L’Illustrazione Italiana, 18 giugno 1916
Dite la verità
I.
– Il viaggio di ieri deve averti enormemente stancata, – disse il signor Massimiliano Delisi alla sua giovine sposa Fausta la mattina che seguì il loro ritorno dal viaggio di nozze.
Erano giunti la notte innanzi direttamente da Roma alla Villa dei Salici, una loro vasta casa di provincia un po’vecchia e un po’triste; e la signora Fausta, china a sorbire la sua cioccolata nella gran sala da pranzo grigia e fredda, s’avvolse con gesto molle nella sua vestaglia azzurra e assentì in silenzio senza guardare il marito.
Egli le stava ritto accanto e la osservava con attenzione fumando un interminabile avana.
– Davvero, sai, – insistette il signor Massimiliano, – quelle dieci o dodici ore di treno sono state per te disastrose. Questa mattina hai la faccia gialla come un limone.
Subito una lieve fiamma di rossore salì alle guancie della signora Fausta la quale ritornò dopo un attimo più pallida di prima, come le disse con la stessa sincerità di suo marito il vecchio specchio verdognolo che si alzava sino alla vôlta infisso nella parete di fronte.
Ella si morse le labbra e scosse le spalle con un piccolo gesto nervoso che le era divenuto consueto nelle due settimane della sua vita coniugale, nella convivenza continua con quell’uomo il quale si vantava di dire sempre la verità.
– La menzogna è il più gran male che infesti la vita umana e la vita civile, – asseriva il signor Massimiliano Delisi. – Se tutti gli uomini e tutte le donne fossero sinceri con sé stessi e con gli altri, quante inquietudini di meno e quante gioie di più si troverebbero in questo povero mondo!
Ed egli metteva in pratica per proprio conto questi suoi dogmi quanto più ampiamente gli fosse possibile; e forse per questa ragione riusciva molesto a quanti lo conoscevano e talora intollerabile anche a sua moglie, sebbene ella avesse posseduto sino alla vigilia del matrimonio una mitezza di carattere quasi simile a quella d’una colomba.
D’una colomba la signora Fausta aveva anche il lungo collo pieghevole e la timidezza silenziosa, la quale qualche volta irritava suo marito che chiacchierava troppo e volentieri, anche quando prudenza e gentilezza gli avrebbero consigliato di tacere.
Quale necessità, ad esempio, lo induceva quella mattina a rattristare la sua giovine sposa affermandole che la sua faccia era gialla come un limone?
La signora Fausta se lo chiedeva con una piccola smorfia d’amarezza, seduta dinanzi alla specchiera d’argento nella sua camera da letto, e riconosceva che Massimiliano tutto ben considerato aveva ragione: le sue gote erano pallide, gli occhi apparivano stanchi e senza luminosità, le labbra appena tinte di rosa.
Ma perché dirglielo così spietatamente? perché esprimerle queste impressioni in una forma così sgarbata?
– La verità, la verità innanzi tutto, – le avrebbe risposto suo marito. – Sempre, con tutti e ovunque dite la verità.
All’infuori di questo terribile difetto, ch’era per lui la suprema delle virtù, Massimiliano Delisi era un uomo pieno d’ottime qualità. Bel giovine, non ostante una lieve tendenza alla pinguedine, abbastanza intelligente e colto sebbene d’una coltura disordinata e farraginosa, buono, generoso e ospitale, quantunque disposto a tormentare gli amici e i conoscenti con la sua non sempre innocua mania.
Durante l’epoca del fidanzamento egli aveva con questa non poco meravigliato la sua promessa sposa, orfana d’entrambi i genitori e cresciuta con una vecchia prozia zitella, avara e ricchissima; ma poiché quello era il tempo dei dolci sospiri e Massimiliano attraversava una crisi di acuto sentimentalismo, tutto tenerezze, ardori e languori, le sue parole di verità si vestivano d’azzurro e di roseo, non erano che lusinghe, speranze, desideri prossimi alla realtà e non potevano che blandire e accarezzare soavemente la più raffinata sensibilità femminile.
