L’Illustrazione Italiana, 18 giugno 1916
I volti di Parigi
Parigi, giugno Geissler
La decima camera del tribunale della Senna ha condannato per abuso di fiducia e per appropriazione indebita il suddito prussiano, herr Gottlieb Geissler, a tre anni di prigione, a tremila lire di multa e al risarcimento dei danni alle parti lese. La condanna di questo personaggio equivoco è stata sommersa dagli avvenimenti: l’invasione bulgara, la morte di Gallieni, la ripresa degli assalti prussiani intorno a Verdun, l’attacco generale degli austriaci nel Trentino. La storia ha sopraffatto la cronaca, e il signor Geissler non ha avuto la gloria della grande pubblicità. E pure egli era una figura rappresentativa di quel cosmopolitismo avventuriero di avant-guerre che aveva scelto Parigi come il campo più sicuro e più facile per le sue esperienze delittuose.
Una trentina d’anni fa, il Geissler era semplice corriere d’albergo. Collega ed amico di quel Pranzini che assassinò una cortigiana e finì sul patibolo destando il rimpianto degli esteti che ne volevano la grazia «per la bellezza scultorea del suo corpo» – la cosa sembra oggi inconcepibile, ma intorno al 1890 vi erano degli scrittori d’ingegno che pensavano e scrivevano così – il Geissler fu implicato in quel triste processo come istigatore del delitto e mandato libero per insufficienza d’indizi. Da allora non se ne parlò più per un pezzo e non è se non molti anni dopo che noi lo ritroviamo alla testa di quella società dei grandi alberghi parigini, che aveva come reggia l’Astoria dei Campi Elisi. Società essenzialmente tedesca – sia detto di passaggio – che celandosi sotto il vano americanismo dei titoli cercava di accaparrare per conto suo la clientela dei miliardari nordamericani e dei ricchi proprietari argentini, che venivano a Parigi per sperperare in un mese i guadagni accumulati nel lento esercizio delle loro imprese agricole. Come il Geissler fosse giunto a quel grado di prosperità, non saprei dire. E non saprei neanche dire come fosse riuscito a crearsi tale una considerazione nel suo paese, che non solo l’ambasciatore von Schön lo trattava da amico, ma un giorno che la Kronprinzessin Cecilia era venuta a Parigi per rifornirsi di brutti vestiari dalla sua fornitrice abituale madame Béchow – un’altra spia che il tribunale militare condannò l’anno scorso a qualche anno di prigione come complice del losco Decloux – si vide la futura imperatrice di Germania chiamare alla sua tavola l’antico complice del souteneur Pranzini e invitarlo a dividere con lei la sua colazione! Evidentemente il Geissler era divenuto un personaggio prezioso e il suo «zelo di arcani uffici» lo designava alla riconoscenza della famiglia imperiale. Ma allora i parigini non si accorsero di nulla: essi avevano talmente gli occhi bendati che non videro né meno come il coronamento della cupola di quel brutto edificio che è l’Astoria rappresentasse una colossale corona di Carlomagno, sull’asta della cui croce sventolava la bandiera di Francia, aspettando il giorno propizio in cui vi avrebbe sventolato quella dell’Impero. Per veder tutte queste cose, dovette intervenire la dichiarazione di guerra, il sequestro dei beni germanici, l’internamento del Geissler in un campo di concentrazione, la sua accusa di spionaggio, la perquisizione nei suoi appartamenti, perquisizione durante la quale si ebbe la prova che quel signore, oltre essere un agente a favore dell’Impero, era anche un truffatore a favore proprio. E si scoprì così anche un altro documento curioso: la lista delle pietanze e dei vini per quella famosa colazione che il Kaiser doveva fare a Parigi, il 15 settembre 1914, dopo aver assistito dal balcone circolare d’angolo del grande albergo tedesco, allo sfilamento trionfale dei suoi eserciti vittoriosi sotto l’arco napoleonico della Stella.
