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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

L’acciaio di Livorno in mano all’imprenditore predatore algerino

Un lettore del Tirreno, quotidiano livornese che segue passo passo il dramma delle acciaierie di Piombino, ha sintetizzato il momento con un magistrale scioglilingua: «Ovvìa, manca poco alla prossima tavola rotonda per decidere il calendario sulle decisioni da intraprendere rispetto alla lettera di intenti finalizzata all’attivazione di una procedura di formalizzazione dell’assemblea per la valutazione preventiva del tavolo di discussione in cui sarà finalmente sancito che l’abbiamo presa tutti nel culo». La siderurgia italiana muore, e a Piombino come a Taranto, intere comunità in ansia vengono prese in giro con tavoli pluriennali.
Ieri l’ennesima tappa della via crucis si è svolta secondo la liturgia consolidata. Un pullman di operai è partito di buon mattino da Piombino per raggiungere il ministero dello Sviluppo economico a Roma. Una trentina di rassegnati si sono piazzati davanti al portone con le loro bandiere sindacali per scaldare il cinismo di politici e burocrati. A fare la guardia un blindato della polizia carico di annoiati combattenti. Dentro il ministero il sottosegretario Teresa Bellanova, fresca di nomina perché rimpastata un mese fa, si è fatta prendere in giro dai rappresentanti di Issad Rebrab, l’imprenditore algerino che da un anno e mezzo fa promesse mirabolanti e non le mantiene. Ma ormai il futuro di Piombino gli è stato consegnato. Mauro Faticanti della Fiom ha così sintetizzato la riunione: “L’azienda ha dichiarato che entro marzo contrattualizzerà l’acquisto della tecnologia per partire con i lavori della siderurgia ma, anche a domanda diretta, non ha spiegato cosa questo significhi nella pratica”. Chiaro, no?
Proviamo a rimettere in ordine una storia che, dietro l’apparenza di commedia, cela la tragedia dell’industria italiana. Piombino è la culla della siderurgia. Nella notte dei tempi il minerale ferroso era quello dell’isola d’Elba lì davanti, che i romani chiamavano Ilva, e così abbiamo chiarito la primogenitura. Se Taranto era la mecca dei prodotti piani (le lamiere) Piombino ha la vocazione dei “lunghi”: dalle rotaie ferroviarie al tondino per cemento armato, alle travi. Privatizzate vent’anni fa insieme a Taranto, le Acciaierie andarono al bresciano Giuseppe Lucchini, che lamentava di non essere riuscito a prendersi Taranto perché Emilio Riva era amico di Silvio Berlusconi e lui no. Lucchini a un certo punto non ce la fa più e subentrano i russi della Severstal. Poi vanno a gambe all’aria anche loro e l’azienda viene commissariata. Nel 2013, governo Letta, il sottosegretario Claudio De Vincenti apre il mitico tavolo per definire «in tempi brevi» (sic) gli interventi di «infrastrutturazione, riqualificazione e reindustrializzazione dell’area». Il commissario Piero Nardi, vecchio manager di scuola Ilva, cerca qualcuno che si compri l’azienda cadavere. Per lunghi mesi del 2014 tratta con il gruppo indiano Jindal. Quando sta per chiudere spunta dal nulla Rebrab, il quale con il suo gruppo Cevital fa sognare i piombinesi: parla di produzione siderurgica stellare, di attività agroalimentari, di polo logistico, insomma fa balenare migliaia di posti di lavoro in più dei 2100 attualmente in ballo.
È lì che accade qualcosa di strano. Il presidente della Federacciai, Antonio Gozzi, mette in guardia la politica: «Oggi purtroppo si fanno promesse puntando sull’ansia occupazionale di Piombino». Il suo punto è chiaro: siamo in crisi, la produzione di “lunghi” in Italia si è dimezzata, che senso ha venire a produrre qui? Il governatore della Toscana, Enrico Rossi, reagisce duramente, accusa Gozzi di difendere le sue aziende dalla concorrenza di Rebrab, gli imputa la turbativa d’asta e lo minaccia di azioni legali. Una curiosa concezione del mercato. Sensato che aziende in concorrenza si uccidano tra loro. Strano che un’azienda uccisa dal mercato venga resuscitata dallo Stato con il mandato di trovarsi lo spazio vitale a costo di ucciderne un’altra che, eventualmente, dovrà essere salvata a sua volta dallo Stato.
Rebrab sbarca trionfalmente a Piombino a metà 2015, ma i mesi passano e non fa quello che ha promesso. La cosa più strana è che non ordina il nuovo forno elettrico che, dopo due anni di costruzione, dovrebbe prendere il posto dell’altoforno. Ieri, convocato per dare la data, ha mandato a dire che solo ad aprile sapremo se e quando ordinerà il nuovo forno.
Intanto, qualche settimana fa, sul Sole 24 Ore, Claudio Gatti ha raccontato una storia inquietante. Il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika è malato e suo fratello Said ne ha approfittato per prendere il potere. Nel trambusto Rebrab sarebbe caduto in disgrazia, e questo ostacolerebbe i suoi movimenti. La cosa più eclatante è la testimonianza di un analista secondo il quale Rebrab non sarebbe altro che un oligarca di tipo post-sovietico: «La classe imprenditoriale algerina è assolutamente parassitaria, un’élite predatoria che ha imparato a fare soldi in uno Stato arbitrario. Rebrab rientra a pieno in questo modello: non si è mai confrontato con forze di libero mercato. Si è semplicemente legato al potere politico-militare locale».
E qui c’è il grande dubbio. Chi ha messo il futuro di Piombino nelle capaci mani di Rebrab dovrebbe spiegarci in base a quale algoritmo le deplorevoli sorti dell’industria italiana dovrebbero essere risollevate da capitali algerini, cioè da una classe dirigente che le grandi aziende italiane – quando ricambiano la visita – vanno sistematicamente a corrompere.