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 2016  marzo 03 Giovedì calendario

Sullo pseudonimo. Perché un autore maschio decide di firmare i suoi libri con nome femminile?

Se Mohammed Moulessehoul ha scelto di chiamarsi Yasmina Khadra per motivi politici, uno squisito scrittore austriaco, Gregor von Rezzori (1914-1998), scelse uno pseudonimo femminile nella Berlino nazista dei primi anni Quaranta quando, senza un soldo, capì che poteva mantenersi scrivendo romanzi sentimentali d’appendice.
Perché, in voce di donna, le parole d’amore sono più credibili. Stéphane Mallarmé (sì, quello di L’après-midi d’un faune, poema rifiutato dai parnassiani perché troppo crudo) si firmò Violante de Cysneiros sulla rivista «Orpheu» (1915): altrimenti come avrebbe potuto disquisire di moda, argomento del quale aveva intuito la modernissima potenza?
La vera domanda: quand’è che si sceglie di «diventare donna» nel nome dell’arte? Innanzitutto quando si ha bisogno di soldi facili: l’ex ad della Shell Italia, Sergio Grea, quando decise di diventare uno scrittore, si scelse un bel nome muliebre (Angela P. Miller), scalò le classifiche con racconti «rosa» e non si scompose affatto nell’ammettere, in una intervista: «Guardate, questi libri sono letti da tantissima gente. Uomini compresi».
Marketing, insomma. D’altra parte, che cos’altro fu la scelta di Marcel Duchamp di firmare alcune opere come Belle Haleine, Eau de Voilette (1921) con lo pseudonimo di Rrose Sélavy? Fine passamaneria commerciale, delizie di una ricerca artistica che scopriva (e impietosamente svelava) il valore del mercato nell’estetica. Il travestimento di Salvador Dalí fu più disperato: in estremo tentativo di appropriarsi della parte femminile rubandola alla moglie, arrivò a firmarsi – in alcune occasioni – «Salvador Gala Dalí». «Noioso è lo scrittore che non ha mai desiderato di essere una scrittrice», affermò il russo Boris Akunin (1956), apprezzato giallista russo, quando svelò che dietro il nom de plume di Anna Borisova (promosso con tanto di foto di sua moglie) si nascondevano i suoi romanzi. Che, detto per inciso, andarono benissimo: più di 200 mila copie sul mercato russo. Ma per un autore che di copie ne vende dieci milioni, viene da pensare che non si tratti di mera brama di quattrini: nel caso di Akunin sembra più un divertissement. Un po’ come faceva Fernando Pessoa che scrisse versi servendosi, oltre del suo nome, di una ventina di pseudonimi, ciascuno «coltivato» e dotato di una precisa scheda biografica.
Per le donne è stato (e in qualche caso è ancora) diverso. Alcune sono state costrette a vestire nomi maschili: chissà se quando Van Gogh scrisse al fratello Theo raccomandandogli di leggere il romanzo appena uscito, Shirley (da poco riproposto da Fazi), sapeva che l’autore, tale Currer Bell, era in realtà Charlotte Brontë – la stessa che aveva scritto Jane Eyre.
Non solo. Caterina Albert i Paradís (1869-1966) decise di diventare Victor Català per scrivere sul serio, affrontando anche temi come quelli contenuti nel monologo La infanticida. Diverso è il caso di George Eliot: Marian Evans scelse il nome più per divertimento che per necessità. Il caso più interessante è quello dell’autrice di Harry Potter. J. K. Rowling ha confessato di aver scritto Il richiamo del cuculo con l’eteronimo di Robert Galbraith per testare la vera natura del suo successo: davvero era dovuto alle sue reali capacità scrittorie o piuttosto alla popolarità che le aveva regalato la saga del maghetto? La verità venne a galla troppo presto per poterlo stabilire.
Niente a che vedere con la vera rivincita dei nomi femminili: la storia di Harriet Burden, raccontata ne Il mondo sfolgorante, di Siri Hustvedt (Einaudi). Artista e moglie (frustrata) di un importante gallerista di New York, decide di eseguire tre importanti progetti, nei quali mette tutta se stessa, ma di farli «firmare» da tre artisti uomini, non particolarmente affermati. Svelerà tutto alla fine, sottolineando come, nell’arte come nella letteratura, vediamo quello che vogliamo vedere e che la percezione del talento è pesantemente condizionata dal genere.