Ho assistito a una seduta del processo e veramente non è stato interessante. Quel Geissler è un pover’uomo, il cui sguardo sfuggente si nasconde dietro i consueti occhiali teutonici, e il cui volto troppo rosso è tutto pustoloso di bollicine. Durante tutto il tempo che è durata la seduta, egli ha conservato un aspetto umile e quasi di preghiera. Una sola volta si è tradito quando al presidente che gli contestava una sua operazione losca, egli rispondeva: «Credevo di poter rimediare: è la guerra che ha rovinato ogni cosa». A cui il presidente di rimando: «Prendetevela coi vostri compatriotti». Ma di tutto il processo – che in fondo è stato una ben misera cosa non essendosi voluto farlo divenire una troppo grossa – il documento più singolare è una lettera di «fraülein Geissler» la figlia dell’imputato, che a lui, il quale le faceva osservare come in fondo avesse potuto mettere insieme due milioni di risparmi, diceva: «È inutile che tu ce lo ripeta, a mia madre e a me: bisogna guadagnare molto di più. Oggi con la rendita di due milioni non si può vivere decentemente». Questo scriveva nel maggio del 1914 una di quelle pure vergini teutoniche, le quali – secondo la Kaiserin Augusta, e pur troppo secondo molte altre persone che io conosco bene – dovevano rappresentare nel mondo la salvezza e la purezza della famiglia tedesca di fronte all’inguaribile sfacelo della famiglia francese!
Profili di donne
Sopra lo sfondo così cupo di sangue e di terrore che ha sommerso la nostra vita in questi ultimi giorni, si sono profilate alcune immagini di donne che sono come un ricordo del passato e come una promessa per l’avvenire. Grandi mondane come la contessa di Trédern, che fu una figura caratteristica della terza repubblica e nel suo grande palazzo della piazza Vendôme dette ricevimenti e serate musicali che non sono ancora dimenticate; scienziate come la signora Jeanne Dieulafoy che accompagnò il marito in quelle dure esplorazioni dell’Asia tenebrosa che dovevano dare alla Francia gli splendori del palazzo di Dario e la visione della civiltà babilonese; pure eroine come Emilienne Moreau, che a Loos, durante l’occupazione prussiana, prodigò la sua attività in mille modi e ottenne la croce di guerra che le fu rimessa in faccia agli eserciti liberatori; sono tante facce di quella multiforme anima femminile che in questa guerra ha saputo prendersi una così luminosa rivincita contro la nostra ingiustizia. E ognuna di loro rappresenta – come ho già detto – un po’ della vita stessa di questa città così vibrante e così affannosa nella sua continua corsa verso l’avvenire.
La contessa di Trédern fu una semplice mondana, ma una di quelle mondane della terza repubblica che per un momento credette di poter confondere in una specie di unione sacra la vecchia aristocrazia del sangue con la novissima della finanza. Ed ella era infatti figlia di un grande industriale – il signor Say – che i molti milioni accumulati nelle raffinerie di zucchero distribuì con equa generosità fra l’unico maschio e le tre femmine della sua famiglia, una delle quali divenne la principessa di Broglie, l’altra la contessa di Sesmaisons, e la terza la viscontessa di Trédern. Se non che l’unione sperata non si fece e dopo pochi anni le figlie dell’industriale arricchito divennero più intransigentemente aristocratiche dei loro mariti. In quanto al maschio, sposò un’americana ricca, la quale orgogliosa di avere per cognate quelle dame illustri si sarebbe creduta disonoratissima se avesse dovuto rivolgere la parola a un disgraziato mortale che non fosse almeno visconte! Così che lo snobismo europeo del borghese fatto ricco, unito allo snobismo americano del mercante trafficatore, produssero un resultato ibrido che non giovò né alla vecchia né alla nuova aristocrazia. E la contessa di Trédern, divenuta gran dama, si contentò di fare quello che fanno tutte le grandi dame di questo mondo: ricevette molto e si creò una certa fama di cantante da salotto che mandò in visibilio gli ospiti abituali delle sue serate.
