L’Illustrazione Italiana, 11 giugno 1916
Necrologi
Carlo Bertolazzi
La semplicità istintiva e bonaria, l’allegria, la spensieratezza e la confidenza unite insieme, si sarebbe detto avessero voluto fare di Carlo Bertolazzi un essere eternamente felice, destinato a rallegrare della propria vita e della vivacità del proprio ingegno e del proprio spirito tutta una sequela di generazioni!... E, purtroppo, egli è scomparso dalla vita a soli quarantacinque anni, dopo che, già da dieci, il lento malore che lo ha distrutto, avevalo ridotto quasi un’ombra sopravvivente in quegli ambienti giornalistici e teatrali ai quali egli aveva prodigato, dal 1888, per quasi venti anni tutta la giocondità del suo spirito e le naturali ricchezze del suo ingegno.
Aveva appena diciotto anni, il giovine laureando che dalla nativa Rivolta d’Adda erasi portato a cercare a Pavia, nelle pandette, X ubi consistam della vita – aveva appena diciotto anni, quando al teatro Girolamo di piazza Beccaria, in mezzo ad una baraonda delle più fragorose, ebbe un successo amichevolmente strepitoso la sua Mamma Teresa, data, nel 1888, da una compagnia di filodrammatici. Assorbiti i fumi della facile gloria, la via seducente e pericolosa gli fu inevitabilmente tracciata. Ave Maria, i coniugi Barbaccini, la Trilogia di Gilda, l’Azione per domani segnano i gradini successivi di un’ascensione, che culminò allorché la compagnia milanese Sbodio-Carnaghi, datasi al tentativo di rinnovare il teatro meneghino, portò Bertolazzi ai trionfi che intitolaronsi Benis de spos, Al mont de pietaa, El nost Milan, Strozzin, la Gibigianna – quattro o cinque commedie, per le quali il teatro Carcano risuonò di grandi applausi sinceri e meritati, e destinate a rimanere nel repertorio teatrale che voglia mantenere vive le ragioni dell’arte e della verità.
Carlo Bertolazzi, per sincerità di sentimento, e per impulso del carattere spensierato e generoso, vissuto in mezzo al popolo, aveva attinto alla cruda verità le figure, le situazioni delle sue commedie: la sua anima sensibile, il suo spirito di osservazione, la sua facilità assimilatrice avevanlo reso interprete efficace e sicuro delle anime quali apparivano nella realtà della vita vissuta; onde quel verismo artistico che aveva suscitato intorno a lui ed alla sua opera una folla di ammiratori, cresciuta col susseguirsi delle sue produzioni: l’Egoista, Lulù, la Casa del sonno. La maschera, il Successore, la Zitella, Lorenzo e il suo avvocato, il Diavolo e l’acqua santa, il Focolare domestico.
Nessuna, a dir vero, di quelle commedie, il capolavoro che si impone e trionfa perennemente attraverso i gusti mutevoli dei pubblici e la varietà delle scene; ma tutte cosparse di rare bellezze derivanti dalle due specialità del Bertolazzi: saper cogliere nella realtà della vita la verità, ed intuitiva padronanza e coscienza della progressione scenica.
In Bertolazzi non raffinatezze di forma, non artifici sovrapposti alla naturale sincerità, non discipline di scuole o adattamenti opportunistici; tutto un muoversi franco, libero, spontaneo a seconda della naturale sincerità, della naturale allegria – d’onde nei giornali – specialmente nella Sera di venti anni sono una critica artistica senza insidie, senza veleni, senza ipocrisie, inspirata dall’arte per l’arte, e dominata dalle schiette sensazioni del pubblico; sul teatro una verità così spontanea di sensazioni e di percezioni, che fecero di lui per venti anni un autore prediletto del pubblico: alle sue commedie si rideva, si godeva, si soffriva e si pensava.
