Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 03 Giovedì calendario

Il Corriere compie 140 anni. Claudio Magris racconta la sua esperienza nella redazione del giornale

Cinque marzo 1876, esce il primo numero del Corriere della Sera. L’Italia di quel giorno a noi sembra protostoria; Garibaldi e Marx sono ancora vivi, il Partito socialista non è stato ancora fondato, i fratelli Wright non sono ancora riusciti a volare e a smentire il loro padre vescovo metodista secondo il quale mai l’uomo ne sarebbe stato capace. Quei 140 anni, quei 51.000 giorni e più, con l’incredibile e sempre più accelerata trasformazione della realtà e dell’uomo stesso, sono un’era. Ed è per me ogni volta stupefacente e insieme rassicurante pensare che da più di un terzo di quell’era scrivo sul Corriere, da quando, credo su suggerimento di Enzo Bettiza, Giovanni Grazzini nell’ottobre del 1967 mi pubblicò, in quello che allora si chiamava Corriere letterario, un articolo su Max Brod e Kafka, un battesimo fondamentale nella mia vita.
Il giornale si tuffa nel mondo e nella sua polvere, senza paura di sporcarsi le mani ma sapendo che per restare pulite e rendere più pulito il mondo quelle mani devono immergersi nel disordine delle cose, pronte anche a prendere per il bavero la menzogna.
È una barca di carta spazzata di continuo dalle onde, è sempre in viaggio e non conosce la pace del porto. Quanto più è esatta e onesta nella sua rappresentazione del reale, tanto più la sua cronaca assomiglia spesso a un testo surrealista, perché accosta sulla pagina le cose più diverse del reale, l’assurdità, il bene ed il male, il coraggio, il sudiciume e le inimmaginabili trasformazioni del mondo. È il brogliaccio di un tentacolare e gigantesco romanzo ormai globale.
Un giornale ha enorme importanza e responsabilità – che è facile tradire – nella formazione di un Paese. Nessun giornale, con tutte le forche caudine delle varie pressioni e ragnatele, della gregaria convenzionalità spesso imperante talora di epoche terribili che deve attraversare, è senza peccato. Nemmeno il Corriere. Ma nella sua lunga e talora contraddittoria storia esso ha assolto complessivamente in grande misura al compito di un grande giornale. Per questo è divenuto, nella sua navigazione di lungo corso, il giornale d’Italia. Sulle sue pagine hanno scritto giornalisti, scrittori, politici, studiosi che hanno fatto grande non solo il Corriere ma l’Italia. Servizi, inchieste, reportage – cronache fedeli all’istante che diventano Storia.
Forse il segreto del Corriere e della sua grandezza (credo fin dai tempi di Albertini) risiede pure nella medietà, se così si può dire, che con sfumature diverse e con grandi impennate di originalità lo ha caratterizzato. Risiede in quell’assenza di partito preso a priori e di tono eclatante, spocchioso o ideologico, che ha potuto farne il giornale di quasi tutti e non solo per l’eccellenza delle firme e dei servizi. Ho sempre amato i giornali che – a parte quelli esplicitamente e onestamente di partito – non fanno capire subito l’orientamento politico o ideologico di chi li tiene in mano. Il Corriere non è mai stato e non è un club supponente di migliori né un salotto di chi la sa più lunga e si considera più avanzato degli altri. È un giornale civile, originariamente espressione di una solida borghesia, con i suoi pregi e difetti, e forse oggi per questo in una certa difficoltà, in un mondo in cui sono sparite le tradizionali classi sociali, pressoché amalgamate in una palude colloidale e gelatinosa.
Certamente, in tanti anni, il Corriere ha avuto le sue oscillazioni, ardite innovazioni e guardinghe cautele; ha avuto le sue cadute e le sue confusioni, incertezze titubanti con i poteri economici o il melmoso e rovinoso coinvolgimento con la P2, affrontato e respinto con sanguigno coraggio da Alberto Cavallari, mio fratello maggiore. Ma il Corriere ha saputo difendere la propria autonomia anche con toni più ironici eppure non meno inflessibili, come quando ad esempio Ferruccio de Bortoli, altro grande direttore che mi ha aiutato a crescere, scriveva in prima pagina «pubblichiamo volentieri questa lettera dell’on. Previti e l’avremmo pubblicata anche senza i cortesi solleciti di Palazzo Chigi».