Anche le osservazioni pungenti sulla persona un po’ridicola della zia Camilla di cui egli s’era compiaciuto ai primi giorni della loro conoscenza s’erano a poco a poco attenuate in una benevola indulgenza, quasi in una affettuosa scherzosità che gli mitigava l’astiosa rivalità della vecchia e gli attraeva sempre più l’animo della giovine.
Soltanto durante il viaggio di nozze le prime spiacevoli verità gli erano per l’antica consuetudine sfuggite; e a grado a grado, non ostante il grande amore che l’univa a sua moglie, Massimiliano era giunto ad esprimersi con lei sempre e unicamente con la più scrupolosa ed esatta franchezza.
Una sera che Fausta lodava in un teatro la bellezza e l’eleganza di un’attrice, egli la rimbeccò con aria di superiorità:
– Voialtre donne non capite nulla di queste cose. Spogliala e vedrai che disastro. Io me ne intendo.
Fausta rimase male, immaginò per tutta la sera le possibili e probabili avventure passate di suo marito, le possibili e probabili avventure dell’avvenire e comprese per la prima volta come fossero aspri i morsi della gelosia.
Un’altra volta mentre essa si provava in un negozio un paio di scarpette da sera, Massimiliano le fece notare ridendo:
– Ma, cara mia, non t’accorgi che il contenuto è assai maggiore del contenente? Non potrai camminare. Lo sai pure, suppongo, che i tuoi piedi non sono i piedini di Cenerentola.
Fausta non sapeva d’avere i piedi troppo grandi per la sua statura ch’era piuttosto alta, e quell’osservazione, benché fatta in un tono semplice e gaio, la ferì e la umiliò a segno ch’ella rinunziò senz’altro alle graziose scarpette da Cenerentola.
Ora ella viveva da un paio di mesi alla Villa dei Salici e le spietate verità di suo marito continuavano a perseguitarla con quotidiana insistenza, senza ch’ella si potesse abituare a considerarle con quella serenità ottimista ch’egli pretendeva.
– Ma sii franca anche tu con me com’io lo sono con te, – le diceva Massimiliano con calore quando la vedeva oscurarsi in viso a qualche sua osservazione eccessivamente veritiera.
– Non posso, non posso, – gemeva Fausta sospirando. – Vedi, io sarei assolutamente incapace di dirti: «smetti di fumare che mi dai noia», oppure: «quella tua cravatta ha un colore stridente». Piuttosto esco io stessa dalla camera dove tu fumi, o ti preparo pel domani una cravatta di mio gusto.
– E fai male, – ribatteva Massimiliano, fedele alle sue teorie. – Effetto di un’educazione sbagliata, l’educazione che ti ha data una vecchia zitella paurosa, bigotta e opportunista.
– Lasciala stare, povera zia Camilla!
– Io l’apprezzo soltanto per la vistosa eredità futura.
– Come sei volgare!
– È la verità.
– Allora la tua è una verità volgare.
– Può darsi. Io non mi pretendo un essere sublime, tutt’altro. Mi pretendo soltanto un uomo sincero.
– Ma preferisci la tua franchezza alla franchezza altrui.
– T’ inganni. Quando qualcuno mi dice una verità che riconosco vera anche se sgradevole, l’accetto, l’ammiro e ne faccio tesoro.
– Come dev’essere difficile riconoscere la verità vera dalla verità alquanto vera, abbastanza vera, piuttosto vera!
Sottilizzavano così discutendo a lungo, cercando frasi da contrapporre a frasi, parole da combattere parole, senza avvedersi che, intanto, dalle teorie astrattamente avverse passavano senza volerlo ad un’avversità più profonda ed insanabile: quella delle anime e quella dei corpi.
Fausta, più delicata e sensibile, si sentiva talvolta, dopo uno di questi diverbii futili ed asprigni, quasi più ostile a suo marito che se lo avesse sorpreso in colpa, o lo vedeva avvicinarsi avido a lei con una specie di confusa insofferenza, come se le fosse divenuto d’un tratto estraneo e indifferente.
– Si direbbe che ti faccio ribrezzo, – le osservava allora Massimiliano per quel suo funesto bisogno di esprimere sempre in chiare e sonanti parole la più fuggevole delle sue impressioni.
