L’Illustrazione Italiana, 25 giugno 1916
Nel cinquantenario di Custoza 1866-1916
L’alleanza con la Prussia
Nessuna più bella commemorazione cinquantenaria della battaglia del 24 giugno 1866 potevano fare gl’italiani di quella che ora fanno – lottando ancora – con l’armi in pugno – dopo cinquanta anni, contro il medesimo nemico.
Soltanto coloro che videro e vissero quei giorni possono dire quali furono e quante le impazienze, le inquietudini, le ansie, perché alle annessioni gloriose o fortunate del 1859 e del 1860, per formare un Regno Italiano – proclamato a Torino il 14 marzo 1861 – venissero ad aggiungersi la Venezia e Roma.
La questione di Roma era stata posta nettamente da Cavour davanti al Parlamento italiano nel 1861 – Roma doveva essere la capitale irrecusabile del Regno d’Italia – ma il momento risolutivo per la «questione romana» doveva essere lasciato all’avvenire più lontano.
Più urgente, e da risolversi più prossimamente, era la questione della Venezia; e come l’armi e l’animo non potevano, per la giovinezza del nuovo Regno, bastare da soli all’impresa, il gran conte, negli ultimi mesi della sua vita radiosa, pensò all’alleato naturale della nuova Italia – la Prussia.
In fatti, quando, nel gennaio del 1861, quegli che fu poi l’imperatore Guglielmo I salì al trono reale di Prussia, Cavour fece mandare dal re Vittorio Emanuele a Berlino il generale Alfonso Lamarmora in speciale missione presso il nuovo re prussiano «in segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione Germanica» ed il grande ministro diede preciso incarico al Lamarmora di «stringere più intime relazioni tra i Gabinetti di Torino e di Berlino e di preparare il terreno ad una futura alleanza fra l’Italia e la Prussia contro l’Austria».
Nel febbraio di quel medesimo anno 1861, Giuseppe Mazzini, in una «lettera ad un tedesco» diceva ai tedeschi: «Lasciateci compire la nostra unità, e fondate la vostra. A noi bisognano, per essere Nazione, Roma e Venezia: aiutateci coll’espressione unanime dell’opinione a emancipare la prima: separatevi dall’Austria nella contesa, inevitabile tra essa e noi, per la seconda. A voi bisogna, per conquistare la vostra unità, liberarvi dal dualismo rappresentato dalla monarchia d’Austria e di Prussia, e ricorrere al popolo, solo elemento unitario e veramente Germanico. Noi v’aiuteremo a liberarvi dalla prima... Abbiamo un nemico comune, combattiamolo uniti».
In quel medesimo febbraio 1861 – e precisamente il giorno 5 – Giorgio di Wincke proponeva alla Camera prussiana, che – malgrado la contrarietà del governo – l’approvava con 159 voti contro 146 – una mozione dichiarante «non dover riguardare come un interesse prussiano o tedesco il fare opposizione ai progressi del consolidamento dell’Italia».
Questi i germi di quell’alleanza italo-prussiana, che, attraverso molte vicende, venne, per l’evidente identità degl’interessi, maturando. Cosi, quando, nel dicembre del 1862, Ottone di Bismarck – presidente, da tre mesi, del ministero prussiano – fece chiedere al governo italiano (nuovo ministero FariniPasolini) «quale sarebbe stato il contegno dell’Italia in una guerra tra la Prussia e l’Austria» ne ebbe, naturalmente, per risposta che «dell’Italia non potevasi dubitare che sarebbe stata coi nemici dell’Austria».
Non è possibile, in questo breve articolo commemorativo, fare tutta la storia di intricate trattative diplomatiche durate ancora cinque anni, e che possono riassumersi così:
lavorìo dell’Italia per arrivare per ogni via, o con azione diplomatica soltanto, od anche con azione militare, al possesso della Venezia:
azione assidua di Napoleone III, imperatore dei francesi, a procurare all’Italia la Venezia evitando la guerra, possibilmente, ma pur cercando che fra Prussia ed Austria avvenisse contrasto e distacco;
lavorìo di Bismarck ad adoperare verso l’Austria lo spauracchio dell’Italia per ottenere i ducati Elbani ed altre concessioni;
armeggiamenti dell’Austria per intendersi con l’Italia ad evitare che questa s’intendesse con la Prussia.
