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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Usa, il paradiso fiscale più grande del mondo. L’America vista da Riccardo Ruggeri

A partire dal 2010 ho spesso scritto del Facta Usa (Foregein Account Tax Compilance Act). Sul Web si trova una sterminata documentazione (per chi vuole approfondire) su questa disciplina unilaterale statunitense che obbligò ogni istituzione finanziaria del mondo (pubblica e privata, fine all’ultimo intermediario) a fornire alla loro Agenzia delle Entrate (Irs) tutte le posizioni finanziarie-fiscali dei cittadini americani. Si trattava di mettere in piedi, con le buone o le cattive (chi non si fosse adeguato sarebbe stato espulso dalle piazze finanziarie anglosassoni) un gigantesco sistema informativo a loro uso e consumo.
Da vecchio apòta sentii subito puzza di bruciato, mi chiesi perché il Partito della Nazione Usa (i padri di Facta sono Bush e Obama) mette in piedi questo mostruoso catafalco per ricuperare al massimo 800 milioni $ di tasse potenzialmente evase? Ridicolo. Eppure, Facta ruppe tutte le resistenze dei vari paesi, la povera Svizzera, che in Costituzione aveva il segreto bancario, alla fine dovette capitolare. In pratica tutti i cosiddetti paradisi fiscali vennero spazzati via. Mi convinsi, ovvio solo psicologicamente, che Obama voleva fare dell’America l’ultimo-unico paradiso fiscale: il momento era magico per la spallata finale. Ocse si allineò, mise a punto un meccanismo tale da scovare evasori fiscali ovunque nel mondo, anche nell’ultimo sottoscala.
Anni fa un amico svizzero mi disse: e se gli Usa imponessero a tutti Paesi del mondo il grimaldello Facta ma loro non praticassero l’ovvia reciprocità?
Riflettendoci mi convinsi che gli Usa non l’avrebbero fatto, rimanendo così l’unico Paradiso fiscale al mondo. Predisposi il «semilavorato» di questo Cameo, lo misi da parte, in attesa di tempi migliori.
Sono arrivati. Piccoli giornali cominciano a scriverci, primi accenni dei grandi. L’Istituto indipendente «Tax Justice Network» ha sentenziato che gli Usa, in termini fiscali sono:
a) meno trasparenti di Singapore, del Lussemburgo e (udite, udite) delle Cayman;
b) insieme a Bahrein, Nauru, Vanuatu sono gli unici 4 paesi al mondo (sic!) che si sono rifiutati di firmare il protocollo Ocse sulla trasparenza fiscale-finanziari. Al vecchio offshore Delaware, si sono ora aggiunti Wyoming, Nevada, South Dakota.
Che fanno i birbanti? Creano società di comodo per chi vuole nascondere qualcosa al fisco e azzerare il carico fiscale delle Big Usa. La stessa Apple, nota per il «double Irish», ha creato (fonte Nyt) la sussidiaria Braeburn Capital per la gestione della liquidità, con sede in Nevada, lo Stato libertario azzera sia «corporate tax» sia «capital gain».
E la California che perde le tasse dei Big di Silicon Valley che fa? Come ricupera i poco meno di 2 miliardi $?
Con la tassa sulla liberalizzazione della marijuana. Drogandosi, i californiani poveri pagano le tasse sottratte dalle felpe ricche. Una genialata.
Pare che i grandi capitali stiano lasciando tutti gli ex paradisi fiscali del mondo per «fuggire» in Usa. Il meccanismo più banale lo esemplifica Bolton Global Capital di Boston: ricco messicano apre un conto in Usa usando una società delle Isole Vergini inglesi. Al Governo messicano le Isole Vergini comunicheranno sì i dati del conto ma solo il nome della società, non del beneficiario. Un giochino talmente perfetto nella sua semplicità da risultare imbarazzante.
Un reporter dell’Ong Global Witness racconta un’inchiesta (stile Report), con telecamera nascosta, presso 13 celebri studi legali di New York per avere indicazioni professionali su come allocare molti quattrini, facendo capire, volutamente, che sono frutto di corruzione (non in Usa).
Uno ha rifiutato sdegnosamente, gli altri dodici hanno suggerito un Trust americano, alcuni hanno addirittura proposto di usare i loro conti corrente per occultare il nominativo del cliente. Stefanie Ostfeld di G.W. dice che gli Stati Uniti sono ora la destinazione più gettonata da politici corrotti, grandi evasori fiscali, cartelli della droga, organizzazioni terroristiche.
Avendone viste di tutti i colori, conoscendo bene i processi mentali-morali degli americani delle Classi Dominanti, non mi stupisco più di tanto, sono loro i migliori interpreti del ceo-capitalism. Provo tenerezza verso quegli ingenui dei miei concittadini che credono ancora al liberalismo americano, alle felpe californiane, a Wall Street, alle loro buffonesche teorie che di liberale nulla hanno. La tanto mitizzata disintermediazione del ceo capitalism è questa? No, la mia America è un’altra.