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 1916  giugno 11 Domenica calendario

La guardia civile

L’Italia è un gran paese: se ha un difetto, è quello di essere troppo grande, moralmente intendo, quasi direi genialmente. Perché il genio vi spunta come l’erba: è una pianta selvatica che vien su da sé, senza che nessuno se ne occupi, e fiorisce dovunque, con qualunque clima, in qualunque zona. Il paese scoppia di salute e di intelligenza. La salute non è mai di troppo: d’accordo. Ma l’intelligenza può essere eccessiva, e come ogni eccesso, dannosa. In Italia c’è troppo poca gente che sappia rassegnarsi a non essere un genio – militare o politico – un divinatore prodigioso di tutti i bisogni e di tutti i mali che affliggono il paese, e specialmente di tutti i rimedi necessari a sanare piaghe e soddisfare necessità. E nessuno pensa che fra le piaghe, una delle più fastidiose è per l’appunto prodotta da quest’esuberanza di geni, e pur troppo non incompresi.
I geni incompresi almeno intristiscono da soli, e, piacendo a Dio, muoiono sterili. Il guaio peggiore è che i nostri trovano sempre chi li prende sul serio: la moglie, i figliuoli, gli amici, i compagni di scuola dei ragazzi, il droghiere di sotto casa, il tabaccaio della contrada, magari la serva o la portinaia soltanto. Ma ce n’è d’avanzo perché il loro male si diffonda, si propaghi, metta radici, e produca a sua volta tanti geni minori che col tempo si faranno grandi.
Il loro male consiste in questo: che sono tutti molto meglio informati, e molto più adatti per comandare l’esercito italiano, che non sia il generale Cadorna; e non si sa per quale strana aberrazione della sorte il compito di comandarlo sia toccato a lui, anziché a ciascuno di loro. Noi non ci sentiamo capaci di indagare fruttuosamente le cause recondite di questo fatto. Siamo modesti, e discreti: accettiamo gli eventi con la rassegnazione fiduciosa di chi non si è mai sognato di spiegarseli. Ma questo atteggiamento passivo del nostro spirito non può impedirci di considerare con una certa apprensione, oltreché con moltissimo sdegno, la petulanza loquace, la sicumera presuntuosa, la deprimente e insidiosa aura di diffidenza e di malanimo che certa gente diffonde nel paese.