I «ducati Elbani» qui sopra accennati erano stati tolti, con azione militare comune, dalla Prussia e dall’Austria, nel 1864, alla Danimarca, e per trattato erano poi stati occupati da guarnigioni miste austriache e prussiane – donde tra i due condòmini incessanti dissidii, cresciuti, nel giugno del 1865, a tal punto, che la guerra venne effettivamente messa sul tappeto nei reali consigli prussiani, ed il conte di Usedom, ministro di Prussia presso il governo italiano – che si era appena insediato a Firenze – chiese al presidente dei ministri e ministro degli esteri, Lamarmora, «se, scoppiando le ostilità tra Prussia e Austria, l’Italia avrebbe colta l’occasione per scendere in campo a liberare la Venezia».
Lamarmora era salito al potere nel 1864, ed aveva già trovate iniziate le trattative con la Prussia per un trattato commerciale, concluso nel marzo 1865, e concernente tutti gli Stati della Lega doganale germanica, compresi la Sassonia e la Baviera che, fino a quel momento, non avevano ancora riconosciuto il nuovo Regno d’Italia. Tale trattato commerciale aveva segnato un gran passo verso gli accordi politici italo-prussiani; in riguardo ai quali il primo ministro Lamarmora – alla domanda del conte di Usedom – se l’Italia sarebbe scesa in campo contro l’Austria qualora la Prussia avesse rotto in guerra – era rimasto – un poco sinceramente, un poco calcolatamente – perplesso a rispondere, malgrado «l’interna soddisfazione provata per un evento così favorevole ai destini italiani».
In realtà Lamarmora dubitava di Bismarck, che, in sostanza, era, nella sua istintiva scaltrezza, brutalmente sincero: temeva di disgustare Napoleone III, non comprendendo che, alla fin fine, l’alleato del ’59, uniformandosi agl’interessi francesi, non era eccessivamente preoccupato allora di un’eventuale rottura fra le due monarchie tedesche: pensava alla convenienza di ottenere la Venezia senza guerra.
Questo stato d’anima del Lamarmora non cessò, si può dire, mai, nemmeno quando, nel marzo del 1866 mandò a Berlino, a richiesta di Bismarck, il generale Govone, in aggiunta al ministro plenipotenziario Barral, a trattare definitivamente con la Prussia per una convenzione, se non per un trattato.
Lamarmora era uomo semplice, di mediocre levatura, di circoscritta coltura, di animo leale, fiero, onestissimo, rifuggente per istinto dalle sottili arti ed inevitabili scaltrezze diplomatiche – nelle quali Cavour era stato grande maestro, e Bismarck non stava molto indietro da questi – onde si comprende com’egli rifuggisse da tutto ciò che potesse parergli inganno e sempre inganni temesse.
Il ministro d’Italia a Berlino, Barral, non era di valore tale da lottare con Bismarck e da poter far valere sul Lamannora la propria autorità. Lamarmora aveva due lucidi, accorti e coscienziosi informatori – il generale Giuseppe Govone a Berlino, e Costantino Nigra a Parigi; ma nemmeno questi riuscivano a vincere l’indole dubitosa del soldato biellese, che non aveva nessuna larga, geniale visione, e solo sentì, un po’tardi, l’effetto della non dubbia propensione di Napoleone perché un accordo fra Prussia e Italia avvenisse – accordo a cui Bismarck teneva oramai decisamente, tanto che egli stesso aveva già detto al re Guglielmo – contrario all’alleanza italo-prussiana – la frase caratteristica – ripetuta poi a Nigra: «se l’Italia non ci fosse, bisognerebbe inventarla».
