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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

L’Italia ha resistito alla recessione, ora bisogna capire se le nuove dinamiche di consumo funzioneranno

Il consuntivo del 2015 consegna agli italiani la certezza di essersi messi alle spalle la recessione più lunga della loro storia democratica. Li lascia anche con un dubbio: che il modello grazie al quale il Paese ha evitato esiti ancora peggiori in questi anni sia al tramonto. Accantonato per far posto a un’Italia diversa, se non altro nelle dinamiche del reddito. Il punto è capire se funzionerà, e soprattutto fino a quando. Che il 2015 sia stato il primo anno di crescita dal 2010 lo dicono i numeri. L’economia è cresciuta dello 0,8%, metà della media dell’area euro, non abbastanza per tornare anche solo ai livelli del duemila, ma più di quanto non riuscisse a realizzare da un pezzo. Una boa è superata. Dentro quello «zero virgola» però sono in sommovimento vari fattori di una metamorfosi nelle abitudini del Paese, in un sistema internazionale che a sua volta non assomiglia più a quello di pochi anni fa.
Per non finire sopraffatti nella crisi, noi italiani in questi anni avevamo attivato due leve: l’aumento del risparmio privato e pubblico (al netto degli interessi sul debito) e una dipendenza sempre più estrema dai mercati esteri per compensare il crollo dei consumi e degli investimenti interni. Da quando Lehman Brothers ha alzato bandiera bianca nel 2008, aprendo un’altra epoca, per cinque anni su otto il contributo di quella che l’Istat chiama «domanda estera» è stato positivo per la crescita. A volte anche molto positivo, come nel 2012, quando tutto il resto era difficilissimo. L’Italia tutta insieme non è ancora tornata ai livelli di inizio secolo ma gli incassi da export nel 2011 erano già sopra ai livelli del 2008 e da allora non hanno fatto che salire: un balzo di oltre cento miliardi in sei anni, fino a superare quota quattrocento miliardi nel 2015. Senza, l’Italia oggi sarebbe una Grecia più grande e più complicata da gestire.
Nel frattempo la finanza pubblica spingeva, inevitabilmente, in direzione opposta. C’erano (e restano) un grosso deficit da ridurre più un enorme debito da finanziare. Tagli e tasse sono serviti solo a questo, ma dal 2011 in poi quasi ogni variazione annuale del bilancio pubblico ha spinto l’economia un po’ più giù. La reazione degli italiani è arrivata a catena: gli investimenti sono scesi per sette anni di fila e sulle spese delle famiglie la storia è simile, solo appena meno drastica.
Non è stato un modello di sviluppo, è stato un modello di resistenza disperata. Di certo però esso sembra rovesciarsi sulla testa adesso, nei giorni in cui il governo di Matteo Renzi entra nel suo terzo anno di vita. La migliore novità di ieri non è la magra crescita del Pil – sarebbe considerata un disastro praticamente in qualunque altro Paese di Eurolandia – ma il fatto che per la prima volta gli investimenti risalgono. Di pochissimo (0,1%), però contribuiscono alla crescita. Fino a ieri i bambini di terza elementare non erano mai vissuti in un Paese che ha investimenti stabili, o in lieve aumento, e lo si vede anche dallo stato delle scuole.
Crescono anche i consumi delle famiglie, mentre le imprese tornano a riempire un po’ i magazzini contando di vendere qualcosa di più. Soprattutto, il bilancio dello Stato per la prima volta da un pezzo smette di agire come una zavorra sul resto dell’economia e l’anno prossimo diventerà addirittura vento di poppa: bonus e tagli alle tasse aiuteranno, anche se si assottiglia sempre di più il margine di bilancio prima di pagare gli interessi, mentre il deficit e il debito restano alti.
Poi però c’è l’altro lato di questo ribaltamento. La «domanda estera» ora è negativa, cioè toglie dalla crescita. Senza, l’Italia andrebbe meglio. L’export è salito anche nel 2015, però meno dell’import. Quest’ultimo si è impennato del 6% perché gli italiani hanno speso i loro bonus del governo in smartphone progettati in Corea, e via consumando. Nel frattempo molti clienti del made in Italy, dalla Cina alla Turchia, diventano più guardinghi a causa dei loro problemi. Non è un caso se il principale indice industriale del made in Italy, in linea con tutta Europa, è ai minimi da un anno. Così gli italiani di solito mercantilisti e risparmiatori sembrano pronti a entrare, sospinti dal governo, in una delle loro fasi in cui consumano risorse che non sono certi di avere. Il Paese prova a sollevarsi tirandosi per i lacci delle scarpe.
Ci sarà chi critica Renzi per questo, chi lo giustifica e chi lo applaude. I rischi che il governo sta prendendo sono evidenti. Di certo però il suo nuovo «modello» di sviluppo ne mette a nudo soprattutto l’impotenza. Così gravata dal debito, l’Italia non ha le leve per uscire da sola dalla strettoia in cui è finita in questa stagnazione globale. Se saprà contribuire a una soluzione europea, l’unica possibile, lo si capirà molto presto.