvere della via le sue scarpette bianche e la sua tunica oscura, Anna Maria si affrettò. Era un poco in ritardo. La direttrice, che era una vecchia signora della società, amica di sua madre, doveva già aspettarla. Ma, tanto... Non c’erano feriti, quasi, adesso nell’ospedale. Due o tre: e uno più malato che ferito, che ella aveva preso specialmente sotto la sua protezione. Poveretto. Era un sardo, un ragazzo di vent’anni che da poi ch’era stato portato lassù, non aveva potuto farsi intendere, quasi. Adesso, da due giorni aveva la febbre, e si lamentava come con un mugolìo puerile, portandosi spesso la mano alla testa. Inconsciamente, Anna Maria ricordava quel gesto, il solo che le era rimasto impresso del suo unico fìglioletto morto in fasce. Morto, di che? Ella non sapeva. Ma quel gesto talvolta 1’attristava; unico punto nero e preciso nel grigio delle memorie della sua anima leggera.
Varcò il viale, entrò nel giardino: e tosto fu ravvolta nella magìa dell’aprile. Il giardino rideva tutto, dava come la sensazione di una grande felicità, inespressa, ma pronta a sbocciare. Una felicità fisica, la sola che forse ella poteva intendere. Che profumo!
Che tepore! E lontano c’era la guerra, e lontano si moriva?
Queste idee scivolarono sulla sua anima. Forse, pensò, erano esagerazioni. Non si moriva neppure, tanto meno, anzi, nell’ospedale: in quella bella villa che affacciava tra la verdura nuova il roseo della sua facciata antica; e dietro le cui finestre, riparate da tende bianche, le stanze raccoglievano come delle convalescenze di collegiali allegri e puliti. Dopo il viale una spianata, un pronao di marmo, una anticamera a stucchi. Anna Maria si figurava già nel pensiero il sorriso indulgente della signora Aureli, proprietaria e direttrice, poi la giornata bene impiegata, divisa in due dalla colazione allegra, e, da ultimo, il congedo verso il vespro, quando le ombre cerulee scendevano dolcemente sul giardino, e l’odore dei fiori accompagnava la partente come un gentile arrivederci.
Ma la signora Aureli non era nell’atrio: e neppure Anna Maria ne udì la voce signorile e imperiosa suonare nelle stanze, a ordinare le mille cose che giornalmente occorrevano. La villa ospitale pareva abbandonata. Anna Maria traversò l’atrio, leggermente, entrò nel salottino che serviva adesso da guardaroba e da spogliatoio. Di lì finalmente sentì qualcheduno parlare. La voce del medico. Poi un’altra, poi un’altra. Un Consiglio di famiglia? Un Consiglio di guerra?
Ma Anna Maria pensava tanto a sé che non le restava neppure il tempo di essere curiosa. Ella indugiò un istante a spogliarsi della tunica oscura, rimanendo tutta bianca come una comunicanda. E in quel costume, una specie di memoria estetica del suo officio te tornò. Ah! I suoi ammalati? Ripensò, tra questi, al piccolo sardo, e decise che certo egli non stava peggio. Ella non ammetteva il pensiero del peggio. La morte, entrata così in turbine nella sua vita qualche anno prima, le era parsa sempre una eventualità lontana e remota. Ella l’aveva dimenticata.
Lasciò che di là parlassero ancora: e, senza aspettare la signora Aureli, che certo faceva parte anche lei del conciliabolo insolito, si avviò verso la corsia dei feriti.
Era il salone della villa a terreno: grande, sorretto da bianche colonne, con un soffitto altissimo di cui le buone pitture vegliavano adesso sui buoni sonni convalescenti. Il primo lettuccio entrando doveva contenere il suo sardo: altri due soltanto erano occupati, in quel periodo di stasi della guerra. Ma, appena entrata, Anna Maria vide subito che il lettuccio e il suo malato non c’erano più.
Il suo stupore fu grande. Che era accaduto? Andò verso uno dei feriti, un artigliere ormai quasi guarito che stava alzato, a capo del letto; e lo interrogò.