C’è tutta una biblioteca, oramai, sul periodo di quelle trattative laboriose, lente, incerte nelle quali il Trentino prima fu – come lo stesso Barral, e il Lamarmora – e più il generale Govone ed il colonnello Driquet, suo aggiunto, insistentemente proposero – compreso «fino alla cresta della Alpi» fra i territori che 1’Italia doveva pretendere dall’Austria: poi fu escluso, avendo il conte di Barral accettata la pretesa prussiana che «facendo parte il Trentino della Confederazione Germanica, era impossibile stipularne fino da ora la cessione all’Italia: ma quello che non si sarebbe potuto fare avanti la guerra, si potrebbe fare durante o dopo di essa, sopratutto rivolgendo un appello alle popolazioni».
Finalmente, come Dio volle, alla firma del trattato d’alleanza offensiva e difensiva, in Berlino, si arrivò l’8 aprile 1866.
Per esso l’Italia, dopo l’iniziativa presa dalla Prussia, doveva dichiarare, tosto che ne fosse avvertita, la guerra all’Austria, guerra che «sarà condotta con tutte le forze»; e la Prussia e l’Italia non concluderanno pace né armistizio senza mutuo consenso – che non potrà rifiutarsi, quando l’Austria avrà consentito a cedere all’Italia il Regno Lombardo-Veneto (che così ufficialmente denominavasi dall’Austria, anche dopo il l859, la Venezia) e alla Prussia dei territori equivalenti per popolazione (due milioni e mezzo, circa) al detto Reame». Il trattato spirerebbe tre mesi dopo la sua firma (8 luglio) se in questi tre mesi la Prussia non avesse dichiarata la guerra all’Austria. Il trattato rimase segreto: il 20 aprile divenne per le firme dei rispettivi sovrani definitivo, ed il 21 Bismarck presentò alla Dieta prussiana la tumultuosa proposta di «riforma federale del Parlamento tedesco» dalla quale egli ripromettevasi quella guerra all’Austria che re Guglielmo, le alte classi e la massa dei tedeschi indubbiamente non volevano; mentre in Italia Lamarmora, per molte e non tutte vane ragioni, avrebbe preferito ottenere la Venezia senza guerra.
Delle diffidenze sorte, per ciò, tra Italia e Prussia, malgrado il trattato, in tale situazione, conoscendosi, e qua e là, il rispettivo stato degli animi, tutte le storie sono piene.
Poi il testo del trattato provava che la Prussia – e ciò era provenuto dalle grandi difficoltà per Bismarck di piegare l’animo di re Guglielmo ai propositi di guerra – la Prussia non era impegnata ad entrare in campagna, né se l’iniziativa della guerra fosse presa dall’Italia, né se l’Austria avesse attaccato essa per prima l’Italia,
Comunque la situazione, oramai, bisognava prenderla quale essa era, e bisognava fidarsi di Bismarck, il quale – come il generale Govone scriveva da Berlino a Lamarmora il 2 maggio – camminava «con tutta la sua energia e la sua alta intelligenza verso il suo scopo, che è la guerra con l’Austria».
A Vienna si conoscevano i decisi propositi guerreschi del primo ministro prussiano, e si cercava di controperare ad essi trattando con Napoleone III, il quale, sempre amico dell’Italia, era arrivato ad indurre l’Austria a cedere all’Italia la Venezia «col patto che essa fosse lasciata libera di rifarsi sulla Prussia nella Slesia».
Certamente era chiedere troppo alla lealtà di un uomo come Lamarmora; e l’Austria ciò comprese, e quindi andò più oltre: essa non pose più per condizione se non che l’Italia rimanesse neutrale.
Il buon Lamarmora quando, ai 5 e 6 di maggio – mentre per le piazze d’Italia correvano le dimostrazioni acclamanti alla guerra – si sentì annunziare dal Nigra così grassi patti, ottenuti da Napoleone III, si sentì tutto rimescolare, e rispose al Nigra; «è una questione di onore e di lealtà non abbandonare la Prussia, tanto più che essa sta armandosi ed ha dichiarato a tutte le potenze che essa attaccherà l’Austria, se l’Austria ci attacca».
Le trattative erano segretissime; il generale Govone nel più grande mistero andò a Parigi a conferire con Nigra, e questi e Govone e Napoleone III medesimo riconobbero che oramai per l’Italia era questione di lealtà.