Egli era singolarissimo per la facilità grande che aveva nello spostare la sua agilissima operosità da un campo all’altro: giornalista, drammaturgo, avvocato, brillante ufficiale degli alpini, da ultimo diplomatosi segretario comunale, poi datosi a fare il notaio. Contraddizioni?... No!... Erano tutti aspetti diversi della vita reale, attraverso i quali egli attingeva a saziare l’ardore messogli addosso dal mai spento in lui fuoco sacro dell’arte – fuoco che avrebbe mandati, attraverso i molti talenti suoi, ben maggiori bagliori, se la tabe insidiosa non lo avesse, da oltre dieci anni, afferrato e lentamente distrutto, pur lampeggiando sempre la sua vita nei grandi occhi azzurri, nella originalità delle improvvise osservazioni, nel malinconico sorriso che rivelavalo scettico sulla sorte propria, ma sempre entusiasta per quelle idealità estetiche onde si può dire che egli era arrivato a rappresentare nell’arte scenica le sentimentalità del romanticismo morente e le crudezze del verismo erompente.
Bohème quasi incorreggibile, dal suo studio di notaio balzava ancora a quando a quando nel turbinio teatrale, e al teatro diede l’altro anno, in collaborazione con Raffaello Barbiera, un lavoro, testé uscito in volume, I Fratelli Bandiera, dove vibrano le originarie inspirazioni del romanticismo, che, passate attraverso le rare facoltà intuitive di lui, ne fecero, innegabilmente un rinnovatore, più istintivo che dottrinale, dell’indirizzo teatrale italiano. A questo egli lascia, fra la sua molta e varia produzione, quattro o cinque lavori – El nost Milan, la Gibigianna, L’amico di tutti, L’egoista (voltato in veneto per Ferruccio Benini), la Casa del sonno – che in un vero repertorio nazionale dovranno rimanere e sulle scene rivivere – espressioni sincere della freschezza di un’anima e di un ingegno, spentisi tanto presto, forse, perché per la versatile, pronta, sempre ansiosa natura di Bertolazzi era più verosimile spegnersi, che invecchiare.
Rachele Magre Dieulafoy
I visitatori del museo del Louvre che ammirano anche oggidì le magnifiche decorazioni persiane – arcieri, leoni e tori alati, sacerdoti – che formano un fregio bellissimo e delicatissimo in terra cotta smaltata – sanno sì e no che quel mirabile documento dell’arte persiana dei tempi più remoti fu risuscitato alla cultura nostra dalla entusiastica fede di una donna – madama Rachele Magre Dieulafoy – che un trenta anni sono, ricca, moglie amantissima e riamata e felice, non avendo la gioia di avere figli e sapendo di non poterne avere, si diede, col marito, al piacere dei viaggi, percorse tutta 1’Europa, attraversò dal nord al Sud la Persia, facendovi lungo soggiorno, e qui, senza risparmio di danaro, di tempo, di fatica, rimise in luce le antichità dell’antica Susiana, e, superando difficoltà d’ogni genere, riuscì a portare in Francia ed installare al Louvre quei documenti preziosissimi della grandiosa architettura persiana. In lei, amabile, ospitale, ricca di grazie e di spirito era rimasta una specie di nostalgia della Persia, ma non avendo potuto ritornarvi con la persona, vi ritornò con lo spirito, pubblicando nel Tour du Monde le interessanti relazioni dei suoi viaggi; poi volgendosi alla letteratura e ben riuscendovi con romanzi – Parysatis, Rose d’Hatra, Frere Pelage ed altri – nei quali l’antico oriente e fino la Francia rivoluzionaria sono felicemente rappresentati. Da tanto lavoro stavasi riposando, allorché la guerra del 1914 portò al Marocco suo marito, colà inviato, malgrado l’età, quale comandante del genio: essa lo seguì, e ritrovò l’antico entusiasmo per dedicarsi con gioia allo scuoprimento, presso Rabbat, delle rovine di una moschea celebre nel medio evo, la Mansurah. Ma la freschezza degli anni non era più con lei; troppo si affaticò: tornò in Francia molto malata per sofferenze di fegato, che anche da giovane avevanla tormentata, ed ora si è spenta, a 65 anni, nella sua villa di Tolosa. Brillò nei ritrovi più intellettuali di Parigi per quarant’anni, spesso mescolata in abiti mascolini ai letterati e scienziati suoi amici; nella sua casa metteva in mostra tutte le delicate qualità femminili di perfetta dama educata a tutti i doveri della famiglia, ma della donna mondana mai ebbe le leggerezze e le debolezze, e dagl’imbarazzi delle assiduità mascoline traevasi graziosamente ridendo e rispondendo: «dite pure quel che volete, tanto io sono quasi un uomo!...».
