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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

Il racconto di un padre a cui un pirata della strada ha ucciso il figlio

«A volte la mente umana fa davvero brutti scherzi, per difenderci dal dolore. Pensi, quando mi risvegliai dal coma, dopo più di tre mesi dall’incidente, mia moglie e mia suocera mi dissero che Alessandro era morto. Lì per lì non capii. Ricordo però che accostai il pensiero della perdita di mio figlio a qualcosa che avrei potuto riacquistare, anche se non sarebbe stata bella come prima. Suona un po’ demenziale, ma andò proprio così. Soltanto quando tornai a casa capii che la mia vita era stata distrutta».
Cinque anni dopo l’incidente e sette interventi chirurgici, Calogero Sgrò sta ancora facendo cure e fisioterapia. Il 3 dicembre 2011 due giovani tossicodipendenti aostani, bramosi di dosi, investono la famiglia Sgrò sulle strisce pedonali di corso Peschiera, una delle grandi arterie alberate di Torino. Con l’auto insanguinata e sfigurata dall’urto, vanno all’appuntamento con il pusher e poi tornano a casa ad Aosta. Saranno arrestati 45 giorni dopo. Il piccolo Alessandro, 7 anni, muore in ospedale. La mamma, Simonetta, rimane ferita ma non grave. Lui va in coma.
L’omicidio stradale è legge. È un punto di svolta contro i pirati della strada?
«Seguendo dibattiti in tivù o leggendo articoli sul tema mi sono fatto spesso questa domanda: è giusta la legge sull’omicidio stradale? Francamente non saprei. Una parte di me dice di sì, che è giusto, che servono regole nuove come deterrente contro chi si mette alla guida drogato o ubriaco. Ma l’altra parte di me vuole soltanto fuggire, rifiutare la realtà. È giusto quello che è successo a me e mia moglie? Nemmeno 300 anni di galera avrebbero potuto ridarmi mio figlio».
I giovani che hanno provocato l’incidete sono stati condannati in primo grado a 11 anni, poi le loro pene sono state dimezzate con la cancellazione delle aggravanti e il premio per il percorso di recupero. È giustizia ?
«Tutti possono sbagliare guidando: farlo in quelle condizioni è qualcosa di spaventoso. Non dico che si debba infierire, ma le condanne devono insegnare, devono servire per il futuro e impedire il ripetersi delle cose. Rispetto la decisione, per carità. Ma non è giusta. Per tutti, non soltanto per noi. La giustizia di facciata fa credere che si possa fare di tutto rischiando pochissimo, anche prendersi la vita degli altri».
E loro lo hanno fatto...
«Hanno fatto molto di più. Non hanno solo distrutto la vita di un bambino, il suo futuro. Hanno distrutto una famiglia intera. Spesso, a chi mi chiede come sto, dico: “Non offenderti, non puoi capire. Ti auguro di non trovarti mai nella mia situazione”. Anche se provi a ripartire ti senti menomato. Ci sono cose peggiori di quella che è capitata a me? Non credo».
Lei è riuscito a ripartire?
«Sto facendo fisioterapia per essere indipendente. Anche se riesco già a muovermi da solo, mi sento ancora un po’ legnoso. Ho dovuto tornare a scuola a riprendere la patente di guida, adesso sto cercando un’auto che mi consenta di spostarmi. Così potrò essere più libero quando mi viene voglia di andare a trovare il mio piccolo. Sembra folle, lo so: eppure se non vado a trovarlo di fronte a quel muro, non sto bene. Mi manca non andare al cimitero».
Adesso avete anche cambiato casa...
«Sì, è stato necessario. Un po’ per facilitarmi nei movimenti, e soprattutto per non dover sempre vedere dalle finestre di casa il giardinetto dove portavo Alessandro a giocare al pallone. Adesso quel campo sportivo è intitolato a lui».