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 1916  giugno 18 Domenica calendario

Aspettando il “Ministero Nazionale„

I russi, dunque, hanno battuti, sconfitti, dispersi gli austriaci in Volinia e Galizia, su un fronte di almeno centocinquanta chilometri; gl’italiani hanno irrevocabilmente arrestata l’offensiva austriaca nel Trentino, ed hanno iniziata e spinta innanzi una vigorosa controffensiva; e la Camera italiana, per non essere da meno dei soldati di Brussilow e di Cadorna, ha battuto il ministero Salandra!... Dopo tanti inni, tanti sproloqui per la concordia nazionale, che doveva raccogliere completamente attorno al governo di Antonio Salandra tutti i consensi, e proprio nell’ora in cui alla massa del pubblico pareva che, di fronte agli attacchi austriaci, questi consensi patriottici dovessero essere ancora più unanimi – una parte degl’interventisti – quelli delle varie Sinistre specialmente ed i nazionalisti – unendosi agli odiati socialisti ufficiali – hanno sopraffatto il ministero per una trentina di voti, e Antonio Salandra è caduto.
Per quali colpe una così severa punizione?... Nessuno saprebbe dirlo. L’offensiva austriaca non è riuscita a scuotere il saldo coraggio degl’italiani, di quelli che combattono veramente sull’aspro, sanguinoso fronte; ma ha acceso un ardore bellico in certe schiere di politicanti pei quali anche la guerra è una buona occasione per farsi innanzi; e così hanno provocata una crisi un centinaio e mezzo di deputati, che, presi ad uno ad uno, ed anche a gruppi separati e raffrontati, sono d’accordo fra loro come cani e gatti!... Così è stato buttato giù il ministero che, sorto nel marzo 1914 in mezzo a difficoltà non comuni e colpito immediatamente da difficoltà interne ed esterne incomparabili, dovette scongiurare lo sciopero ferroviario, domare una grottesca ribellione romagnola-marchigiana senza capo né coda, ma, non per questo, meno esiziale per l’ordine pubblico, poi si trovò improvvisamente con l’Europa in fiamme senza che l’Italia avesse immediatamente i mezzi per mostrarsi capace di far fronte a tutte le eventualità dell’incendio.
Con tutto ciò, Antonio Salandra – senza essere paragonabile a Cavour, come lo vollero i soliti immancabili epigrafai – spiegò animo adatto alle difficoltà improvvise e gravi, e interpretò risolutamente le aspirazioni nazionali, portando, dopo un anno di intensa preparazione, l’Italia alla guerra – una guerra aspra, difficile, dura più di tutte le altre e nella quale gl’italiani hanno dimostrato in ogni miglior modo – nei tredici mesi da quando dura – che 1’«antico valore» non solo «negl’italici cor non è ancor morto» ma si è imposto e si impone al nemico con una magnifica, irresistibile resurrezione!
E che cosa ha fatto di male in questi tredici mesi di guerra il governo di Salandra?... Quando, nel marzo scorso, in cinque o sei sedute, la Camera volle esaminare, vagliare le colpe multiple del ministero Salandra, ne risultò, dopo un diluvio di discorsi, un voto di piena fiducia, che da qualcuno, però, fu detta non sincera.
In fatto, le cupidigie bollivano; gruppi e capi-gruppo miravano impazienti ai portafogli sotto la bandiera della «più gran guerra»! Quale più gran guerra, di grazia, dopo quella mirabilmente grande, nella quale i soldati italiani d’ogni contrada hanno compiuto e compiono atti di sovrumano valore, e dove tutti affrontano impavidi il fuoco nemico, dall’eroico generale Prestinari, che cade alla testa della sua brigata, a Sem Benelli che riceve anch’egli sorridendo la sua gloriosa ferita?... Quale più gran guerra di quella che, su un fronte che non ha l’uguale in Europa – le Alpi! —hanno ammirata, riconosciuta, esaltata la missione francese, la missione inglese, la missione russa, e tutti hanno proclamata con ogni altra guerra incomparabile?...