Bismarck, dal canto suo, vagamente informato da suoi referendari di tali trattative, si mise a trattare, segretamente anch’egli, con l’Austria, sulla base dell’egemonia prussiana sulla Germania del Nord, e dell’egemonia austriaca sulla Germania del Sud. Ringraziamo – oggi ancora – l’Austria, che fece passare tutto il maggio nelle trattative, finendo col non accettare le proposte prussiane. Le avesse accettate; e 1’Italia sarebbe rimasta sola di fronte all’Austria – sola, però, fino ad un certo punto, che 1’Inghilterra stava trattando per un Congresso, e Napoleone III, sempre coerente ed italofilo, aveva dichiarato netto che non avrebbe lasciata sola l’Italia.
Ma l’Austria fu ancora quella del’59: dopo tante sollecite profferte, fece fallire, il 1° giugno, il piano del Congresso europeo, pretendendo che si escludesse dalle trattative della diplomazia ogni combinazione che potesse procurare a qualsiasi degli Stati partecipanti al Congresso un aumento territoriale od un accrescimento di potenza; e volendo che al Congresso fosse invitato anche il Papa, tuttora sovrano temporale!...
Beata l’Austria!... Essa scatenava ancora la guerra, e la prevedeva per sé vittoriosa – e riusciva persino a far credere ciò anche a Napoleone III, il quale, il 6 giugno, stipulava con l’Austria trattato pel quale – qualunque fosse l’esito della guerra – la Venezia sarebbe stata ceduta ad esso Napoleone III per passarla all’Italia, impegnantesi a rispettare il piccolo stato del Papa!...
Con tale preparazione diplomatica arrivavasi, a metà giugno, a quella guerra per la quale l’entusiasmo, in Italia, era generale. «Il cuore mi batte – scriveva da Costantinopoli Emilio Visconti Venosta a Lamarmora, 1’8 maggio – in presenza dello spettacolo di concordia e di patriottismo che offre l’Italia»; ma non mancavano, anche fra i patriotti più provati coloro che, sapendo e della scarsa preparazione militare e navale, e della debole situazione finanziaria, e delle discordie personali fra Lamarmora e Cialdini, ribelle anche al re Vittorio Emanuele, ardente per entusiasmo e pieno di fiducia in sé stesso e nell’Italia – prognosticavano, con ansia patriottica, non bene, come Giovanni Lanza, che da Firenze scriveva a Michelangelo Castelli – il fido amico di Cavour a Torino – : «Io prevedo la bancarotta quasi certa e l’esito della guerra almeno assai dubbioso».
La battaglia di Custoza
Rotti i rapporti diplomatici fra Prussia ed Austria il 12 giugno, il 16 le truppe prussiane invadevano la Sassonia, l’Annover, l’Assia Cassel, aderenti all’Austria. In Italia le vibrazioni entusiastiche erano irrefrenabili. L’inno di Garibaldi «si scopron le tombe» risuonava in ogni più remoto angolo del Paese, con un entusiasmo che nemmeno il 1859 aveva veduto: un inno del vecchio poeta piemontese Angelo Brofferio.
Delle spade il fiero lampo
Troni e popoli destò:
Su, italiani al campo, al campo
È l’Italia che chiamò!...
col suo fiero ritmo tutti elettrizzava!
L’esercito italiano numericamente era più forte di quello che l’Austria contrapponevagli. L’Austria, d’altronde, sapeva che, quale che si fosse l’esito della guerra, la Venezia per lei era perduta: ciò che premevale era di schiacciare la Prussia. Così, aveva mandato a comandare l’esercito d’Italia l’arciduca Alberto, che non molto aveva studiato il teatro della guerra italiano, mentre il maresciallo Benedeck – del teatro italiano conoscitore profondo dai tempi di Radetzky – era stato mandato a dirigere la guerra contro i Prussiani, in Boemia, teatro da lui poco conosciuto.
Ai 20 giugno la dichiarazione di guerra del Re d’Italia veniva portata all’arciduca Alberto a Verona – tutta Italia acclamante.