E sua moglie era costretta a riconoscere che in quell’osservazione c’era forse giù lontanamente qualche cosa di vero, ma mentiva a lui e a sé medesima rispondendo con finta semplicità:
– Come puoi pensare una simile enormità, Massimiliano? Lo sai che ti amo come il primo giorno.
– Il viaggio di ieri deve averti enormemente stancata, – disse il signor Massimiliano Delisi alla sua giovine sposa Fausta la mattina che seguì il loro ritorno dal viaggio di nozze.
Erano giunti la notte innanzi direttamente da Roma alla Villa dei Salici, una loro vasta casa di provincia un po’vecchia e un po’triste; e la signora Fausta, china a sorbire la sua cioccolata nella gran sala da pranzo grigia e fredda, s’avvolse con gesto molle nella sua vestaglia azzurra e assentì in silenzio senza guardare il marito.
Egli le stava ritto accanto e la osservava con attenzione fumando un interminabile avana.
– Davvero, sai, – insistette il signor Massimiliano, – quelle dieci o dodici ore di treno sono state per te disastrose. Questa mattina hai la faccia gialla come un limone.
Subito una lieve fiamma di rossore salì alle guancie della signora Fausta la quale ritornò dopo un attimo più pallida di prima, come le disse con la stessa sincerità di suo marito il vecchio specchio verdognolo che si alzava sino alla vôlta infisso nella parete di fronte.
Ella si morse le labbra e scosse le spalle con un piccolo gesto nervoso che le era divenuto consueto nelle due settimane della sua vita coniugale, nella convivenza continua con quell’uomo il quale si vantava di dire sempre la verità.
– La menzogna è il più gran male che infesti la vita umana e la vita civile, – asseriva il signor Massimiliano Delisi. – Se tutti gli uomini e tutte le donne fossero sinceri con sé stessi e con gli altri, quante inquietudini di meno e quante gioie di più si troverebbero in questo povero mondo!
Ed egli metteva in pratica per proprio conto questi suoi dogmi quanto più ampiamente gli fosse possibile; e forse per questa ragione riusciva molesto a quanti lo conoscevano e talora intollerabile anche a sua moglie, sebbene ella avesse posseduto sino alla vigilia del matrimonio una mitezza di carattere quasi simile a quella d’una colomba.
D’una colomba la signora Fausta aveva anche il lungo collo pieghevole e la timidezza silenziosa, la quale qualche volta irritava suo marito che chiacchierava troppo e volentieri, anche quando prudenza e gentilezza gli avrebbero consigliato di tacere.
Quale necessità, ad esempio, lo induceva quella mattina a rattristare la sua giovine sposa affermandole che la sua faccia era gialla come un limone?
La signora Fausta se lo chiedeva con una piccola smorfia d’amarezza, seduta dinanzi alla specchiera d’argento nella sua camera da letto, e riconosceva che Massimiliano tutto ben considerato aveva ragione: le sue gote erano pallide, gli occhi apparivano stanchi e senza luminosità, le labbra appena tinte di rosa.
Ma perché dirglielo così spietatamente? perché esprimerle queste impressioni in una forma così sgarbata?
– La verità, la verità innanzi tutto, – le avrebbe risposto suo marito. – Sempre, con tutti e ovunque dite la verità.
All’infuori di questo terribile difetto, ch’era per lui la suprema delle virtù, Massimiliano Delisi era un uomo pieno d’ottime qualità. Bel giovine, non ostante una lieve tendenza alla pinguedine, abbastanza intelligente e colto sebbene d’una coltura disordinata e farraginosa, buono, generoso e ospitale, quantunque disposto a tormentare gli amici e i conoscenti con la sua non sempre innocua mania.
Durante l’epoca del fidanzamento egli aveva con questa non poco meravigliato la sua promessa sposa, orfana d’entrambi i genitori e cresciuta con una vecchia prozia zitella, avara e ricchissima; ma poiché quello era il tempo dei dolci sospiri e Massimiliano attraversava una crisi di acuto sentimentalismo, tutto tenerezze, ardori e languori, le sue parole di verità si vestivano d’azzurro e di roseo, non erano che lusinghe, speranze, desideri prossimi alla realtà e non potevano che blandire e accarezzare soavemente la più raffinata sensibilità femminile.