– Chi ne sa niente? – rispose questi. – Lo hanno certo portato via stanotte, mentre noi si dormiva.
– Mica morto, sa! – interruppe l’altro, un lombardo curioso e arguto, che apriva, in una faccia rigata da una ferita a rabeschi, due occhi candidi, pieni di un terrore della morte come di una soperchierìa di cattivo gusto. – Mica morto, sa?! Lo hanno portato di là in... in osservazione. Per osservall – aggiunse temendo che la signora non capisse.
– In osservazione?
Veramente ella non capiva. Ma notò negli occhi candidi e allegri quell’ombra di inquietudine. E tutt’a un tratto anche lei, malgrado la sua leggerezza, si sentì avvolta da quell’ombra: come alcuno è toccato da un’impressione di freddo quando passa una nuvola sul sole che pure non lo investiva.
– In osservazione? Perché?
L’artigliere si strinse nelle spalle, filosoficamente. Avvezzo a guardare in faccia il pericolo e a sentirsene nelle orecchie il rombo, certo i pericoli taciti, che giungevano alle spalle, dovevano parergli da poco... E disse:
– Chi lo sa! Qualche malattia infettiva...
Boia de vun! – disse il lombardo tra i denti.
Ah! l’ombra! Anna Maria sentì davvero un freddo investirla. Ella non ci aveva mai pensato, a quel pericolo. E tutt’a un tratto, con la impulsività delle persone superficiali in cui le impressioni hanno come lo scatto di una molla, ella sentì la sua carne ripugnare a quell’idea con una contrazione di disgusto e di paura.
Volle andarsene. Ma le voci di gente che sopravveniva non glielo permisero. Dalla porta dond’ella era entrata, entravano adesso la signora Aureli, il medico militare ed un altro signore ch’ella non conosceva.
– Ah! Lei è qua? – disse la signora Aureli gravemente, con gravità affettuosa.
I due uomini sopraggiunti la guardarono, e si guardarono. C’era nei loro occhi come un rispetto e come una commiserazione.
– L’aspettavamo – disse la signora ad Anna Maria. – Vuol venire un momento di là con noi?
Ella seguì il gruppo come una bambina colta in fallo, che vorrebbe allontanarsi e non può. Rientrarono nello studio: e allora il dottore parlò subito, rapidamente, da uomo non abituato ai preamboli, e desideroso di arrivar subito allo scopo.
– L’aspettavamo, cara signora. Ella è infermiera qua. Conosciamo la sua bontà, la sua abnegazione. E sappiamo che avendo ella prescelto questo dovere, nessun sacrificio le parrà troppo grave...
Che era? Il preambolo aumentò in Anna Maria quella sensazione di freddo. Ella guardò alternatamente la signora Aureli, il dottore, e il vecchio signore che s’erano dimenticati di presentarle, e che assentiva scuotendo la testa.
– Abbiamo dovuto prendere – seguitò il dottore guardando adesso verso di lui, che scosse la testa ancor più – gli opportuni
accordi con l’autorità… Oh! Delle semplici
misure precauzionali. Ella capirà benissimo...
No! Élla non comprendeva niente. E nell’abitudine di dettare lei le regole della conversazione, ella interrogò, con qualche asprezza:
– Ma che cosa? Che cosa?
– Nulla, nulla di grave, signora. Ecco qua. Noi dobbiamo pregarla di non voler tornare per stasera a casa sua. Di... di rimaner qua, insomma. La signora direttrice, le ha fatto preparare una stanza, una bella stanza. Oh, ella ci starà benissimo.
– Stasera?! Rimanere qua?!
– Sì, ventiquattro, quarantotto ore al più.
Una semplice osservazione... Il tempo di qualche indagine. Ella ha specialmente prestato le sue cure al soldato Nieddu Savino, non è vero? Almeno la signora Aureli ci ha detto così...
– Sì. Ebbene?!
