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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Filippo Facci se la prende col Fatto Quotidiano per l’articolo di Ferruccio Sansa sui giudici «obbligati» a liberare i ladri: «Sono tutte balle»

Un lungo e involuto articolo, ieri, strombazzava la solita ragione sociale del Fatto Quotidiano: più galera per tutti. In prima pagina, addirittura, il titolo d’apertura era «Vietato arrestare i ladri» con sottotitolo «obbligati a scarcerare topi d’appartamento e rapinatori», il tutto per via «della legge del governo sulla custodia cautelare». Ora: posto che la difesa di questo governo non è affar nostro (c’è già la fila) le balle tuttavia restano balle, e quelle del Fatto lo sono. In sostanza è tutto falso: nessuno può scarcerare rapinatori e topi d’appartamento in virtù della nuova legge, tantomeno i magistrati che il Fatto Intervista; la nuova legge, fatta anche per decongestionare le carceri come pure il Fatto auspicava, rinsalda un cardine dello Stato di diritto che evidentemente non era abbastanza incardinato: non puoi mettere in galera (preventiva) un tizio che prevedibilmente non sarà neppure condannato alla galera, cioè non sarà condannato a una pena superiore ai tre anni. Domanda chiave: i rapinatori e i topi d’appartamento rientrano nella categoria? Possono, cioè, essere condannati a meno di tre anni? Risposta: no, non c’è attenuante o cavillo che tenga, mentre la facoltà di concedere riti alternativi e quindi di abbassare la pena, beh, è una facoltà degli stessi magistrati che si lagnano. Tra questi, inspiegabilmente, ci sarebbe il procuratore generale di Venezia Antonino Condorelli, secondo il quale «sono troppi i reati per cui non possiamo applicare la custodia cautelare in carcere». Sarà: purché non dica che tra questi reati c’è anche la rapina e il furto in appartamento, come spara genericamente il Fatto. Di passaggio: tra i reati che lascerebbero in libertà i malviventi non c’è neppure lo spaccio, come ancora titolava il Fatto: a meno di intendere lo spaccio di lieve entità (che non è vero spaccio, perché non abituale) ma che prevede comunque gli arresti domiciliari. Forse i secondini del Fatto non li giudicano abbastanza punitivi. Bene, ma allora di che reati si parla? Quali sono le piaghe sociali per cui i banditi scorrazzano liberi? «Il problema», scrive il Fatto, «riguarda anche casi di rapina semplice, cioè quando per strada ti portano via il portafogli senza usare un’arma». Informazione: si chiamano scippi, e ora sappiamo che il Fatto vorrebbe tenere in carcere preventivo tutti i borseggiatori d’Italia fino a sentenza definitiva, cioè per anni e anni: altro che sovraffollamento carcerario, non basterebbe la Sardegna. Va aggiunto – è un’altra informazione che forniamo – che è così in tutto il mondo: la pena, in genere, si sconta dopo una condanna, non prima. E ci avviciniamo al problema, sempre quello: i tempi della giustizia. Essere garantisti non significa auspicare che certa gentaglia scorrazzi libera, ma che smetta di farlo solo dopo un accertamento cui segua una sentenza di condanna: la normalità sarebbe questa, altrimenti, di innocenti rinchiusi in galera preventiva, ne abbiamo già avuti abbastanza. Chi deve incaricarsene? «La grandissima maggioranza dei nostri fascicoli finiscono in niente... una buona parte finisce in assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e patteggiamenti». Il Fatto dixit. Posto che i patteggiamenti non sono letame (vi si regge l’intera giustizia degli Stati Uniti, che chiude la maggioranza dei processi prima di cominciarli) è straordinario come ancora una volta si parli come se la magistratura non avesse un ruolo in tutto questo: come se, cioè, la storica inefficienza della giustizia italiana non dipendesse anche dalla storica inefficienza di una larga parte della magistratura italiana, ancor oggi coordinata da «capi» eletti per pastette politiche e non certo con criteri basati su efficienza e managerialità. Secondo il procuratore generale di Venezia, il citato Condorelli, intervistato dal Fatto, «può capitare che in Trentino il responsabile di un reato possa essere arrestato e in Veneto no», questo perché «in Trentino c’è un rapporto molto più favorevole tra magistrati e fascicoli». In Trentino cioè condannano in fretta. Secondo Condorelli è solo una questione numerica, la capacità di lavoro non c’entra: eppure sono stati proprio dei suoi colleghi – come Mario Barbuto, presidente di tribunale a Torino e inventore del «metodo piemontese» che ha dimezzato le cause civili – a spiegare che «non tutto dipende dai buchi nella pianta organica degli uffici». Se Venezia o altre procure non figurano propriamente ai primi posti della classifica stilata dall’«Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia» (presieduto dalla ex Guardasigilli Paola Severino) forse ci sono altre spiegazioni: che coincidono, talvolta, persino con magistrati inerti e intoccabili come le loro ferie.
Che poi il bizantino sistema di impugnazioni si possa migliorare, beh, non ci piove. Ieri il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio si è detto «assediato da un mostruoso numero di ricorsi» e ha invocato un decreto che attenui un «flusso di ricorsi patologico» che non ha eguali del mondo. È vero. Ma è anche vero che il maggior cliente della Cassazione resta lo Stato: 48 per cento dei ricorsi. È la giustizia che divora se stessa, sino a morirne. 
[Leggi qui l’articolo del Fatto Quotidiano di ieri]