Anche le osservazioni pungenti sulla persona un po’ridicola della zia Camilla di cui egli s’era compiaciuto ai primi giorni della loro conoscenza s’erano a poco a poco attenuate in una benevola indulgenza, quasi in una affettuosa scherzosità che gli mitigava l’astiosa rivalità della vecchia e gli attraeva sempre più l’animo della giovine.
Soltanto durante il viaggio di nozze le prime spiacevoli verità gli erano per l’antica consuetudine sfuggite; e a grado a grado, non ostante il grande amore che l’univa a sua moglie, Massimiliano era giunto ad esprimersi con lei sempre e unicamente con la più scrupolosa ed esatta franchezza.
Una sera che Fausta lodava in un teatro la bellezza e l’eleganza di un’attrice, egli la rimbeccò con aria di superiorità:
– Voialtre donne non capite nulla di queste cose. Spogliala e vedrai che disastro. Io me ne intendo.
Fausta rimase male, immaginò per tutta la sera le possibili e probabili avventure passate di suo marito, le possibili e probabili avventure dell’avvenire e comprese per la prima volta come fossero aspri i morsi della gelosia.
Un’altra volta mentre essa si provava in un negozio un paio di scarpette da sera, Massimiliano le fece notare ridendo:
– Ma, cara mia, non t’accorgi che il contenuto è assai maggiore del contenente? Non potrai camminare. Lo sai pure, suppongo, che i tuoi piedi non sono i piedini di Cenerentola.
Fausta non sapeva d’avere i piedi troppo grandi per la sua statura ch’era piuttosto alta, e quell’osservazione, benché fatta in un tono semplice e gaio, la ferì e la umiliò a segno ch’ella rinunziò senz’altro alle graziose scarpette da Cenerentola.
Ora ella viveva da un paio di mesi alla Villa dei Salici e le spietate verità di suo marito continuavano a perseguitarla con quotidiana insistenza, senza ch’ella si potesse abituare a considerarle con quella serenità ottimista ch’egli pretendeva.
– Ma sii franca anche tu con me com’io lo sono con te, – le diceva Massimiliano con calore quando la vedeva oscurarsi in viso a qualche sua osservazione eccessivamente veritiera.
– Non posso, non posso, – gemeva Fausta sospirando. – Vedi, io sarei assolutamente incapace di dirti: «smetti di fumare che mi dai noia», oppure: «quella tua cravatta ha un colore stridente». Piuttosto esco io stessa dalla camera dove tu fumi, o ti preparo pel domani una cravatta di mio gusto.
– E fai male, – ribatteva Massimiliano, fedele alle sue teorie. – Effetto di un’educazione sbagliata, l’educazione che ti ha data una vecchia zitella paurosa, bigotta e opportunista.
– Lasciala stare, povera zia Camilla!
– Io l’apprezzo soltanto per la vistosa eredità futura.
– Come sei volgare!
– È la verità.
– Allora la tua è una verità volgare.
– Può darsi. Io non mi pretendo un essere sublime, tutt’altro. Mi pretendo soltanto un uomo sincero.
– Ma preferisci la tua franchezza alla franchezza altrui.
– T’ inganni. Quando qualcuno mi dice una verità che riconosco vera anche se sgradevole, l’accetto, l’ammiro e ne faccio tesoro.
– Come dev’essere difficile riconoscere la verità vera dalla verità alquanto vera, abbastanza vera, piuttosto vera!
Sottilizzavano così discutendo a lungo, cercando frasi da contrapporre a frasi, parole da combattere parole, senza avvedersi che, intanto, dalle teorie astrattamente avverse passavano senza volerlo ad un’avversità più profonda ed insanabile: quella delle anime e quella dei corpi.
Fausta, più delicata e sensibile, si sentiva talvolta, dopo uno di questi diverbii futili ed asprigni, quasi più ostile a suo marito che se lo avesse sorpreso in colpa, o lo vedeva avvicinarsi avido a lei con una specie di confusa insofferenza, come se le fosse divenuto d’un tratto estraneo e indifferente.
