L’Illustrazione Italiana, 2 luglio 1916
Un bel tipo d’i. r. censore
Se il ricordarlo qui con indulgenza dovesse procurargli noie da parte de’suoi aulici superiori ci sarebbe d’averne scrupolo; quell’eccellente funzionario dell’i. r. polizia a Trieste merita infatti qualche riguardo, anche se egli, per necessità d’ufficio certo più che per difetto di buona volontà, non ne abbia sempre avuti per noi; né d’altronde lo si poteva esigere.
Sia come si sia, un bel tipo davvero questo stiriano puro sangue trapiantato sulla terra di San Giusto e destinato a percorrervi tutta la sua carriera, se pure gli odierni avvenimenti non l’abbiano sbalzato lontano con quale suo grande dolore può solo immaginare chi lo conobbe da vicino.
Non uomo d’azione, ma d’ufficio, il commissario Ziegler non vestiva l’uniforme che nelle solennità imposte; si può quindi giurare che la sua sciabola dall’impugnatura d’ottone e di madreperla è ancora incruenta e che le sue mani ossute non hanno mai pescato nel... torbido.
Anzi egli era – se il termine regge riferendoci, s’intende, ai tempi in cui eravamo alleati – un amico delle sue necessarie vittime: gli autori, i comici e i giornalisti, poiché a lui era affidato il delicato – secondo i modi d’intenderlo – compito della censura. E come censore il commissario Ziegler era diventato una istituzione; aveva anche assunto un caratteristico aspetto che quasi lo faceva indovinare. Le fedine tra il bigio e il grigio alla Franz Joseph, come ogni funzionario austriaco che si rispetti, il naso adunco che i caricaturisti attribuiscono a madama Anastasia, i piccoli occhi tra il giallo e il verde natanti in una specie di nebbia, la bocca sottile, la persona magra e nervosa, il cappello duro a mezza tuba, l’abito di rigore con qualche frittella; egli non amava mostrarsi troppo in pubblico, preferiva rintanarsi in fondò a qualche birreria o là dove il vin d’Opollo, l’istriano e il dalmato fossero più raccomandabili.
Aveva le sue amenità, le sue fobie e le sue simpatie; ma sopratutto era – data la sua non facile mansione – un funzionario in perfetta buona fede. La nostra guerra lo deve aver turbato profondamente; egli era fisso nel pensiero che gli italiani, salvo qualche loro matta idea, e i tedeschi dell’Austria potessero viver passabilmente d’accordo.
E agli italiani aveva imparato a voler bene a furia di censurarli: tutta la nostra odierna letteratura era passata sotto il vaglio de’suoi occhi e qualche cosa gli era pur rimasto appiccicato al cervello, sfrondandolo dei suoi pregiudizi di razza e ammorbidendone la pedanteria. Perciò era diventato quasi un competente, conoscendo la nostra prosa e la nostra poesia meglio di qualche professore di lettere. Vissuto tra il Carducci e il Trilussa, tra Giacinto Gallina e, per citar l’ultimo giunto, Sem Benelli, leggendoli attentamente per separare gli innocui dai pericolosi, aveva finito con l’interessarsene, col gustarli e qualche volta, persino, con l’entusiasmarsene.
Anni sono, il Pascarella essendo capitato a Trieste, durante uno de’suoi viaggi pedestri, il giornale Il Piccolo approfittò della circostanza, per raccogliere nelle sue sale le più spiccate personalità e i numerosi ammiratori del poeta, che rispose alle feste fattegli recitando alcuni de’suoi versi romaneschi. Immediatamente il direttore del giornale è chiamato in polizia quale contravventore del paragrafo n. 2 sulle riunioni pubbliche e private. Facilmente vien dimostrata l’infondatezza dell’accusa, non trattandosi di riunione politica e il direttore conclude recitando qualche sonetto del Pascarella che aveva ritenuto a memoria. L’attenzione dello Ziegler ne fu tutta presa, e a un tratto questi, picchiando un gran pugno sulla scrivania e ribaltando il suo caffè mattutino, gridò col più grande candore: – Ciò, la dovevi invidarne anca mi a sentir de sta bella roba.
Perché lo Ziegler, come tutti gli stranieri, funzionari o no. ospiti di Trieste, aveva adottato il molle dialetto veneto o meglio l’aveva adattato alla sua dura pronuncia tedesca.