Trovavasi in quel momento riunito sul Mincio un esercito italiano di 12 divisioni di fanteria (su tre corpi d’armata) ed una divisione di cavalleria – circa, in tutto, 101 660 baionette, 7074 sciabole e 282 pezzi d’artiglieria, sotto il comando nominale supremo del Re ed effettivo del generale Lamarmora, che, divenuto capo dello stato maggiore generale, aveva lasciato il potere politico, assunto in Firenze, con un nuovo ministero, dal barone Bettino Ricasoli. A fianco di Lamarmora, come aiutante generale, era il generale Petitti, capacissimo, che avrebbe potuto essere, egli, il capo dello stato maggiore generale, ma ai riguardi del Lamarmora non consentivalo la gerarchia, e, se anche Lamarmora avesse ciò ammesso, non l’avrebbe a nessun patto accettato Cialdini, che non voleva ordini nemmeno dal Re!... Il tanto esaltato vincitore di Castelfidardo e di Gaeta, soldato di molto valore indubbiamente, ma di carattere pessimamente orgoglioso, comandava il 2° esercito, raccolto sul basso Po, formato di otto divisioni in un solo corpo (63 795 baionette, 3503 sciabole, 168 pezzi da campagna e 186 da assedio). A questi corpi regolari aggiungevansi i volontari di Garibaldi (circa 32 000 uomini con 30 cannoni) destinati all’avanzata nel Trentino ed a tagliare agli austriaci della Venezia la strada del Tirolo.
Dal canto suo l’arciduca Alberto – a parte un corpo di circa 14 000 uomini con 24 cannoni (generale Kuhn) destinato ad operare nel Tirolo – disponeva di circa 71 000 baionette, 3000 sciabole e 168 pezzi di artiglieria.
Ai 20 di giugno, al momento in cui la dichiarazione di guerra dell’Italia veniva notificata all’Arciduca, l’esercito italiano del Mincio si trovava così dislocato nella zona fra il Mincio, fra le strade Brescia-Verona e Cremona-Mantova. Il 1° corpo d’armata (Durando, di anni 62) era a sinistra, sulla linea Rivoltella-Volta; il 3° corpo (Della Rocca, di anni 59) al centro, attorno a Goito; il 2°corpo (Cucchiari, anni 60) a destra sulla linea Gazzoldo Gabbiana; indietro, intorno a Medole, stava la divisione di cavalleria (De Sonnaz, di anni 38) e a Cremona il comando in capo d’artiglieria (Valfrè, di anni 58) e l’artiglieria di riserva.
Pei ponti, lasciati a bella posta intatti dal nemico, la mattina del 23 passarono il Mincio a Valeggio, Molini di Volta, Goito e Torre di Goito parte delle divisioni 1° (Cerale) e 5° (Sirtori) e la 3° (Brignone) del 1° corpo; e tutte le quattro divisioni del 3° corpo, e la divisione di cavalleria.
Cialdini era sul basso Po; e in un colloquio avvenuto il 17 giugno a Bologna tra lui e Lamarmora era stato convenuto che alle mosse del 1° esercito sul Mincio avrebbe corrisposto una mossa del 2° esercito sul basso Po. È difficile ancora oggi precisare sicuramente se quella sul Mincio doveva essere una dimostrazione o la mossa principale, o quella sul Po la mossa principale o una dimostrazione. L’Arciduca Alberto, saputo che gl’italiani avevano il 23 passato il Mincio – come il Re aveva egli stesso telegrafato la notte sul 23 al suo genero principe Napoleone – e calcolando che il 24 avrebbero marciato verso il medio Adige per dare la mano all’esercito di Cialdini sul basso Po, con un movimento ferroviario mirabile, organizzato dalla direzione da Padova, portò rapidamente tutte le sue forze sulla destra dell’Adige stesso, pei ponti di Pastrengo e di Verona, e le raccolse press’a poco sulla linea Castelnuovo-San Martino, dalla quale l’indomani, 24, marcierebbe all’attacco degl’italiani sul loro fianco sinistro, mentre questi marcierebbero verso il medio Adige.