– Si direbbe che ti faccio ribrezzo, – le osservava allora Massimiliano per quel suo funesto bisogno di esprimere sempre in chiare e sonanti parole la più fuggevole delle sue impressioni.
E sua moglie era costretta a riconoscere che in quell’osservazione c’era forse giù lontanamente qualche cosa di vero, ma mentiva a lui e a sé medesima rispondendo con finta semplicità:
– Come puoi pensare una simile enormità, Massimiliano? Lo sai che ti amo come il primo giorno.
*
Intanto la signora Fausta s’annoiava prodigiosamente in quella grande casa circondata da un immenso giardino folto d’ombre come un bosco leggendario e chiuso in fondo da uno stagno pieno di ninfee, nel quale si specchiava con malinconia una corona di salici piangenti.
La giovine signora ne aveva compiuto il giro una volta sola, il domani del suo arrivo, appoggiata al braccio del marito, e le era piombata sul cuore d’improvviso una così nera tristezza che aveva promesso a sé stessa di non ritornarvi mai più.
Ella non possedeva uno spirito romantico, ma una piccola anima semplice e chiara, facile agli sgomenti, e dove le prime impressioni resistevano con insospettata tenacia.
– Perché non hai chiamata questa casa la Villa dei Salici piangenti? – ella diceva qualche volta con un sorrisetto un po’ironico a suo marito: – sarebbe stato più giusto, avrebbe espresso con maggiore franchezza la verità.
– Quale verità? La materiale o la morale?
– Non vi sono distinzioni, credo. Lo stagno laggiù, in fondo al giardino, non è circondato da una malinconica fila di salici piangenti?
– No, no, – concluse un giorno dopo una lunga pausa Massimiliano, alquanto spazientito. – lo so perfettamente che cosa nascondono queste tue parole. Se tu fossi sincera come lo sono io e come io ti vorrei, mi diresti semplicemente così: «Marito mio. questa tua casa è molto grande, non è brutta ed è discretamente comoda, ma noi ci viviamo ormai soli soli da quasi sette mesi: e quantunque ci amiamo, non dirò follemente, ma abbastanza per sopportare reciprocamente i nostri difetti e riconoscere le nostre qualità, io incomincio però ad accorgermi che questo isolamento non è confacente ai miei venticinque anni e che la noia incomincia a pesarmi addosso come la classica cappa di piombo. Perciò, marito mio, provvedi, e non farmi sciupare la mia graziosa giovinezza all’ombra grigia dei tuoi salici piangenti». Perché non hai il coraggio e la lealtà di dirmi queste cose?
La signora Fausta, seduta sulla veranda in una poltrona di vimini, ricamava una tovaglia da tè a capo chino, ma le sue dita sottili, mentre Massimiliano così ragionava, tremavano leggermente sulla tela candida, come le foglie di un albero scosse dal vento.
E quando egli tacque ella sollevò un momento i suoi grandi occhi azzurri, lo guardò, li riabbassò sul ricamo senza rispondere.
Massimiliano gettò il suo sigaro e venne a sederle accanto. Le tolse il lavoro, le prese entrambe le mani tra le sue e le disse con pacata risolutezza: – Discorriamo.
S’accendeva nel cielo un vermiglio tramonto di prima estate, e laggiù, nell’ombra già folta del giardino appariva e spariva lo scintillìo luminoso di qualche luccioletta vagante.
Fausta evitava lo sguardo di suo marito e seguiva l’errare di quei puntini di fiamma pallida tra il velo grigiastro della sera che scendeva.
– Vuoi che ce ne andiamo via di qui? Vuoi che facciamo un bel viaggio? – le chiese Massimiliano scuotendole ad ogni domanda le mani come per vincere quel suo torpore.
Ella alzò lentamente le spalle, mormorò con un sorriso forzato:
– Ma no, caro; perché muoverci, perché stancarci a correre in ferrovia e a girare per gli alberghi ora che incomincia l’estate? Qui si sta benissimo.
