L’Illustrazione Italiana, 2 luglio 1916
La lettera aspettata
– Nulla per me? nulla per me? – ripeteva Gostino. – Ce n’è per tutti!
E distribuiva lettere e cartoline. Le mani tese afferravano in fretta il tesoro; si formavano qua e là dei nuovi capannelli; qualcuno correva via scalpicciando nella polvere. Quando Gostino chiudeva la borsa e terminava la distribuzione con la solita frase «e per oggi non c’è altro» rimanevano sempre intorno a lui dei visi scontenti.
– Guardate bene, Gostino... – mormorava una voce.
– Ma dove volete che guardi? Non c’è altro, lo so! Andiamo, via, c’è bisogno di far cotesto viso? Per voi ci sarà domani un bel letterone di quattro pagine!...
A domani, a domani!
Gostino agitava il berretto e riprendeva a salir l’erta di buon passo, con la borsa gettata sulle spalle. I sassi ruzzolavano di sotto ai suoi scarponi ferrati. Tutt’intorno fremevano le fogliuzze degli olivi nel vento lieve; la vampa del sole pareva pur muoversi in quel soffio come un respiro infocato. Nei campi, tolto quel fremere degli olivi, era un silenzio grande. Cosi il ruzzolare dei sassi sotto gli scarponi diveniva uno scroscio continuo. Gostino pensava alla sua gita. Avrebbe voluto essere nel medesimo tempo in tutti i casolari che l’aspettavano; e invece li vedeva disseminati qua e là nella conca delle colline, macchie bianche, macchie grigie, tetti rossi, colonnette di fumo.
Sapeva a memoria le case che non l’aspettavano più, perché già avevano accolto i pianti dell’ultima sventura; scorgendole si sentiva prendere dall’ira; gli sembrava che ognuna di quelle case segnate dalla croce ricordasse una sua sconfitta; gli pareva di aver l’impegno di recar a tutti le notizie dei figli lontani, e soffriva riconoscendo le diminuzioni che la morte arrecava giorno per giorno all’impegno preso.
Spesso per inoltrarsi verso una casa abbandonava la strada e camminava lungo una proda erbosa; più lentamente allora, col fazzoletto rosso che passava e ripassava sulla fronte sudata, e gli occhi perduti nel grigiore degli olivi.
Il tintinnìo di una marra sui sassi smossi squillava e si diffondeva, con pause brevi. Gostino si concedeva un riposo, seduto sull’erba della proda, con le gambe ciondoloni. Allungava una mano e coglieva una susina da un ramo carico che gli pendeva sulla testa. Le susine avevano il medesimo sapore di tutti gli anni; e questo solo bastava perché saltasse nuovamente in piedi, con una gran voglia di correre per tutta la sua gita e dispensare in un colpo tutte quelle lettere che parlavano di guerra e di vittoria.
Ma una voce lo fermava, mentre la marra lontana taceva:
– Ohè Gostino! Che c’è di nuovo?,
– Sempre avanti!
– E il vostro ragazzo?
– Sempre sano!
– Evviva!
– Addio!
Si affacciava su un’aia; il cane bianco abbaiava a festa e gli veniva incontro scodinzolando; i ragazzi, le donne erano sull’uscio, una si staccava di corsa...
Alla parrocchia, dove arrivava con la borsa quasi vuota, faceva una sosta più lunga; perché il priore gli offriva un bicchiere di vinello e discuteva con lui le notizie della giornata. Il parere di Gostino era sempre il medesimo: «Vinceremo, perché la nostra guerra è santa, e poi perché... vinceremo».
Il priore l’accompagnava sul sagrato nell’ombra degli olmi rotondi. Si vedeva di lassù tutto il digradare delle colline fino al torrente bianco, fino alla striscia verde d’acacie che segnava la via ferrata, fino alle dieci case del borgo schiacciate sotto il sole.
– E tutta questa povera gente che non sa nulla, – diceva Costino con un gesto largo, – è del mio parere.
– Che Dio ci assista! – concludeva il priore.
– E perché no? – chiedeva Gostino con un sorriso. E continuava ad arrampicarsi aiutato dal vinello.
Poi le foglie ingiallirono. Vi fu la silenziosa aratura e la triste vendemmia. Le olive incominciavano ad annerire.
Gostino saliva con lo stesso passo; ai bordi della strada gorgogliava l’acqua trasportando fuscelli neri e foglie gialle.
Veli di nebbia calavano, si distendevano, si perdevano in un soffio di vento, con un pulviscolo d’acqua. A momenti i tronchi degli alberi, i ciuffi della siepe, i mucchi dei sassi si incupivano, parevano carichi d’ombra, solidi come non mai; e a momenti si distendevano in un chiarore bianco, sembravano prossimi a svanire con la nebbia in un raggio di sole.