– Ebbene; abbiamo qualche ragione per temere... Oh! temere non è la parola. Noi non temiamo più quella malattia di qualunque altra. Ma insomma, il signore – e indicò l’ignoto che adesso posava con la testa, distratto, – ed io, abbiamo ragione di ritenere ché si tratti d’una malattia infettiva, d’una certa gravità. E allora dobbiamo prendere qualche precauzione, qualche provvedimento isolatore.
– Dottore!
Ella sentì le sue gambe mancarle; e il cuore precipitarle nel petto. Che era? Il pericolo si faceva prossimo, imminente, pauroso.
– Che è, dottore? Una malattia?...
– Infettiva, sì – aggiunse allora l’altro signore.
Poi, com’ella apriva ancora la bocca a parlare, a chiedere, il medesimo disse, con la tranquilla rudezza dell’abitudine:
– La meningite...
 
II

Anna Maria ricordò dopo, confusamente, tutta la scena d’allora. In quel momento, i suoi sensi le parvero soppressi, come deve avvenire a chi si sente librato sopra un abisso, e sta per cadervi. Ella vide confusamente la signora Aureli che cercava di farle coraggio, che le diceva: – «Non c’è niente da aver paura: siamo qua tutte e due. È il nostro dovere» e altre simili magre consolazioni. Poi gli avvertimenti delle due autorità sanitarie che dettavano tutte le regole del caso, prescrivevano le cure, le disinfezioni, i provvedimenti... Ma essi ridiscendevano. Erano dunque liberi?
– Con tutte le precauzioni, sì, – spiegò sorridendo il dottore. – Il loro dovere li chiamava altrove. Ella non aveva altri doveri, in quel momento. Poi, essi erano sopravvenuti dopo; e non era lei che i giorni avanti era stata al capezzale dell’infermo?
E li aveva visti partire come istupidita. Dire che era arrivata lì quella mattina come tutte le altre mattine, allegra, spensierata, leggera! E che aveva sentito la carezza dei fiori, del sole, la primavera che empiva il giardino! Adesso era come prigioniera, con il pericolo accanto. E quale pericolo! Una malattia atroce, insidiosa, mortale. Ella ne aveva tanto sentito parlare in quei giorni. Adesso, nel suo smarrimento, ella cercava di riafferrare le parole che le erano prima sfuggite, a cui non aveva dato prima alcun peso. E quelle parole la impaurivano di più, le parevano piene di una minaccia insostenibile...
Ma no, era un incubo! Chi poteva trattenerla, chi poteva imprigionarla così? In nome di qual dovere, di quale obbligo? Ella era libera. Ella voleva andarsene, tornar giù alla sua casa pulita e sana, alle sue occupazioni, al suo letto. Che aveva ella fatto per essere costretta a rimanere? Pensò con disperazione a tutto quanto aveva progettato per quella sera, ad una passeggiata che voleva fare scendendo, ad una visita, a incombenze inutili e necessarie che si era proposte; a tutta la sua vita di lusso, sarta, modista, visite. E tutto questo era interrotto... o finito?!
No! No! Si alzò dalla poltrona ov’era rimasta come annientata, e corse fuori così, in capelli. Il giardino adesso benché pieno di mezzogiorno le pareva pauroso. Si precipitò fino al cancello, lo tentò con le mani febbrili. Era chiuso.
Tornò indietro, ansando. Così, era vero? La tenevano lì, la chiudevano faccia a faccia col suo terrore? Che risolvere? Che agire?
Rientrò automaticamente. Incontrò la signora Aureli che era grave e calma e le disse:
– Non c’è da spaventarsi. Vedrà che tutto finirà bene.
Ella ebbe un povero sorriso di condannata a morte, a cui si parla della grazia. La signora Aureli la lasciò per andare a dar ordini. Ella pensò: Come può essere così calma? Ma, a sessantanni…! E poi, forse, ella non aveva nulla che la legasse al mondo, alla vita. Non aveva affetti. Lei, invece... Ah! ah! quali affetti? Suo marito, forse? Ma no; il suo appartamento luminoso, i suoi thè, le amiche, i vestiti...