Non avrei messo, accanto a questa mondana che fu semplicemente una signora di società, quella Jeanne Dieulafoy che oltre a essere un’esploratrice piena di ardore fu inoltre una scrittrice di molto ingegno, se anche lei non fosse stata una «figura parigina» per altri titoli che non fossero quelli della sua scienza e della sua arte. Compagna del marito – che oggi è colonnello del genio nello stato maggiore del generale Liautey al Marocco – e sua collaboratrice nelle difficili esplorazioni degli antichi regni di Assiria e di Babilonia, ella aveva a poco a poco finito di considerarsi donna, e aveva l’ingenua mania di non essere riconosciuta per tale dagli amici e dalle conoscenze. Così, a Parigi, vestiva da uomo, con un lungo soprabito nero, un paio di scarpe da podista, un cappello a cilindro e un venerabile bastone col pomo di avorio. Coi capelli tagliati a zazzera, il volto glabro illuminato da due occhi pieni d’intelligenza, nessuno che non la conoscesse, avrebbe potuto immaginare che quel vecchio signore rispettabile era invece una rispettabile signora. A prima vista somigliava a Francesco Coppée; ma un Francesco Coppée più flaccido, un Francesco Coppée che le traversie della vita avessero fatalmente ridotto a fare il guardiano di un harem. Con tutto ciò e non ostante tutto ciò ella era orgogliosa della sua somiglianza, ed esigeva che tutti gli uomini la trattassero come un compagno. Io la conobbi una quindicina d’anni fa a un pranzo che un clinico illustre aveva dato ad alcuni suoi colleghi riuniti a Parigi da non ricordo più quale congresso di medicina. Nel mettersi a tavola madame Dieulafoy cominciò col protestare perché invece di assegnarle il posto fra due signore l’avevano messa fra due uomini, dimostrando così che la padrona di casa non soleva riconoscere il suo cambiamento di sesso. E la protesta fu fatta con tanto malumore e con tanta acrimonia, che lasciò una certa freddezza fra tutti i convitati durante la maggior parte del pranzo. Se non che, il clinico illustre si vendicò la sera stessa. Perché, dopo il caffè, avendo dimandato ai suoi ospiti se avevano bisogno di lavarsi le mani, condusse la signora Dieulafov nella – diremo così – sezione maschile dicendole amabilmente di fare il comodo suo. Questa volta, l’esploratrice illustre non protestò; ma dovette convenire che il suo era forse uno dei rarissimi casi in cui il proverbio «l’abito non fa il monaco» era perfettamente giustificato.
La signorina Emilienne Moreau è invece la donna di domani, così come questa guerra ce l’ha rivelata. A Loos, sotto la minaccia della Kommandantur prussiana, riuscì a salvare e a far evadere una quantità di soldati inglesi e francesi, e seppe, nell’ospedale dove era infermiera, curare egualmente bene lo spirito e le membra dei poveri feriti affidati alle sue cure. Non si commosse alle minacce degl’invasori, non tremò sotto le rovine del bombardamento: fino alla fine rimase al suo posto e non rinunciò a curare i suoi malati così come non rinunciò a far evadere i suoi concittadini. Questo suo eroismo le poteva procurare la fucilazione: ma fu più fortunata di miss Cawell, ed ebbe la sorte di vedere gli eserciti liberatori scacciare l’invasore dal borgo dove compiva la sua opera di carità e d’amore. Fu lì che la trovò il generale francese comandante il corpo d’armata di soccorso, e fu lì – in presenza degli eserciti schierati – che ella ricevette la croce di guerra e l’accolade fraternelle rituale. Dopo di che, esaurito il suo compito di infermiera e di cittadina, si recò immediatamente a Parigi per compiere i suoi studii e subire l’esame di maestra elementare. Inutile dire che anche questo esame fu un trionfo e che il presidente della commissione, congedandosi da lei, le strinse la mano dicendole: «E ora arrivederci al giorno in cui prenderete il brevetto d’insegnamento superiore».
Bell’esempio della nuova donna, questo della signorina Emilienne Moreau – che, tra parentesi, è anche una bella elegante e graziosa ragazza – bell’esempio di azione e di riflessione, di dovere compiuto nobilmente in ogni luogo, di eroismo sui campi di battaglia e di civismo nella vita comune. Ma oggi in Francia come in Italia, in Russia come in Inghilterra le donne sono per la maggior parte così. Nel momento supremo della patria esse hanno voluto dimostrare che la loro evoluzione era compiuta, e che di fronte al pericolo comune esse potevano marciare in prima fila, con gli uomini, per conseguire uno stesso ideale a traverso un medesimo sacrificio. Hanno voluto dimostrarlo e ci sono riuscite.