E per questa gran guerra, cosa non ha fatto il ministero Salandra – attraverso, sia pure, molti viaggi un poco pomposi e molti discorsi, non tutti opportuni?... Tutto quanto occorreva ha preparato; la preparazione ha sempre mantenuta intensa e ininterrotta; ai soldati italiani mai è mancata cosa alcuna, anche nei momenti più difficili; l’Italia si è persino trovata in grado di provvedere, largamente e prontamente, ai bisogni dei combattenti alleati; ha meritato la gratitudine dei serbi, dei francesi, degl’inglesi; con le sue formidabili offensive, ed assorbendosi il peso della pressione austriaca nel Trentino, ha rese meno gravose le resistenze francesi a Verdun, ed ha preparata l’opportunità alle magnifiche avanzate russe in Volinia e in Galizia; ai convegni di Parigi e di Londra ha avuta la sua parte di onori e di oneri in perfetta uguaglianza con gli alleati; in Albania ha tenuto fronte alla minaccia austro-bulgara; sul mare ha fatto tutto quanto le condizioni speciali dell’Adriatico consentivano, arrivando fino a colpire ripetutamente – anche ieri – il nemico nelle acque stesse di Trieste… Chi può provare che avrebbe potuto fare di più?... E gli altri, gli alleati, cosa possono dire di aver fatto, comparativamente di più?...
Gl’interventisti, gli ultra-interventisti che hanno buttato giù il ministero Salandra, difficilmente saprebbero dirlo, essi!...
Ed io dico «gl’interventisti» perché senza di loro la crisi non sarebbe avvenuta. I socialisti ufficiali, continuando nel loro atteggiamento a tutto e a tutti avverso, non sarebbero mai arrivati a superare quella modesta quarantina di voti, contatisi in cento appelli nominali e rafforzati scarsamente da pochi «giolittiani» che nessuno vuole ora portare in auge. Se fosse stato per le fatiche di costoro, il ministero non sarebbe caduto – e se è caduto, il merito ne va a chi spetta – a radicali, socialisti riformisti, repubblicani – e nazionalisti – tutti interventisti – i quali ora si salvano chiedendo un gran ministero «nazionale» dal quale però siano esclusi – lo dicono i loro interpreti accorsi a Roma per questo – dal quale siano esclusi i «cattolici, i giolittiani, i socialisti ufficiali» e gli amici di Salandra. Una «concordia nazionale» che richiederà in breve una nuova cura ricostituente – e dovrà intanto cominciare – così domandano gli araldi interventisti – col dichiarare la guerra alla Germania.
Ecco la vera «più grande guerra» – per ora, e per poi; e per questa, e perché un vero «ministero nazionale» sorga, la bisogna è stata affidata ad un vecchio parlamentare, indubbiamente conciliativo – nientemeno che al decano della Camera, a Paolo, anzi, «Paolino» Boselli – che così lo chiamano gli amici – deputato dal novembre del 1870 ininterrottamente, ministro un’infinità di volte, in tutti i più diversi dicasteri, uomo mirabile per facilità di adattamenti, per scioltezza di movimenti, e dalla morte del Biancheri gran ministro dell’umana vanità – come diceva di se stesso, in uguale carica, Cesare Correnti – cioè gran segretario del magistero mauriziano e della Corona d’Italia.
Paolino Boselli per questa guerra è stato l’oratore parlamentare più fervente e più ripetutamente designato. Un giornale romano ricorda che «sono, infatti, di Paolo Boselli i due documenti parlamentari più vibranti di fede nelle rivendicazioni della patria e della civiltà: la relazione al progetto dei pieni poteri del maggio del 1915 e l’indirizzo della Camera al Re nel gennaio del 1916. Ed è suo e di Ciccotti l’ordine del giorno di unanimità nazionale del dicembre, ordine del giorno perorato dall’eloquente uomo con un inno che scosse sin nelle viscere l’assemblea». Boselli, non infastidito dal peso dei suoi settantotto anni – li compie questa domenica! – ha ora incessanti colloqui coi probabili futuri ministri. Non faccio nomi. Questi piccoli servizi di designazioni che spesso non durano un’ora – troppo poco per la vanità grande di chi le inspira! —lasciamoli ai corrispondenti telegrafici da Roma. Essi sanno per mestiere che vi sono deputati i quali, ad ogni crisi, si accontentano di ciò – essere stati designati da qualche corrispondente compiacente.
Ma, in quest’ora due nomi sovrastano al turbinìo di tante voglie, e superano l’ondata delle affollate pretese imponderabili – quello di Bissolati, che è insistentemente gridato in piazza; e quello di Sonnino.