Uno stupore si abbatté su di lei. Infine, una specie di fascino pauroso la sospinse, l’attrasse. Traversò l’atrio, il salottino, socchiuse la porta della stanzetta ove avevano deposto il malato.
Era là immobile, taciturno, tranquillo. Il sole che penetrava a fiotti nella cameretta illuminava il letto bianco. Ecco, era lì il pericolo. In qual forma e in qual modo si avventerebbe su di lei? Quali sarebbero i sintomi, quali i primi indizi del male? Quella specie di tremito delle sue mani, quel martellare incessante delle sue tempie?
Si ritrasse, tornò, volta a volta affascinata e respinta. A un dato momento, quando più si appressava, ella intese dal letto un gemito, un gemito lungo come di bambino dolente. Che diceva? Ella andò macchinalmente fino al capezzale, e intese che il piccolo soldato mormorava:
– Da bere!
Allora, macchinalmente sempre, ella prese una boccia d’acqua dal tavolino, ne empì un bicchiere, sollevò questo con mani tremanti. E come il malato ripeteva gemendo: Da bere!, ella si avvicinò, gli portò il bicchiere alle labbra.
Ah! Che aveva fatto? Il contagio?! Il malato si era riadagiato, senza più gemere. Non si udiva più nella stanza che il ronzar d’una mosca che vi era entrata e sbatteva contro i vetri, nel sole.
Anna Maria rimase lì, immobile, assorta, come presa da un torpore. Pensò. – «Che è? Muoio?» E il torpore cresceva. Ella chinò la testa sul petto, si assopì.
Quanto tempo stette così? Non avrebbe potuto dire se ore o minuti, ma quando tornò in sé, le parve che per le sue vene, per i suoi muscoli, per i suoi nervi, passasse come una serenità improvvisa. Le pareva in quel sonno di essersi rinnovata. Scomparso il tremor delle mani, scomparso il martellare delle tempie. I suoi pensieri erano liberi, calmi. Si alzò, guardò il malato, lo vide tranquillo. Allora uscì fuori, cercò della signora Aureli.
C’erano tante cose da fare. Tutto il solito ritmo delle occupazioni benefiche. Ella vi attese tranquillamente. A un certo punto disse tranquillamente alla signora:
– Vo di là dal malato. Può aver bisogno di qualche cosa.
E se ne andò col suo passo tranquillo, leggero; lo stesso passo che tante volte nella vita l’aveva portata verso la sua frivolezza.
Il malato posava sempre, senza sofferenza. Quello era il pericolo, quella era la morte? Non avevano un aspetto pauroso. Anzi nel sonno egli pareva sorridere, e le sue labbra mormoravano ancora. Dicevano: «Da bere?» No, Ella si chinò, intese. Diceva:
– Mamma...
Allora ella si rimise a pensare. Avrebbe anch’essa chiamata sua madre così? Forse. Chi altri, se non lei? Ma ella non aveva mai sentito nel suo cuore l’affetto prorompente, soverchiante, l’affetto che empie ogni vena e ogni idea. Ella non aveva mai amato nessuno. né sua madre, né suo marito, né altri. Allora?
Suo marito, che faceva adesso? Era sempre al fronte? Ella non ne aveva più saputo nulla, non aveva più voluto saperne nulla. Eppure, che era intervenuto fra loro due? Ed ella aveva ceduto così presto alle suggestioni del suo ambiente, dando a sé stessa, come pretesto della sua azione, qualche piccolo torto che le era stato fatto. Incapace di considerare le cose da un punto più alto, e il dovere da un punto di vista più nobile, ella aveva creduto di essere nel diritto e nella giustizia quando aveva usato contro gli altri tutta la severità che non impiegava contro sé stessa
E ora? Sola; era sola. Non dando affetto, non lo aveva trovato intorno a sé. Era giusto, questo. E invano ella protendeva la mano a cercare un conforto. Non lo trovava più.