Il ricordo del viaggio di nozze e degli alterchi continui di suo marito col personale degli alberghi e con quello dei treni ai quali egli pretendeva d’esprimere senza riguardi la propria disapprovazione pel cattivo servizio, le stava ancora fisso nel ricordo e la faceva rabbrividire. No, no; piuttosto il tedio monotono della Villa dei Salici, dove almeno le spiacevoli verità si rivolgevano a persone ormai avvezze all’acerba franchezza di suo marito, le quali le accoglievano in un rispettoso e rassegnato silenzio, rifacendosi dopo dell’umiliazione subita con la più falsa ed insolente noncuranza.
Oramai i pochi amici che salivano ancora a quella casa sopportavano bonariamente la mania in fondo innocente di Massimiliano Delisi, e lo lasciavano dire le sue arroganti verità rimbeccandolo con eguale impertinenza, oppure canzonandolo con un beffardo ed amabile compatimento.
Il sindaco, il vicario, il sottoprefetto e le altre autorità venute a rendere omaggio alla giovine signora Delisi, alla sposa del più cospicuo proprietario della cittadina, se n’erano andati per non più tornare, offesi, scandalizzati ed atterriti dalla brutale franchezza del padrone di casa, il quale servendo loro un rinfresco principesco vi aveva aggiunto per ognuno di loro un apprezzamento di così bruciante realtà, che ciascuno se n’era sentito nell’intimo indignato, pur non potendo per la verità delle parole rivoltarvisi palesemente.
– Qui si sta benissimo, – ripeté Massimiliano scandendo le sillabe con una smorfia di dispetto. – Vedi come continui a falsificare le cose? Tu pensi tutto il contrario, lo so perfettamente.
– Il dirlo non serve a nulla, – sussurrò Fausta quasi a sé stessa, e s’alzò, andò ad i appoggiarsi alla balaustrata della veranda, forse per osservare meglio lo scintillìo luminoso delle lucciole che vagavano ora a miriadi nell’ombra del giardino, forse per interrompere quella conversazione vana e ormai troppe volte ripetuta.
Ma suo marito ve la raggiunse dopo un momento e riaccese con aria di trionfo un altro avana.
– Ho trovato il rimedio, – egli disse mandando all’aria le prime boccate di fumo. – Inviterò alcuni ospiti piacevoli alla Villa dei Salici, la quale è tutt’altro che una villeggiatura disprezzabile.
– Quali ospiti? – chiese Fausta non troppo persuasa dell’efficacia del rimedio.
– Aspetta, – disse Massimiliano riflettendo. – Ci vorrebbe qualche amico simpatico per me, il quale avesse una moglie, una sorella, anche una figliuola che fosse simpatica a te.
– È un caso complicato, – dichiarò sorridendo Fausta che incominciava ad interessarsene.
– Non tanto, – mormorò suo marito continuando a meditare. – Ci dev’essere, anzi c’è. Tu ricordi Artali, Furio Artali, quel giovine bruno, magro, alto che ha viaggiato mezzo mondo, e che sta sempre per pubblicare le sue impressioni di viaggio, delle quali viceversa non deve aver scritto neppure una pagina?
– Mi pare, – disse esitando Fausta. – È quello che ci mandò per regalo di nozze una pelle di leopardo avvertendo d’averlo cacciato egli stesso nelle foreste dell’Africa?
– Precisamente, – rise Massimiliano, – ed al quale io risposi che lo ringraziavo, ma che la pelle del leopardo era stata più facilmente acquistata al mercato di Lipsia.
– Non s’offese?
– Affatto. È forse l’unico tra i miei amici che abbia sempre accettato allegramente le mie verità.
– Si vede che ha vissuto nelle regioni selvagge. Ma non sapevo che possedesse una moglie.
– Non ha moglie difatti. Ha però una graziosissima sorella rimasta vedova molto giovine la quale abita con lui.
– Tu la conosci?
– Appena, per averla veduta a teatro o alle corse col fratello. Dicono che sia una donna di spirito, colta e intelligente quanto lui.
– Una donna pericolosa, insomma.
– Non saprei. Bisognerà giudicarla.
– E credi che accetterebbero l’invito?