Il Corriere mi ha fatto crescere, è stato una fondamentale scuola della mia vita. Una scuola di scrittura, che insegna a mettere i propri fantasmi a contatto con il mondo e a prestare più attenzione a quest’ultimo che a quelli; che insegna a scrivere su un evento che piomba addosso all’improvviso senza poter studiarlo prima di scrivere ma riflettendovi e studiandolo mentre lo si scrive in lotta con il tempo e con il numero delle battute, altra salutare ginnastica del pensiero e della fantasia. Una grande educazione linguistica, che insegna a essere comprensibili a quel lettore medio sconosciuto che è sempre il tuo interlocutore ma senza cedere alla falsa e ingannevole semplificazione, mettendosi a rischio in quel dialogo col lettore, come in ogni vero dialogo.
Di questi quarantanove anni al Corriere vorrei raccontare tante cose che mi hanno formato. Piccole e grandi; belle, dure, comiche, tragiche, conflittuali, fraterne. La mia mania di litigare per i titoli, con Grazzini e Nascimbeni che mi prendevano in giro e poi, nel caso di quest’ultimo, una conciliatrice partita a carte, a cotecio, di cui Nascimbeni era un campione – aveva pure vinto il trofeo dell’Oca d’argento a Verona – spirito che continua oggi nel fraterno cammino insieme ad Antonio Troiano. La severa, formatrice gerarchia di un tempo; i miei primi direttori, Alfio Russo e Giovanni Spadolini – di cui più tardi sarei divenuto molto amico – non li ho neppure mai visti e sulla Terza Pagina ho potuto scrivere un articolo solo dopo sei anni di collaborazione al Corriere letterario, nonostante Gaspare Barbiellini Amidei, altro amico cui sono debitore, avesse cercato di «spingermi» più in alto un paio d’anni prima. Gli anni del terrorismo, il corpo di Tobagi steso a terra. Il fumo rassicurante della pipa di Ugo Stille. Mieli che mi rende meno ansiosa la mia breve parentesi parlamentare spingendomi a continuare a scrivere pure in quel periodo.
Momenti drammatici, in cui ho visto pressoché l’intero corpo del giornale stringersi in una battaglia comune e ho capito che il lavoro tecnico, concreto all’ingranaggio del giornale non vale meno di chi lo scrive o lo dirige, come i marinai che sbrogliano le vele o i motoristi in sala macchine conducono la nave non meno degli ufficiali sul ponte. Altri momenti invece conflittuali, in cui l’unità del giornale sembrava in pericolo.
Tante cose si affollano. I viaggi per il Corriere, che mi hanno aiutato a trovare me stesso; le battaglie etico-politiche, i grandi personaggi del Corriere, solo intravisti, come Buzzati al suo tavolo, o frequentati, come Biagi e, purtroppo tardi, Montanelli. Le lettere dei lettori, cui rispondo una per una – precisazioni, ringraziamenti, commenti, correzioni, richieste, elogi, insulti. I dimafonisti, necessari al mio analfabetismo digitale, con i quali un tempo avevo pure cordiali discussioni circa le loro proposte, ora accettate ora rifiutate, di correzioni al mio articolo che stavo loro dettando. Dopo che il loro numero era stato drasticamente ridotto, è toccato anche al direttore de Bortoli ricevere la mia dettatura al telefono e lo considero una vera promozione simbolica, i gradi di caporale napoleonicamente ricevuti sul campo. Il tempo passa, dice un personaggio di Cent’anni di solitudine. Mica tanto, risponde un altro. Il tempo condensato dei decenni trascorsi fa tutt’uno con quello frenetico del giornale da fare ogni giorno, con le notizie che arrivano e le pagine composte, scomposte e ricomposte fino all’ultimo momento. Vita convulsa in cui però ci si sente a casa.
Sì, il tempo passa ed è sempre più difficile. «Ah per queste cose ci vorrebbe un giornale!» diceva sarcastico il direttore Missiroli. Forse questo giornale, come del resto lui sapeva benissimo, e come sa il direttore Fontana, c’è.