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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

Quant’è difficile restaurare un film (vedi da ultimo Rocco e i suoi fratelli)

Rocco e i suoi fratelli si chiamavano Pafundi, e non Parondi. Solo che durante la proiezione del film alla Mostra di Venezia del 1960, contro Luchino Visconti era in corso la causa di un magistrato milanese, tale – appunto – Pafundi, offeso dall’uso che il regista aveva fatto del suo cognome, legato alle vicende di una madre e dei suoi cinque figli, emigrati dalla Basilicata a Milano in cerca di una vita migliore. E così, sulla copia “positiva” di Venezia, stampata dal negativo originale, un montatore aveva dovuto mettere le mani e camuffare quel nome, apportando – fisicamente – delle sovrapposizioni. Ci vuole un occhio attento, ancora oggi, per accorgersene. Anzi, ci son voluti gli occhi – preparati e allenati – dei restauratori del laboratorio “L’immagine ritrovata”, nato molti anni fa grazie all’impulso della Cineteca di Bologna. Un luogo in cui le certezze dei normali cinefili crollano di fronte alla complessità del lavoro svolto per tutto il mondo.
Si fa presto a dire restauro e digitalizzazione. Come se i capolavori ritrovati che tornano nelle nostre sale (Rocco e i suoi fratelli, nella versione integrale, sarà visibile dal 7 marzo per il quarantennale della morte di Visconti) fossero il prodotto di pochi semplici macchinari che puliscono le pellicole e le scannerizzano alla stregua di una banale fotografia. Niente di più sbagliato: nessuna macchina – neanche le più all’avanguardia, che pure a Bologna ci sono – può sostituire un’eccellenza italiana. Il primo ambiente del Laboratorio è destinato alla riparazione: il negativo viene fatto scorrere e gli addetti osservano (e riparano manualmente) uno per uno i fotogrammi, alla ricerca di una giunta da rifare, di una perforazione distrutta, di una muffa e del generale decadimento chimico-fisico. Nel caso di Rocco, alcune parti del negativo erano addirittura inutilizzabili, a causa delle muffe. Si è così dovuti ricorrere a un “controtipo positivo”, quello presentato a Venezia, che era stato dunque validato dal regista e dal direttore della fotografia, Giuseppe Rotunno.
Quando la prima fase termina, il negativo finisce in una sala chiusa. È il luogo della digitalizzazione. All’interno ci sono due scanner che permettono l’acquisizione di tutti i tipi di pellicole, anche quelle fuori standard (per esempio i 28 millimetri). I film in bianco e nero passano attraverso un liquido, che fa sì che vengano attenuati ulteriormente graffi e muffe. Ci sono poi altre due macchine che consentono il percorso inverso, dal digitale alla pellicola: un’operazione costosa, ma che garantisce – nell’era dell’inconsistenza – un supporto fisico.
Una volta scannerizzate, le immagini del negativo vengono comparate con l’interpositivo, per poterle, nel caso, sostituire. Ed è in questa fase che i restauratori di Bologna si sono accorti del cognome posticcio di Rocco. Che fare, però, tornare alla versione originale? Correggere gli effetti speciali dell’epoca che oggi appaiono ingenui? “Assolutamente no. Il nostro è un lavoro filologico, oltre che culturale – ci spiega Elena Tammaccaro, project manager del Laboratorio –. Dobbiamo rispettare le volontà del regista, che come nel caso di Visconti è morto da tempo. Per Rocco abbiamo solo reintegrato due scene che erano state tagliate. Il nostro obiettivo è restituire allo spettatore il film così come era stato pensato. Certo, questo dipende anche dal committente. Lavoriamo tantissimo con l’Asia e nel 2015 abbiamo aperto una sede a Hong Kong. In questo caso, molti film sono destinati al Blu-ray e il pubblico orientale ha aspettative diverse dalle nostre”.
Ad aprile verrà aperta una sede a Parigi, anche in forza della collaborazione con Pathé Cinema. “Lavoriamo con Warner, Sony e con la Film Foundation di Martin Scorsese – prosegue Tammaccaro –. È lui che ci commissiona la maggior parte del restauro delle opere italiane, di cui è cultore”. Il direttore del Laboratorio, Davide Pozzi, passa le giornate in giro per il mondo, non soltanto a caccia di nuovi clienti. Buona parte del fatturato viene reinvestito sulle nuove tecnologie e sulla formazione del personale: 80 dipendenti, ad oggi, pescati spesso dalle università e formati all’interno. In estate, a Bologna o addirittura in India, viene persino organizzata una “summer school”.
Rocco è dunque rimasto Parondi. Ma le immagini, ormai digitalizzate, non si sono fermate e sono approdate a una fase successiva, il restauro digitale. Una stanza buia, nella quale i film restano dalle 500 alle 2.000 ore. Ognuna delle 36 persone che lavorano qui passa al setaccio le scene, individua ed elimina righe, aloni, muffe o tracce di sporco, stabilizza le immagini, corregge il pompaggio luminoso. Un lavoro ripetuto su ogni singola inquadratura di un film, che ne esce pulito. Ma non ancora pronto per la sala.
Anzi sì, ma per quella piccola che si trova dentro il Laboratorio, dove altri operatori lavorano alla correzione del colore. Con strumenti pensati per la post-produzione moderna, restituiscono al film luci, contrasti e colori originari. Non sempre è facile, specie in assenza di copie validate dal direttore della fotografia. O invece, con un po’ di fortuna, capita di poter avere accanto Giuseppe Rotunno in persona, che di “Rocco” – a 92 anni – ricorda ancora tutto. “Nel ’60 non c’erano le pellicole di oggi – racconta Giandomenico, uno dei tecnici – per girare serviva la luce. E invece nel film di Visconti molte scene sono notturne. Rotunno forzò la pellicola, usando contrasti molto spinti per favorire l’effetto drammatico. Lavorando con lui abbiamo restituito all’opera lo spirito originario”. Un lavoro analogo fanno i tecnici del restauro audio.
Solo al termine di questo lungo processo un film può dirsi “ritrovato” davvero e approdare a Cannes, a Venezia, nelle sale o anche solo nel nostro dvd. E restituirci il volto di Alain Delon nei panni di Rocco Pafundi. Pardon, Parondi.