L’esercito italiano aveva varcato il Mincio credendo che gli austriaci avessero rinunziato a difendere il paese fra l’Adige e il Mincio; ritenevasi all’alba del 24 al quartiere generale italiano – sebbene il Re non condividesse tale illusione – che gli austriaci fossero tuttora sulla sinistra dell’Adige. Per ciò gli ordini del quartiere generale italiano erano che due corpi d’armata si concentrassero a ponente di Verona su una linea distante dai 10 ai l5 chilometri dalla fortezza, da Colà, per Sandrà, Sona e Sommacampagna fino a Villafranca; il 1° corpo (Durando) a sinistra, a nord della ferrovia Verona-Brescia; il 3° corpo (Della Rocca) a sud della ferrovia stessa; una divisione del l° corpo doveva però rimanere sulla sinistra del Mincio per osservare Peschiera. Inoltre: il 2° corpo (Cucchiari) doveva badare ad osservare Mantova ed agire contro Borgoforte, e la divisione di cavalleria (De Sonnaz) doveva disporsi sulla destra del 3° corpo (Della Rocca) tra Villafranca e Mozzecane.
Così nella zona di terreno compresa tra Castelnuovo, Valeggio, e Sommacampagna avvenne inevitabilmente il 24 giugno, quello scontro, che fu una sorpresa per gli austriaci, e più ancora per gl’italiani!...
Fisso nell’idea che il 24 non si sarebbe combattuto, Lamarmora si recò di buon mattino da Cerlongo a Valeggio, accompagnato da un solo ufficiale di ordinanza. Vi arrivò alle 5.30 ed assistette allo sfilamento di parte delle truppe del 1° corpo d’armata fino a che, verso le 7, sentì tuonare lontano il cannone. Proseguì allora per Villafranca, dove già aveva divisato di recarsi; ma poiché, strada facendo, i colpi di cannone spesseggiavano e parevano venire da Verona, salì sul Monte Croce a vedere, e di là, scorgendo le antistanti colline di Sommacampagna brulicanti di austriaci subito riconobbe «con buonissimo intuito tattico (scrisse poi il Pollio) come fosse indispensabile occupare le alture di Custoza». Ordinò pertanto al generale Brignone, la cui 3° divisione sfilava lì presso per recarsi a Sona, di occupare Monte Torre e Monte Croce, ed al gen. Cugia (8° divisione) che da Rosegaferro marciava su Sommacampagna, di schierarsi a destra della divisione Brignone.
Frattanto – erano le 8 – il Re arrivava a Monte Croce. Lamarmora lo ragguagliò brevemente degli avvenimenti, ed il Re sentendosi dire da lui che gli austriaci erano al di qua dell’Adige, non poté trattenersi dall’esclamare: «Cosa le aveva detto io?!...» Lamarmora volle andare a verificare le cose anche a Villafranca: la trovò perfettamente sgombera dal nemico, mandò ordine – pare – alla divisione Govone (9°) di portarsi essa pure sulle alture; raccomandò a Della Rocca (3° corpo) di tenere fermamente Villafranca; poi passò in mezzo alla divisione Brignone (8°) trovando con sorpresa molto in disordine la brigata granatieri di Lombardia, il cui comandante, principe Amedeo, rimase ferito al petto da una pallottola austriaca rimbalzata. Lamarmora, assai turbato, rifece poi la strada di Valeggio, sperando di incontrarsi col Re; e fu ancora più impressionato dal disordine degli sbandati trovati per via ed a Valeggio. Perduta ogni serenità di visione, invece di ritornare sulle alture di Custoza ed assumervi la direzione del combattimento e strappare al nemico la vittoria, non pensò che alla ritirata, e si affrettò a recarsi a Goito – non erano che le 11 del mattino – a circa venti chilometri da dove si combatteva, mentre era ancora facile vincere!