– Signora! Il telefono...
La chiamavano? Chi? Una voce dal mondo dei vivi, dei liberi? Ella si alzò, andò di là all’apparecchio, tese l’orecchio, rispose:
– Mamma, tu?!
Una voce inquieta, tremante, commossa. Ella non la riconosceva quasi. Non aveva mai sentito quella voce a sua madre. E il suo cuore batteva come di gioia, come in ritrovare qualcuno che si credeva perduto...
– Nannì, ho saputo adesso. Sono in uno stato... Ma non sarà nulla, vero? Dimmi che non sarà nulla, eh? Quando torni? Quando posso venire io?
Venir lei?! Sua madre, che si spaventava di una pipita alle unghie, parlava di venire? Ma che cosa l’aveva cambiata così?
– Ma ti assicuro... Non c’è nessun pericolo! Stiamo tutti benissimo. Una semplice precauzione, qualche ora di osservazione...
La madre seguitava, e diceva che si sarebbe raccomandata a Tizio, a Sempronio.
– Mamma, non far nulla, ti prego. È il mio dovere!...
Quelle parole stupirono lei stessa mentre le pronunciava. Le parvero di un’altra. E dall’altra parte l’affetto saliva, un affetto di tanti anni, sopito, ridestato adesso da quell’occasione nuova.
– A domani, a domani! Ti ritelefonerò stasera. Mi ridarai notizie. Un bacio, Nannì. Ah! senti...
Che c’era ancora? E lentamente, ingarbugliandosi, la madre raccontò. Era arrivata una lettera di lui, del marito, dal fronte. Diceva che era stato ferito gravemente; che era all’ospedale di... E lasciava capire che una visita…
– Eh! Capisci? Te lo riferisco per debito di coscienza. Ha scritto a Gusti, sai; il tuo tutore. Ma adesso, si ricorda! Adesso! adesso che ha bisogno di te... Bel tomo!
Il rancore della suocera vinceva adesso le preoccupazioni della madre. Ma Anna Maria la faceva tacere, istintivamente.
– No! no! Non dire così!...
– Che?! Non è un bel tomo, forse?
– La lettera! Fammi mandare la lettera, subito.
– Ma...
– L’aspetto stassera... Hai capito?
Sì: aveva capito. Un mugolio lo affermò. Poi, drin, la comunicazione fu tolta; e Anna Maria uscì dallo sgabuzzino...
 
III

E allora fu come se veramente avesse lasciato là, tra quelle quattro pareti strette e scure, la sua anima antica. Tornò di là, andò nella stanza del malato, rincalzò il letto, tranquilla. Il crepuscolo era sceso, con ombre leggere e calme. Contro i vetri il crepuscolo stampava una sua luce rosea. Ella si sentiva così bene, benché non avesse mangiato in tutto il giorno. Questo pensiero la fece sorridere. Si sedette, cercò la sua cartella da scrivere, e cominciò, come se scrivesse a sé stessa, come se tracciasse una lettera ideale ed inutile, così, per passare il tempo...
«Caro Giulio. Sono contenta che tu abbia fatto il tuo dovere: come sono contenta che tu sia ora fuori di pericolo. Io continuo la mia solita vita: e mi duole di non poter fare di più. Ma ognuno dà quel che può, non è vero? Non so se la mia vicinanza ti potrà far piacere. Se sì, verrò, non appena la mia salute me lo permetta. Cioè presto, il più presto possibile. Per ora, ti abbraccio, con tutta l’anima... A rivederci, mio caro…».
Stette un momento in forse. Voleva aggiungere qualche cosa: poi pensò che la lettera non sarebbe partita che l’indomani; e ch’ella aveva tempo.
Infatti, l’indomani ella poté aggiungere in un poscritto contraddittorio:
«La mia salute è buonissima. Posso partire appena tu mi avrai telegrafato. Sono impaziente…».
La morte, accanto a lei, si era dileguata con passi leggeri: con passi leggeri le era venuta accanto la nuova sua vita.