In ottimi rapporti con tutti i segretari di compagnie drammatiche che andavano a sottoporgli i copioni, con tutti i capicomici che dovevano discutere con lui sulla opportunità di qualche taglio e anche di qualche divieto, costoro potrebbero narrare una fioritura di gustosi aneddoti in proposito.
Il nostro commissario frequentava volentieri i palcoscenici, non per fare la corte alle attrici, o per controllare l’osservanza delle sue manipolazioni, ma perché realmente s’interessava di quel mondo curioso e ci viveva un po’.
Siccome i regolamenti austriaci escludono assolutamente dalla scena l’abito talare e tutto quanto si riferisce alle pratiche del culto cattolico – fu fatta una sola eccezione per il primo atto della Tosca del Puccini con relativa processione cardinalizia – cura speciale dello Ziegler era quella di trasformare i sacerdoti del dramma o della comedia in altrettanti maestri di scuola o, alla meno peggio, in pastori luterani. Essendosi annunziata nuova La casa del sonno del povero Bertolazzi, recentemente scomparso, lo Ziegler trovò a ridire sul finale del primo atto, che rappresenta la patriarcale famiglia raccolta a recitare il rosario; egli aveva dato di frego alle battute dell’Ave Maria, su cui cala la tela e sulle quali appunto è basato l’effetto.
L’autore stesso, che si vedeva guastato anche il concetto rappresentativo, tentò tutti gli argomenti per farlo recedere da tale misura; ma lo Ziegler ostinato continuava a ripetere: – No se pol, no se pol. – E, per convincere definitivamente il Bertolazzi della necessità del taglio, aggiunse: – Recitar el rosario in comedia no se pol; me dispiase, ma xe cussì. A mi, par esempio, importa gnente de tutte Ave Marie, perché mi son protestante; ma Austria xe cattolica e bisogna far come voi ela. Mi son gua per servir Austria no per far piacer a mi e a chi scrivi.
E fu irremovibile.
Nel Dovere d’umanità la battuta del medico, il quale si ubriaca per stordirsi e dice al curato che ne lo rimprovera: – Eppure Cristo lo chiamava suo sangue – fu dallo Ziegler mutata, evidentemente con profonda cognizione di causa, in: – Eppure fa fare buon sangue.
Oh, ne doveva aver molto di buon sangue lo Ziegler; egli non avrebbe mai esitato fra un sorriso di Lyda Borelli e un bicchiere di Valpolicella. Forse per questo rimpiangeva la perdita del Lombardo-Veneto e amava l’Italia.
Non che perdesse mai l’equilibrio, ma qualche volta, specie nelle ore piccine, le sue idee non eran sempre chiare. Ed è appunto in quei non lucidi intervalli che si rivelava il fondo mite del suo animo. All’epoca dei moti del febbraio 1902, quando, in seguito ad un movimento economico in cui le autorità vollero vedere lo zampino dell’irredentismo, era stato decretato lo stato d’assedio e sospese le poche libertà costituzionali, i giornali ebbero l’obbligo di sottoporsi alla revisione della polizia prima di uscire in pubblico. Alle due del mattino il direttore di un giornale italianissimo si mette alla ricerca del commissario Ziegler che doveva accompagnarlo dall’immediato superiore consigliere Kersich, cui-era affidata la revisione. Non falla dirigendosi in una birreria, l’unica autorizzata a rimaner aperta la notte per il servizio dei funzionari; egli è là immerso in solitarie elucubrazioni fra una mezza dozzina di «krügel». Montano entrambi in vettura e, strada facendo, lo Ziegler butta le braccia al collo del direttore, inaffiandolo di lacrime e singhiozzando: – No vogio che impicchi ela e Bergamo. Fin che sarò qua mi nissun se impicca.
Bergamo era il capo dell’esiguo ed innocuo gruppetto anarchico triestino e lo Ziegler, con un impeto di sincera umanità, lo affratellava col nazionalista sotto la sua protezione.
Per fortuna allora, dopo la strage compiuta dalla fucileria della «landwehr» per le strade e per le piazze della città, anche il paterno regime aveva capito che non era più il caso di tirar fuori la forca.