Gostino cantava. La sua voce, subito smarrita nell’ampiezza, martellava il ritornello di vecchie canzoni, arie di marcia che rievocavano giorni lontani.
Quando a Milazzo
passai sergente
camicia rossa
camicia ardente!
La voce si spegneva solamente a un certo punto della strada, quando la casa di Nando era in vista. Allora Gostino rallentava il passo; non avrebbe voluto andar innanzi, perché sapeva d’incontrare una povera donna appoggiata al cancello, che gli avrebbe chiesto con gli occhi quanto non le avrebbe potuto dare.
La donna era lì, quasi nascosta, con gli occhi fissi che saettavano. Gostino faceva un cenno di testa, appena appena, e la donna intendeva. Ma non andava via; si avvicinava anzi e parlava piano con parole quasi sempre uguali.
– Che sarà, dite, Gostino, che sarà?...
Gostino sorrideva increspando tutte le sue rughe.
– Niente di male, – rispondeva, – le cattive notizie arrivan subito. Non l’avete sentito dire? Hanno fatto un’avanzata e si rafforzano sulle posizioni conquistate. Vi pare dunque che sia questo il momento di scrivere? Hanno altro da fare quei ragazzi!...
– Ma venti giorni sono così lunghi...
– Per noi che si sta qui ad aspettare e a rodersi son lunghi sicuro; ma lassù... lassù non ci son lunari... e certe settimane fanno una giornata sola...
– Avete ragione...
– Ho ragione, sicuro. Anche il mio ragazzo non mi scrive da una settimana, e prima non mancava giorno Si sa; sono in guerra, e
ci son le variazioni...
I due si guardavano un momento, e si lasciavano. Dopo dieci passi Gostino si voltava indietro per gridare:
– O Rosa, ve la porto domani!
La donna accennava di sì con la testa, senza fiato e senza fede, e spariva dietro alla siepe.
La voce di Gostino cantava ancora lontana:
Quando a Milazzo
passai sergente
camicia rossa
camicia ardente!...
E una mattina Gostino arrivò vicino alla casa di Nando senza poter cantare da quanto aveva il fiato grosso. Quasi correva e agitava con la mano una lettera. Rosa lo vide, aprì la bocca per un grido che le restò in gola, fece due passi e si fermò perché le gambe le tremavano. Gostino era sopraggiunto e le offriva la lettera.
– Eccola! – disse in un soffio.
La donna l’afferrò, la guardò, la strinse al petto, e mormorò: «E lui!... è lui!...».
Poi aggiunse prendendo Gostino per la giacchetta:
– Venite dentro anche voi, venite... Ora mando a chiamare Tonino, è giù con le bestie…
Entrarono nella cucina bassa e nera. Da una finestrella sopra all’acquaio veniva una luce bigia; Gostino si sedette dinanzi alla porta, nel fascio chiaro che irrompeva di fuori. Aveva le gambe rotte per la corsa e badava a ripetere:
– Vedete se è arrivata... vedete...
Gli si erano fatti intorno tre bambini e una vecchia, che lo guardavano in silenzio. Rosa tornò di corsa con la lettera ancora stretta al cuore.
– Leggetemela voi, Gostino, – disse, – io non so leggere, e non posso aspettare...
– Volentieri... – rispose Gostino, e con gran cura inforcò i suoi occhiali di ferro.
Aprì la busta, spiegò il foglietto. Sì; erano proprio i caratteri di Sandro.
– Via! – supplicò la madre.
Gostino si piegò, per vederci meglio e cominciò a leggere lentamente.
«Miei cari genitori,
«Vi faccio sapere che mi trovo sano e salvo dopo un grandissimo combattimento che abbiamo ammazzato e fatti prigionieri un monte di tedeschi. Poi vi faccio sapere che io sto bene e mi trovo nelle nuove trincee conquistate…».
La voce di Gostino andava innanzi lenta e sicura; Rosa l’ascoltava guardando il foglietto che gli stava fra le mani, trattenendo il respiro.
– «Poi vi faccio sapere e se lo vedete diteglielo con riguardo che il figliuolo di…».
E la voce che leggeva si spezzò di colpo, e la lettera cadde sui mattoni.
Gostino si portò le mani alla fronte, le tese innanzi tremanti, come per riprendere la lettera, bianco, senza sangue più.
– Gostino!... Gostino, che è successo?...
Il vecchio non parlava; roteava gli occhi dietro i vetri.
Nessuno fiatava più.
Infine il vecchio con un grande sforzo inghiottì la saliva e disse:
– Che dolore!... me l’hanno ammazzato! me l’hanno ammazzato il mio figliolino, che dolore!...
Vi fu un attimo di silenzio compatto come pietra. Poi un ragazzo da un angolo buio cominciò a piangere disperatamente.