Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

In Brasile il vicepresidente di Facebook per l’America Latina è stato arrestato per non aver fornito le chat WhatsApp di alcuni narcotrafficanti

Ognuno ha i suoi sistemi. Gli spacciatori di Baltimora usavano le cabine in strada, a volte cellulari usa e getta. I terroristi compravano i telefonini con schede «cinesi». Altri criminali non hanno utilizzato mai nulla, tutto a voce, con colloqui di persone. Altri ancora, con il passare del tempo, si sono affidati ai nuovi sistemi sui social network. Metodi e trucchi per sottrarsi alle indagini. Un duello tecnico-legale con sviluppi che vanno oltre i protagonisti. Lo dimostra l’ultimo episodio: la polizia brasiliana ha arrestato, a San Paolo, Diego Dzodan, vice presidente di Facebook per l’America Latina. Motivo: la sua compagnia non ha collaborato con le autorità che volevano informazioni su messaggi scambiati su WhatsApp tra alcuni trafficanti di droga. Sviluppo clamoroso dopo un primo scontro.
Già a dicembre la magistratura brasiliana si era mossa contro la compagnia di Palo Alto e aveva bloccato – sia pure temporaneamente – la rete WhatsApp. Provvedimento risposta al no della società a fornire elementi relativi ad alcuni clienti finiti sotto inchiesta per una vicenda di droga. In quell’occasione c’erano state proteste, con il fondatore Mark Zuckerberg che aveva commentato: «È un giorno triste per il Paese». Ieri la compagnia ha reagito sostenendo che c’è sempre stata piena collaborazione: «Non siamo in grado di fornire informazioni che non abbiamo, la polizia ha arrestato qualcuno su dati che non esistono. Inoltre, WhatsApp e Facebook funzionano in modo indipendente, quindi la decisione di arrestare un dipendente di un’altra società è un passo estremo e ingiustificato».
Il magistrato, invece, ritiene il contrario. Gli inquirenti avrebbero infatti accertato che una banda di narcos manteneva i contatti usando proprio il popolarissimo WhatsApp. Così prima ha comminato una multa – l’equivalente di 230 mila euro —, quindi ha mandato la squadra giudiziaria a prelevare Dzodan. Un segnale evidente di come sempre più le esigenze di sicurezza e il diritto alla privacy entrino sempre più in conflitto. A livello globale.
La storia brasiliana segue quella che oppone l’Fbi alla Apple negli Stati Uniti. Caso ormai noto. I federali hanno chiesto ai tecnici di Cupertino di sbloccare l’accesso a un iPhone di proprietà del terrorista responsabile della strage di San Bernardino, un militante che ha agito insieme alla moglie offrendo la missione al Califfo dell’Isis. In apparenza l’estremista ha agito senza avere grandi legami esterni. Da qui la necessità di sapere di più sui possibili rapporti all’interno degli Stati Uniti, ma anche all’estero.
Il no di Apple, accompagnato da discussioni e valutazioni contrastanti, ha trovato una sponda – non da poco – in un giudice federale di New York che ha deliberato: il Dipartimento di giustizia non può costringere la compagnia ad «aprire» il cellulare in questione. Neppure per una vicenda drammatica, costata la vita a 14 persone inermi. Con posizioni così discordanti come uscirne? Negli Stati Uniti si invoca un intervento del Congresso che stabilisca dei criteri e, se non bastasse, un giudizio della Corte suprema. Nel frattempo, nel resto del mondo, l’iniziativa è lasciata ai singoli magistrati che agiscono in base a leggi e convinzioni, con passi clamorosi che stabiliscono un precedente. Per questo le manette ai polsi di Dzodan potrebbero essere solo l’inizio.