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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Quel 5 gennaio di due anni fa, quando i soldati italiani in Afghanistan sfiorarono l’apocalisse. Un’operazione da film

Era il 5 gennaio del 2014, due anni fa. Ultimi giorni del governo Letta. Nell’Afghanistan occidentale, distretto di Shindand, un elicottero delle forze speciali italiane, un CH47 Chinook colorato di nero, con plancia corazzata e mitraglieri su due lati, di primo mattino sbarca un drappello di incursori italiani e afghani per una missione clandestina. Una tipica operazione di forze speciali. In gergo la chiamano «infiltrazione», classico esempio di quella guerra segreta che piace tanto al Pentagono e ai governi occidentali. 
Ebbene, l’operazione del 5 gennaio 2014 ha rischiato di trasformarsi in tragedia. Come scoprirono i sovietici ai tempi dell’Armata Rossa, muoversi in Afghanistan è particolarmente pericoloso perché il Paese è fatto di ripide colline da cui è facile controllare il territorio e sparare razzi. Il Chinook italiano, dunque, quel giorno atterrò in campo aperto, gli incursori si slanciarono fuori dal portellone posteriore, e di colpo si scatenò l’inferno. 
Come andarono le cose, non lo sappiamo certo dai comunicati ufficiali del ministero della Difesa. Comunicati intrisi di camomilla. «Colpi di arma da fuoco – scrivevano – sono stati sparati contro un elicottero della task-force “Fenice” in fase di atterraggio a 30 chilometri a sud di Shindand, in un’operazione a supporto delle forze di sicurezza afghane. Nessun militare italiano è rimasto ferito». 
«Black Hawk Down»
Nossignore, quel giorno si rasentò l’apocalisse. Solo chi ricorda quel famoso film che è «Black Hawk Down», di Ridley Scott, forse si rende conto di quanto abbiano rischiato i nostri soldati. E ce lo racconta, paradossalmente, la Gazzetta Ufficiale. Sulla più noiosa pubblicazione d’Italia sono infatti comparse le palpitanti motivazioni di cinque medaglie al valore militare, due d’oro e tre d’argento, concesse ai membri dell’equipaggio del Chinook per il loro eroico comportamento. Ecco che cosa hanno fatto. 
Il tenente colonnello Raffaele Aruanno, comandante di aeromobile, «bersagliato da violento fuoco nemico, con coraggio, lucidissima determinazione e a rischio della propria vita, si accertava in prima persona che nessuno dei militari sbarcati rimanesse sul terreno e manovrava il proprio elicottero, gravemente danneggiato, consentendo l’evacuazione dei feriti a bordo». 
La manovra di decollo 
Il capitano Paolo Giangregorio, pilota, «con mirabile lucidità e sangue freddo, manteneva il controllo dell’aeromobile e, avuto conferma del recupero di tutto il personale già a terra, sprezzante del pericolo, iniziava la manovra di decollo, consentendo con il proprio ardito operato l’immediata evacuazione dei feriti a bordo». 
Il sergente Alessio Carducci, tecnico operatore di bordo, «incurante dei proiettili che lo avevano appena lambito e di una copiosa e pericolosa perdita di olio idraulico che lo investiva in pieno sulla rampa, si esponeva a manifesto rischio della propria vita, trascinando fisicamente all’interno dell’elicottero i propri commilitoni».
Il caporalmaggiore Antonio Garzia, mitragliere di bordo, «con coraggio e chiaro sprezzo del pericolo, forniva fuoco di copertura a protezione del lato sinistro del velivolo, mantenendo audacemente la posizione. Esperto militare, esponendosi con il proprio temerario operato a manifesto rischio della vita, assicurava il reimbarco del personale dispiegato sul terreno». 
Il primo caporalmaggiore Simone Sernacchioli, secondo mitragliere di bordo, «sebbene investito da un ingente quantità di olio idraulico fuoriuscito da una tubazione danneggiata dai numerosi proiettili che avevano centrato l’aeromobile, con estremo coraggio e consapevole sprezzo del pericolo, rispondeva efficacemente al fuoco, contribuendo in maniera determinante alle operazioni di reimbarco del personale».
Quel 5 gennaio 2014, dunque, che a rivedere i giornali dell’epoca erano monopolizzati dalle dimissioni del viceministro Stefano Fassina, piccato per una battuta di Renzi, già segretario del Pd ma non ancora premier, gli incursori italiani e afghani rischiarono la vita. Dovevano sorprendere gli insorti e invece finirono in trappola. Se l’elicottero nero, pur bersagliato di colpi e pesantemente danneggiato, non fosse riuscito a riprendere il volo, se i mitraglieri di bordo non si fossero scatenati, sporgendosi dalle aperture con le mitragliatrici pesanti per un adeguato fuoco di copertura, se il colonnello Aruanno e il sergente Carducci, pur inondati dall’olio idraulico che usciva dai tubi, a rischio di finire bruciati vivi non fossero rimasti sulla rampa posteriore a tirare dentro di forza gli uomini feriti, oggi racconteremmo di medaglie alla memoria.