Il ministro degli esteri è uomo che ha sempre pronta e vigile la coscienza di tutti i doveri – fra i quali la solidarietà, verso Salandra e la responsabilità, verso l’Italia. Ha tutti gli elementi per valutare e giudicare, e saprà decidersi secondo il dovere più assoluto. Egli è legatissimo a Paolino Boselli; sarebbe anzi più giusto dire che Paolino Boselli è legatissimo a lui. Sonnino non è quasi mai andato al governo senza voler seco Boselli, il suo fidissimo collega, il suo quasi abituale commensale nei lunghi periodi di vita parlamentare da ristorante. Vi è fra loro un’intimità antica che potrà riaffermarsi ancora più nella più leale cooperazione di governo.
Quanto a Bissolati, non v’ha dubbio, che, movendo dal socialismo più meditato – e sorpassando a scatti, che ebbero, un giorno, anche un grido meno che ortodosso – il deputato del II collegio di Roma – il collegio del Quirinale – l’ex direttore dell’Avanti! di venti anni fa, si è maturato a tutte le responsabilità eventuali del potere, attraverso un minuzioso spirito autocritico, una cultura indefessamente nutrita, ed una morale disciplina, estrinsecatasi l’anno scorso nel suo bel gesto di arruolarsi negli alpini, dove il sergente promosso per merito è stato tra i combattenti esempio a tutti di virtù, suggellata da una ferita che ne ha consacrata la odierna popolarità.
Andrà egli al governo?... Andò ad udienza reale in giacchetta e cappello a cencio; andrà con uguale semplicità al governo, se sarà necessario. Certo, fin d’ora, egli è il primo ad essere infastidito dei clamori che lo designano – e quasi vogliono imporlo come ministro per gl’interni; e salendo ripeterà entro sé, nella bene informata coscienza, l’invocazione famosa: «dagli amici mi guardi Iddio!...».
Boselli, Sonnino, Bissolati – messi insieme, sono già gli esponenti più che limpidi di un indirizzo che, almeno pel momento, dissiperà tutte le inquietudini. Per gli altri dicasteri non vi sarà penuria – più probabilmente, l’imbarazzo della scelta, in un paese così ricco di parlamentari ansiosi di governare.
Quale sarà, che cosa sarà, l’invocato «ministero nazionale» lo saprete forse voi lettori, quando questo Corriere vi capiterà sotto gli occhi. Voi augurate certo ed auguro anch’io, che il ministero che vivrà senta fortemente il proposito immutabile dell’Italia di volere che la gran guerra venga condotta nel miglior modo possibile alla vittoria, che soddisfi alle sacrosante aspirazioni nazionali. Per questo il nuovo ministero dovrà corrispondere alla concordia nazionale e interpretarla; e, diciamolo pure, perché questa concordia si esplichi e scaturiscano da essa i fatti che ne imprimano degnamente il segno nella nostra storia, bisognerà finirla davvero con le cospirazioni di corridoio, e coi frastornanti clamori di piazza.
La concordia nazionale, fondamento necessario al successo della grande lotta per la vittoria, non potrà essere raggiunta che da un governo che sappia ridurre a quel grande comune denominatore che è l’amore della patria la funzione di tutti, indistintamente, i partiti, con un’azione risultante più dai fatti e dalle opere assidue e quotidiane, che dai discorsi.
I discorsi – anche in un paese dall’«idioma gentile» come il nostro – sono spesso imbarazzanti e pericolosi. I guai di Antonio Salandra cominciarono col discorso detto a Torino all’Unione liberale.
«Noi siamo nella trincea – disse egli allora, il 1° febbraio scorso – e la trincea logora le forze. Può venire il momento di passare alle retrovie, e, bene inteso, per non dar luogo a false interpretazioni, passeremo alle retrovie tutti, a cominciare dal capo. Potrebbe venir questo momento. Ed il partito liberale monarchico, questo grande partito che ha fatta l’Italia e che dovrà compierla, deve avere provvista d’uomini, per offrirli in servizio, e, se occorra, in sagrifizio al paese. L’importante non è che vi siamo noi; l’importante è che in tutte le sue tendenze divergenti, il grande partito liberale monarchico si tenga unito; perché un gruppo, una parte sola, non basterebbe al compito da assolvere».
Ho rievocato questo brano del discorso dal quale i guai parlamentari cominciarono per Salandra immediati, ed in cinque mesi hanno dato il loro amaro frutto. L’ho rievocato perché esso dice con quale serenità d’animo oggi Salandra si ritira; e quali immutati doveri si impongono ai suoi successori.
Auguri a questi – non per i ministri, che passano – come ha detto alla Camera un deputato repubblicano – ma per l’Italia, che rimane, e deve sopravvivere vittoriosa!

14 giugno