– Scrivo ad Artali questa sera stessa, e se non accetterà penseremo a qualcun altro. Ma sarebbe peccato perché è certo il più divertente fra i miei amici.
Massimiliano scrisse quella sera stessa, e dopo due giorni giunse una risposta telegrafica che diceva: «Accettiamo con entusiasmo».
Intanto la signora Fausta s’annoiava prodigiosamente in quella grande casa circondata da un immenso giardino folto d’ombre come un bosco leggendario e chiuso in fondo da uno stagno pieno di ninfee, nel quale si specchiava con malinconia una corona di salici piangenti.
La giovine signora ne aveva compiuto il giro una volta sola, il domani del suo arrivo, appoggiata al braccio del marito, e le era piombata sul cuore d’improvviso una così nera tristezza che aveva promesso a sé stessa di non ritornarvi mai più.
Ella non possedeva uno spirito romantico, ma una piccola anima semplice e chiara, facile agli sgomenti, e dove le prime impressioni resistevano con insospettata tenacia.
– Perché non hai chiamata questa casa la Villa dei Salici piangenti? – ella diceva qualche volta con un sorrisetto un po’ironico a suo marito: – sarebbe stato più giusto, avrebbe espresso con maggiore franchezza la verità.
– Quale verità? La materiale o la morale?
– Non vi sono distinzioni, credo. Lo stagno laggiù, in fondo al giardino, non è circondato da una malinconica fila di salici piangenti?
– No, no, – concluse un giorno dopo una lunga pausa Massimiliano, alquanto spazientito. – lo so perfettamente che cosa nascondono queste tue parole. Se tu fossi sincera come lo sono io e come io ti vorrei, mi diresti semplicemente così: «Marito mio. questa tua casa è molto grande, non è brutta ed è discretamente comoda, ma noi ci viviamo ormai soli soli da quasi sette mesi: e quantunque ci amiamo, non dirò follemente, ma abbastanza per sopportare reciprocamente i nostri difetti e riconoscere le nostre qualità, io incomincio però ad accorgermi che questo isolamento non è confacente ai miei venticinque anni e che la noia incomincia a pesarmi addosso come la classica cappa di piombo. Perciò, marito mio, provvedi, e non farmi sciupare la mia graziosa giovinezza all’ombra grigia dei tuoi salici piangenti». Perché non hai il coraggio e la lealtà di dirmi queste cose?
La signora Fausta, seduta sulla veranda in una poltrona di vimini, ricamava una tovaglia da tè a capo chino, ma le sue dita sottili, mentre Massimiliano così ragionava, tremavano leggermente sulla tela candida, come le foglie di un albero scosse dal vento.
E quando egli tacque ella sollevò un momento i suoi grandi occhi azzurri, lo guardò, li riabbassò sul ricamo senza rispondere.
Massimiliano gettò il suo sigaro e venne a sederle accanto. Le tolse il lavoro, le prese entrambe le mani tra le sue e le disse con pacata risolutezza: – Discorriamo.
S’accendeva nel cielo un vermiglio tramonto di prima estate, e laggiù, nell’ombra già folta del giardino appariva e spariva lo scintillìo luminoso di qualche luccioletta vagante.
Fausta evitava lo sguardo di suo marito e seguiva l’errare di quei puntini di fiamma pallida tra il velo grigiastro della sera che scendeva.
– Vuoi che ce ne andiamo via di qui? Vuoi che facciamo un bel viaggio? – le chiese Massimiliano scuotendole ad ogni domanda le mani come per vincere quel suo torpore.
Ella alzò lentamente le spalle, mormorò con un sorriso forzato:
– Ma no, caro; perché muoverci, perché stancarci a correre in ferrovia e a girare per gli alberghi ora che incomincia l’estate? Qui si sta benissimo.
Il ricordo del viaggio di nozze e degli alterchi continui di suo marito col personale degli alberghi e con quello dei treni ai quali egli pretendeva d’esprimere senza riguardi la propria disapprovazione pel cattivo servizio, le stava ancora fisso nel ricordo e la faceva rabbrividire. No, no; piuttosto il tedio monotono della Villa dei Salici, dove almeno le spiacevoli verità si rivolgevano a persone ormai avvezze all’acerba franchezza di suo marito, le quali le accoglievano in un rispettoso e rassegnato silenzio, rifacendosi dopo dell’umiliazione subita con la più falsa ed insolente noncuranza.
