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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Banchiere, mafioso e massone. Ecco chi era Michele Sindona, l’uomo capace di ordinare un assassinio, di fingere il proprio rapimento e di travestire da omicidio il proprio suicidio


Banche, politica, mafia, massoneria, Vaticano: per chi lo abbia ancora presente, il nome di Michele Sindona evoca gli ingredienti di un giallo dozzinale. A 40 anni di distanza, è arduo capacitarsi che un personaggio simile, capace di ordinare un assassinio, fingere il proprio rapimento, infine di travestire da omicidio il proprio suicidio, sia andato vicino a dominare la finanza italiana.
«Oggi fatichiamo a ricostruire un’atmosfera che può apparire quasi surreale» scrive Marco Magnani. Eppure lui – economista della Banca d’Italia e storico – c’è riuscito, in un libro da ieri in libreria, insieme scorrevole e documentatissimo, equilibrato e privo di reticenze sulle responsabilità dei potenti di allora (Sindona. Biografia degli anni Settanta, Einaudi, pp. 160, € 21). 
Non c’era solo il piombo dei terroristi, in quegli anni. Chi si oppose al finanziere siciliano sapeva che lui e i suoi amici mafiosi contavano su complici nello Stato e avevano accesso a Giulio Andreotti. L’avvocato Giorgio Ambrosoli pagò con la vita, nessun politico andò al suo funerale, e trent’anni dopo Andreotti lo definì «una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».
Tanto era asfittico l’assetto del capitalismo italiano che perfino un conservatore come Cesare Merzagora, che perfino Eugenio Scalfari all’inizio avevano sperato in Sindona per immettere aria nuova; banche inglesi e americane partecipavano alle sue imprese, il Vaticano gli affidava ciecamente grandi risorse. Forse la mafia gli era dietro dall’inizio, forse arrivò solo dopo.
I crac bancari
Fin dal 1971-72 le ispezioni della Banca d’Italia avevano rivelato irregolarità gravi e possibili reati. Ma Guido Carli, allora governatore, non aveva agito; né la magistratura di Milano, a cui le carte erano state inviate, si era mossa. Poi tra la primavera e l’autunno del ’74 sia la banca americana di Sindona sia quella italiana fallirono, travolte da speculazioni valutarie.
Così l’Italia, tra il referendum sul divorzio, le stragi neofasciste a Brescia e sul treno Italicus, il sequestro Sossi che dette celebrità alle Brigate rosse, affrontava la sua prima crisi bancaria di tipo moderno: senza averne gli strumenti, e anzi nella persistente tendenza a lavare i panni sporchi dei banchieri al riparo dagli occhi del pubblico.
Con gli occhi di oggi, il costo per la collettività di quel crac appare limitato, 127 miliardi di lire di allora, una cifra non grande anche per la piccola Italia di allora. Stupisce invece quanto a lungo e con quanta aggressività Sindona – frattanto colpito da mandato di cattura e latitante – abbia tentato di tornare in sella, ovvero di ottenere la revoca della liquidazione coatta. Il miglior ritratto dell’epoca è lì.
Si mobilitarono i picciotti della mafia arrivando a minacciare il banchiere Enrico Cuccia, considerato un nemico; la loggia P2 attivò i suoi iscritti; due giudici romani orchestrarono una vendetta incarcerando nel marzo del ’79 l’allora vicedirettore generale della Banca d’Italia Mario Sarcinelli con accuse rivelatesi poi inconsistenti. 
Era all’opera un «complesso politico-affaristico-giudiziario» (parole di Paolo Baffi, che sentendosi sfiduciato si dimise da governatore) popolato da personaggi che rimasero all’opera a lungo, nel crac del Banco Ambrosiano collegato alla P2, nei vari scandali degli Anni Ottanta, e alla fine in Tangentopoli. 
Le trame di Licio Gelli
Sindona aveva dato miliardi alla Dc, era stato in affari con i cardinali dello Ior, si proclamava perseguitato dai comunisti; le trame di Licio Gelli prima in favore di Sindona poi di Roberto Calvi furono spesso protette dal Psi di Bettino Craxi. Però Magnani è severo anche con il Pci, timoroso di indebolire Andreotti capo del governo che per la prima volta appoggiava.
Compare qui un retroscena inedito: subito dopo l’arresto di Sarcinelli, il dirigente della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca andò, caso eccezionale, nella sede comunista di via delle Botteghe Oscure in cerca di solidarietà. Il responsabile economico, Luciano Barca, era personalmente ben disposto, ma lo avvertì che «nel partito non avevano ancora capito se Andreotti era un angelo o un demonio». 
Era poi «Inferno e Paradiso» l’infantile giochino di carta piegata con cui Sindona maniacalmente teneva le mani occupate, notò nel 1975 Lietta Tornabuoni intervistandolo per questo giornale. Appunto: al di là di schematici opposti l’Italia di allora, economica e politica, mancava di laiche regole, e della capacità di rispettarle: di questo, conclude Magnani, «Sindona fu la personificazione estrema». 
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