In fatto verso le 11 – hanno scritto il colonnello Gonzaga ed il sen. De Sonnaz – malgrado tutte le illusioni, tutte le omissioni, tutti gli errori, la situazione italiana non era affatto disperata; anzi era assai migliorata rispetto a quando Lamarmora aveva lasciato Monte Croce. Non c’era che da alimentare con truppe fresche l’occupazione delle alture, e la vittoria sarebbe stata nostra. E truppe fresche ve n’erano molte a cominciare da quasi tutto il 3° corpo d’armata (Della Rocca). Costui, sollecitato dal principe Umberto, dal generale Bivio, dai bravissimi Govone e Cugia, che chiedevangli insistentemente rinforzi, e si battevano strenuamente sulle alture di Custoza, non si mosse, né lasciò che altri si movessero. Così, di fronte ad un estremo poderoso sforzo generale degli austriaci, fra le 4. 30 e le 5 pomeridiane, la ritirata dalle alture di Custoza si impose; e la giornata, che era cominciata a Villafranca, la mattina, con un vivo assalto degli ulani del Pultz contro l’ala destra italiana. onde le divisioni di Bixio (7°) e del principe Umberto ( 16.°) mentre stavano uscendo da Villafranca, avevano dovuto formarsi rapidamente in quadrati a distanza, e in un’ora avevano brillantemente disperso e respinto il nemico – la giornata finiva miseramente!...
«Da parte degl’italiani – ha lasciato scritto il generale Pollio – non vi fu nessun piano di azione; ognuno fece come poté» o come volle; Cerale, per esempio, non badò a difficoltà, occupò, come ne aveva ordine, Castelnuovo, e vi fu gravemente ferito, mentre il suo colonnello Villarey cadeva morto forzando il rialto di Oliosi; Dezza resisté fin che poté alle Maragnotte, poi si arrese, mentre Sirtori aveva dovuto retrocedere; e sulle alture il coraggio di Brignone, superato dal susseguente valore di Govone e di Cugia non valsero. Oramai sgombrata verso le 17.30 Custoza, il Della Rocca, che si era ostinato a lasciare i 24000 uomini delle divisioni che gli restavano fermi, immobili davanti a qualche migliaio di cavalleria austriaca, valse appena a proteggere la ritirata.
Nella giornata stessa del 24 e durante tutta la notte dal 24 al 25 tutte le truppe italiane – sebbene il Re Vittorio Emanuele – che aveva avuto nella giornata una costante chiarezza di visione – avesse mandato ordini precisi perché Valeggio fosse tenuta ad ogni costo, il che Sirtori non fece dicendo ciò impossibile – ripassarono il Mincio come poterono e come Dio volle. Oltre al Re, l’eroico generale Govone ed il generale Giuseppe Pianell, segnalatosi passando il Mincio, proteggendo la ritirata e mostrando colpo d’occhio sicuro, furono gli unici, dei comandanti dirigenti, degni di encomio e di ammirazione, in una giornata che Cialdini, nel telegramma col quale annunziava che non avrebbe più fatta la sua mossa sul basso Po, chiamò senz’altro, precipitosamente «un disastro» iniziando egli per primo la ritirata sull’Italia Centrale!...
Soli 50 000 italiani (invece di centomila e più che stavano sul Mincio) combatterono contro 70000 austriaci. Questi ebbero 5154 fra morti e feriti, e noi 3381: i prigionieri austriaci furono 1400, e 4000 i nostri. Con tutto ciò gli austriaci non pensarono né ad inseguimento, né a gridare vittoria; e senza lo sbigottimento del Lamarmora e la precipitata ritirata del Cialdini, gl’italiani il 25 stesso avrebbero potuto dare al nemico quella «bona raclee» che la sera stessa del 24 il Re animoso preannunziava al suo ufficiale d’ordinanza, duca Sforza Cesarini.
Custoza pesò sull’esito ulteriore della breve campagna; e sulla reputazione militare e politica degl’italiani. Si avvalorò in Germania il concetto che gl’italiani avessero svogliatamente combattuto, sapendo che, ad ogni modo, la Venezia l’avrebbero avuta lo stesso; una critica ignorante e settaria volle che tale fosse il sottinteso del Re, che fu invece – e i documenti lo provano ad esuberanza – il primo a vedere nettamente le necessità del momento ed eccitò all’azione decisiva ed alla riscossa; e mezzo secolo di politica diplomatica e militare italiana fu influenzato dalla sfortunata giornata di Custoza, il cui ricordo si può con serena fronte oggi rievocare – oggi che dallo Stelvio, al Trentino, all’Isonzo, al Carso, il valore e la preparazione degl’italiani ne fanno sul medesimo nemico degna rivendicazione!...