Nei tempi normali la censura dei giornali locali era stata sottratta alla competenza dell’autorità di Polizia per affidarla a quella giudiziaria; ma allo Ziegler era rimasta la sorveglianza sui giornali regnicoli. Questi, come pure le gazzette locali, all’epoca delle nostre dimostrazioni di protesta per le teppistiche aggressioni contro gli studenti italiani ad Innsbruck e per la insoluta questione della Università a Trieste, circolavano impunemente con le cronache degli avvenimenti, le grida contro l’Austria, i fischi e i tumulti sotto il Palazzetto di Venezia a Roma, lo strappamento degli stemmi dagli i. r. consolati, ecc. Solo il Corriere della Sera veniva reiteratamente sequestrato con meraviglia generale, e siccome in Austria i ripetuti sequestri portano di solito alla sospensione della circolazione postale per epoche indeterminate – ben lo sanno parecchi nostri giornali, specialmente i radicali – il corrispondente triestino del Corriere sollecitato dal suo direttore, si reca dallo Ziegler per conoscere i motivi di quel trattamento straordinario. L’eccellente funzionario lo riceve col suo miglior sorriso in quello stanzone terreno del palazzo di Polizia che gli serviva da gabinetto, fra un ingombro di carte, di protocolli e di giornali d’ogni tempo e d’ogni colore.
– Mi no son obligà – risponde alla richiesta del visitatore – a dirghe perché tuti passa e «Corriere» no passa. Ma lei xe amico e la contento subito. La lezi qua. – E stendendo il dito ossuto su alcune linee contrassegnate dalla matita blu, legge: – «I dimostranti gridano morte all’Austria e viva Oberdan». – Quindi, sferrando il suo solito pugno sulla scrivania, aggiunge: – Finche i ziga «morte a l’Austria» importa gnente, perché Austria no mori l’istesso. Ma «viva Oberdan» xe apologia delitto contro sicurezza dello Stato e mi sequestro.
Infatti il solo Corriere aveva avuto l’imprudenza di raccogliere nelle sue cronache quel grido che fa inorridire ogni fedele suddito del sacro apostolico impero. Piuttosto cento inni di Garibaldi; e a onor del vero, per lo Ziegler, contrariamente all’opinione austriaca, Garibaldi era rimasto ancora una brava persona. Ripetiamo, egli aveva delle simpatie per gli italiani, malgrado le loro irrequietudini, malgrado le loro intemperanze nazionalistiche, malgrado i loro sospiri verso l’altra sponda; e se talvolta era costretto di muovere censurescamente in guerra contro di essi non era in odio loro, ma per la propria pace. Ah, Trieste benedetta, ci si stava tanto bene!
Se aveva un odio era contro gli sloveni, gli s’ciavi come li chiaman là; quelli sì li avrebbe soppressi volentieri dal primo all’ultimo se fossero stati altrettante righe stampate.
Certi suoi giudizii confidenziali sull’opera di propaganda slovena, favorita in tutti i modi dalle i. r. autorità, esponente supremo il governatore Hohenlohe, sono feroci. Auguriamogli di non aver altro di feroce sulla coscienza, perché bastan quelli per metterlo in conflitto, quando cercherà il suo posto in paradiso, coi santi Cirillo e Metodio, protettori di tutto il movimento slavo nell’Austria. Vedeva anche lui il pericolo di quella politica che un giorno sarebbe riuscita a danno dello stesso germanismo.
Nel vasto politeama Rossetti, una compagnia ungherese d’operette rappresentava lo Zingaro barone sventolando al finale del secondo atto la bandiera nazionale che è pure bianco-rosso-verde, salvo la disposizione in senso orizzontale dei colori; il che serviva ogni sera d’ottimo pretesto a grandi acclamazioni che andavano significativamente a un altro sospirato tricolore.
– Che mati! – borbottava lo Ziegler – no i capisse che s’ciavi e ungaresi xe quei che porterà via Trieste e Fiume.
Auguriamoci che il suo pronostico non s’avveri e chi sa che, a scongiuro di quell’avvenire, non rincorino lo stesso buon commissario il rombo delle cannonate che vien dal mare e lo scoppio delle bombe che vengono dal cielo.
Però un’altra previsione, molto più logica benché involontaria, ha fatto lo Ziegler, e teniamogliene conto. Quando vigeva ancora, tra le incertezze e le ansie dell’ex-alleata, la neutralità italiana, una scrittrice triestina che doveva recarsi a Firenze portò dallo Ziegler i suoi passaporti per la vidimazione e chiese: – Dovrò poi farli vidimare anche dal console austriaco? – intendendo da quello a Firenze. Ma, fraintese lo Ziegler che, senza stupore, con la più grande naturalezza le osservò: Per adesso a Trieste no xe ancora consoli austriaci.
Ancora no, ma è la candida ammissione che vi potranno essere un giorno non lontano. Grazie, non desideriamo di più da un rappresentante della usurpazione austriaca.