Oramai i pochi amici che salivano ancora a quella casa sopportavano bonariamente la mania in fondo innocente di Massimiliano Delisi, e lo lasciavano dire le sue arroganti verità rimbeccandolo con eguale impertinenza, oppure canzonandolo con un beffardo ed amabile compatimento.
Il sindaco, il vicario, il sottoprefetto e le altre autorità venute a rendere omaggio alla giovine signora Delisi, alla sposa del più cospicuo proprietario della cittadina, se n’erano andati per non più tornare, offesi, scandalizzati ed atterriti dalla brutale franchezza del padrone di casa, il quale servendo loro un rinfresco principesco vi aveva aggiunto per ognuno di loro un apprezzamento di così bruciante realtà, che ciascuno se n’era sentito nell’intimo indignato, pur non potendo per la verità delle parole rivoltarvisi palesemente.
– Qui si sta benissimo, – ripeté Massimiliano scandendo le sillabe con una smorfia di dispetto. – Vedi come continui a falsificare le cose? Tu pensi tutto il contrario, lo so perfettamente.
– Il dirlo non serve a nulla, – sussurrò Fausta quasi a sé stessa, e s’alzò, andò ad i appoggiarsi alla balaustrata della veranda, forse per osservare meglio lo scintillìo luminoso delle lucciole che vagavano ora a miriadi nell’ombra del giardino, forse per interrompere quella conversazione vana e ormai troppe volte ripetuta.
Ma suo marito ve la raggiunse dopo un momento e riaccese con aria di trionfo un altro avana.
– Ho trovato il rimedio, – egli disse mandando all’aria le prime boccate di fumo. – Inviterò alcuni ospiti piacevoli alla Villa dei Salici, la quale è tutt’altro che una villeggiatura disprezzabile.
– Quali ospiti? – chiese Fausta non troppo persuasa dell’efficacia del rimedio.
– Aspetta, – disse Massimiliano riflettendo. – Ci vorrebbe qualche amico simpatico per me, il quale avesse una moglie, una sorella, anche una figliuola che fosse simpatica a te.
– È un caso complicato, – dichiarò sorridendo Fausta che incominciava ad interessarsene.
– Non tanto, – mormorò suo marito continuando a meditare. – Ci dev’essere, anzi c’è. Tu ricordi Artali, Furio Artali, quel giovine bruno, magro, alto che ha viaggiato mezzo mondo, e che sta sempre per pubblicare le sue impressioni di viaggio, delle quali viceversa non deve aver scritto neppure una pagina?
– Mi pare, – disse esitando Fausta. – È quello che ci mandò per regalo di nozze una pelle di leopardo avvertendo d’averlo cacciato egli stesso nelle foreste dell’Africa?
– Precisamente, – rise Massimiliano, – ed al quale io risposi che lo ringraziavo, ma che la pelle del leopardo era stata più facilmente acquistata al mercato di Lipsia.
– Non s’offese?
– Affatto. È forse l’unico tra i miei amici che abbia sempre accettato allegramente le mie verità.
– Si vede che ha vissuto nelle regioni selvagge. Ma non sapevo che possedesse una moglie.
– Non ha moglie difatti. Ha però una graziosissima sorella rimasta vedova molto giovine la quale abita con lui.
– Tu la conosci?
– Appena, per averla veduta a teatro o alle corse col fratello. Dicono che sia una donna di spirito, colta e intelligente quanto lui.
– Una donna pericolosa, insomma.
– Non saprei. Bisognerà giudicarla.
– E credi che accetterebbero l’invito?
– Scrivo ad Artali questa sera stessa, e se non accetterà penseremo a qualcun altro. Ma sarebbe peccato perché è certo il più divertente fra i miei amici.
Massimiliano scrisse quella sera stessa, e dopo due giorni giunse una risposta telegrafica che diceva: «Accettiamo con entusiasmo».