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La si trova dappertutto, certa gente, e la si riconosce facilmente: ha quasi sempre sulla faccia l’impronta dell’animale velenoso. Se dice tre parole, si rivela: due almeno sono di disdegno scorato per la nostra guerra, per il nostro esercito, per i nostri generali: e ve le dice guardandovi di traverso, per vedere che effetto vi fanno, e per godere della più piccola ombra di inquietudine che possano indurre nell’animo vostro. Se contro questa insidia sottile e proditoria che tenta di scivolare cauta e venefica nel vostro spirito, reagite subito, bruscamente (magari malamente: è lecito, ed è sempre efficace), l’interlocutore prudente si ritira e si trincera nei «si dice», «mi hanno detto», «ho sentito dire», «sono voci che corrono»... Ma se non reagite, siete finito. Per poco che l’animo vostro offra una piccola fessura, uno spiraglio impercettibile alla inquietudine, al dubbio, alla trepidazione, il vostro uomo vi ci insinua subito tutto l’acido corrosivo che può raccogliere distillando le frasi più adatte: l’impreparazione del governo, l’imprevidenza del comando, l’incapacità dei condottieri, lo spirito depresso delle truppe, il tradimento delle popolazioni, lo spionaggio delle autorità (magari militari), il sabotaggio degli operai, la corruzione degli ambienti più alti; e poi diserzioni e pronunciamenti e ribellioni: l’esercito distrutto, la marina disfatta, la guerra convertita in ignominia, la rovina, la fame, lo sfacelo, 1’Italia ridotta in pezzettini non più grandi di un chicco di grano – e finalmente, la gran parola della suprema gioia: la rivoluzione! Il vostro uomo trionfa. Magari non crede una parola di quel che dice: sa di non poterci credere, perché se lo inventa – ma vi ha messo nel cuore una pena, nell’animo un dubbio, nello spirito uno spasimo e un tormento; e tanto vi ha amareggiato che vi ha tolto perfino la forza di reagire con uno qualunque di quegli argomenti che si stampano sulla faccia con le mani o sotto la schiena coi piedi. Ebbene quell’uomo è un genio: un genio del male, del malaugurio, della maledizione, ma un genio. perché egli sa e conosce il modo di rimediare a tutto.
E vi si attacca a un bottone del soprabito per raccontarvi che cosa doveva fare Cadorna, e come e quanto e perché abbia agito male facendo altrimenti: l’artiglieria lì, la fanteria là, gli alpini giù, i bersaglieri su, occupare questo monte, sbarrare quella valle, attaccare, picchiare, sconquassare, sbaragliare – e andare avanti perdio! Questo, doveva fare.
Se voi vi arrischiate a dire: «ma proprio? ma davvero doveva far così invece che cosà?» vi sentite rispondere questa frase in cui è tutto l’uomo: «te lo dico io!».
E voi dovete aver per fermo, e giurare, sicuri come nel vostro Dio, che se ve lo dice lui, non c’è errore possibile.
Il male è che i lui sono molte, troppe migliaia in Italia, e non ce ne sono due che vadano d’accordo... per fortuna. Se ci fossero, farebbero subito un Comitato e le cose si complicherebbero maledettamente. Ma chi sa che uno di questi giorni non si formi davvero un Comitato per affidare il comando dell’esercito al signor Tizio della prima sala del Biffi, e quello della marina al signor Cajo dell’ultima saletta di Aragno? Non c’è da scherzare. Conosco certi portinai maturi da almeno un anno per il ministero della guerra: e sono quei medesimi che l’anno prima erano proprio i right men per quella right place ideale ch’era il ministero degli esteri. Hanno cambiato aspirazioni, a seconda degli avvenimenti, ma non natura.
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Si dice e si crede spesso che non esaltiamo abbastanza le nostre virtù – le virtù sublimi di pazienza, di tenacia, di forza d’animo che sono la gloria della grande maggioranza dei cittadini. Ci sarebbe tuttavia un modo di esaltarle che avrebbe un doppio vantaggio: di segnalarle all’ammirazione della coscienza pubblica, e di difenderle: quello di combattere sempre, in ogni luogo, in ogni momento, in ogni circostanza, l’insidia della chiacchiera inquietante, della invenzione deprimente, della diceria scimunita e velenosa: questo pericolo costantemente nascosto nella stessa ostentazione delle parole, dette ad alta voce in un ritrovo pubblico o sussurrate con aria di mistero all’orecchio dell’amico, del cliente, del commensale, del vicino, in tram, al caffè, al teatro, in chiesa, da uno di quei tanti Cadorna disoccupati che hanno tutti – per strana combinazione – il privilegio di non essere soggetti ad obblighi militari. E non sempre per ragioni di età. Sono i geni della «smontatura», contro i quali ogni arma è buona, ogni difesa è legittima, starei per dire che ogni offesa è sacrosanta. Bella cosa, sì, la libertà di parola, la libertà di critica, la libertà di sindacato: ma vile e obbrobrioso modo di servirsene, senza conoscenza di fatti, di circostanze, di dati, di persone, di cose, mentre la più bella gioventù d’Italia dà il suo sangue per difendere il paese, e la sua dignità, e il suo avvenire, e la sua bellezza, e anche tutte le sue libertà gloriose, compresa quella di cui può usare ogni scalzacane – in regime democratico – per seminare l’inquietudine, lo sconforto, la sfiducia dietro ai combattenti... oh! molto indietro!
Nel cimento sanguinoso che fa ogni giorno le sue vittime, ogni uomo, lassù, è stretto a un dovere: e non vede e non sa e non conosce niente altro che il suo dovere preciso, spesso piccolo, sempre personale, limitato alla breve cerchia delle sue forze: delle migliaia e migliaia di altri doveri analoghi, cui sono assegnati migliaia e migliaia di altri soldati nulla sa, nulla può sapere, nulla deve occuparlo. Ognuno sa, soltanto, quel che deve fare: e sa di doverlo fare, e sa che l’adempimento del suo dovere può costargli la vita. Eppure ognuno compie coscienziosamente, meglio che sa e può, il proprio dovere, lassù, dinanzi al nemico, fino alla morte.
E quaggiù?
Per tutti quelli che non sono soldati, c’è un dovere tanto facile, tanto semplice, tanto onesto e punto pericoloso – circondare d’amore e di fiducia quelli che si battono – dal più umile fantaccino al più alto comandante – e tacere e far tacere ogni dubbio, perché ogni dubbio è infondato.
Si può dubitare, quando si sa qualcosa: ma quando non si sa?... E che sanno, gli strateghi dei caffè, i Napoleoni della poltrona, i Cesari del marciapiede? che sanno di guerra, e della nostra guerra?
Vogliamo sperare che non ne sappiano veramente nulla; sebbene abbiamo spesso il sospetto che ne abbian qualche notizia confidenziale da alcuno di quei tanti figuri che circolano ancora in Italia, a seminare menzogne ed infamie per conto dell’Austria – o di chi per essa. La difesa della patria esige una disciplina pei cittadini, rigorosa quanto quella dei militari, sebbene diversa: attenta a questa disciplina chi diffida; e chi manifesta diffidenza, la tradisce.
Tradisce quanto abbiamo e dobbiamo avere di più profondamente sacro: 1’amore orgoglioso dei nostri figliuoli e dei nostri fratelli che si battono. Al disopra di quest’orgoglio, non c’è che quello di battersi. È così facile, è così bello, è così confortante amarle quelle creature d’Italia, e sapere di poterle amare con tutta l’anima nostra, senza dubbi, senza timori, senza vergogna: perché adempiono meravigliosamente a un dovere supremo, obbediscono serenamente a un oscuro ed immenso ordine della patria.
Per il sangue d’ogni creatura nostra ch’è caduta raddoppiamo il nostro amore per chi vive, per vincere.
Contro i geni del male, della viltà, della paura erigiamo questo baluardo d’amore e di forza, di fiducia e di orgoglio, a difesa delle spalle di chi combatte.
Fra l’esercito che sanguina e i troppi geni loquaci che sbavano, occorre la vigilanza assidua, la protezione infrangibile dei cittadini. Mettiamo 1’anima nostra a difesa dei nostri eroi: e montiamo la guardia anche noi, per loro. In tempo di guerra non si possono fare dei discorsi lunghi, e le sentinelle non scherzano. Contro chi non grida la sua fede così: Italia!– sparano.