Raffaele Faccioli
Con la morte del pittore bolognese Raffaele Faccioli è mancato all’arte italiana un simpatico temperamento di artista sentimentale, ingenuo e spontaneo. I colombi di San Marco, fu il primo quadro che gli diede la notorietà, all’esposizione di Vienna del 1876, meritandogli una delle primissime ricompense. Gli tennero dietro Fior che langue, Al mercato delle sete nel bolognese, Viaggio triste, quadro toccante per sentimento e passione, accolto nella Galleria nazionale di Belle Arti. Seguirono Cuor che piange. Alba nova, i Falciatori (esposizione di Torino del 1884), le Rogazioni, Parche rusticane, Baruffe rusticane, il Giuoco del pallone, Tosatura delle pecore. Ultimo saluto al piano (acquistato dalla Promotrice di Torino che poi lo cedette al Re, il quale desideravalo) tutti quadri compresi, amati dal pubblico, ed apprezzati dai competenti per la sicurezza del disegno, la nitidezza dei contorni, la delicata sincerità del sentimento. Raffaele Faccioli, nato a Bologna nel 1846, allievo del collegio Venturoli, si era fatto da sé studiando e osservando: in tutta Italia e nei principali paesi d’Europa aveva saputo cogliere dal vero le inspirazioni dell’arte; poi si era raccolto con intimo affetto nella sua Bologna, dove aveva coltivato con pieno successo anche il ritratto. Era presidente dell’Accademia bolognese delle Belle Arti; e da tutti amato per quella sua sentimentale bontà rispecchiata da tutta la sua opera.
Egisto Lancerotto
Non secondato dalla fortuna come il Faccioli, ma non inferiore a lui per meriti artistici e per qualità di sentimento fu Egisto Lancerotto, artista notissimo della scuola genuinamente veneziana, nella quale ebbero un periodo di simpatica rinomanza i suoi quadri ed i suoi ritratti pieni di luce e di festività. Per almeno venti anni – dal 1879 in poi – le sue tele furono in voga: il pianeta della sorte; la fioraia; in giardino; il convegno; la zingara; al verone; felicità materna; l’anticamera dello studio; ballo di nozze; «Ghe vostu proprio ben?»; chiozzotti in porto, ed altre ancora attirarono le simpatie del pubblico, fino alle prime biennali veneziane; poi si delinearono nuovi indirizzi dell’arte, e Lancerotto non si sentì il temperamento di lottare e di vincere ancora. Da qualche tempo viveva in disparte, degno tuttavia come uomo e come artista di sorte migliore. Aveva 68 anni.
Pietro Mandiroli
Merita una parola di ricordo il tenente colonnello Pietro Mandiroli, di fanteria, noto ed apprezzato cultore degli studii storici militari: egli si era specialmente dedicato alle ricerche sulle origini dei Corpi e delle loro insegne d’onore: in tema di bandiere era conosciuto dai competenti di tutta Europa, ed attendeva da anni ad un lavoro veramente di mole: diede opera, con Enrico Ghisi e col compianto e dotto colonnello Gonella, alla nuova edizione delle bandiere. Stendardi e Vessilli di Casa Savoia del De Sonnaz; e lascia per la storia delle bandiere militari italiane ricco materiale. Non aveva che 53 anni.