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 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Ma la crisi non è finita

 La crisi non è finita, meglio dirlo subito. Certo siamo usciti dalla lunga recessione, ma un Pil che aumenta dello 0,8%, che a prezzi costanti vuol dire aver prodotto una ricchezza sotto il livello del 2000, e un numero di disoccupati che sfiora i tre milioni non ci mettono al riparo da una possibile ricaduta.
Questa è una ripresa fragile e forse non è neanche una vera ripresa, tant’è che dobbiamo fare i conti con l’insidiosa malattia della deflazione. Il Fondo monetario internazionale ha abbassato le previsioni della crescita mondiale dal 3,6 al 3,4 per cento e per noi che – per fortuna – siamo immersi nell’economia globale vuol dire che la strada è ancora tutta in salita, di scorciatoie non ce ne sono. Dobbiamo guadagnarcela la ripresa. La risalita sarà lenta e faticosa, come è stata la fuoriuscita dalla recessione.
Ma non partiamo da zero perché gli anni del rallentamento ci hanno aiutato a cambiare, almeno un po’. E non è solo merito del governo in carica, che pure c’è. Se le esportazioni sono cresciute del 4,3 per cento è perché una quota significativa (almeno il 25 per cento) dei nostri imprenditori (in genere alla guida di gruppi di medie dimensioni) ha davvero imparato a vivere nei mercati internazionali. Ha mantenuto la testa delle aziende nel nostro Paese, ha delocalizzato le produzioni quando serviva, ha investito in innovazione, in ricerca e sul capitale umano. Ha dunque reinvestito nell’impresa i profitti, ha mantenuto l’indebitamento a livelli fisiologici, ha accresciuto l’occupazione, ha in genere costruito buone relazioni industriali, e talvolta si è quotato in Borsa, abbandonando i vizi peggiori del capitalismo familiare e lasciando le poltrone che contano a manager competenti.
Sono i nuovi capitalisti italiani che hanno fatto bene il proprio mestiere, spesso lontano dalla ribalta. È l’altra faccia del Made in Italy, quello della meccanica di precisione, delle biotecnologie, della farmaceutica, solo per fare qualche esempio. Un pezzo del nostro apparato produttivo che ha funzionato nonostante una tassazione opprimente, nonostante una burocrazia a dir poco stupida, che nessun governo (al di là delle promesse o delle «chiacchiere», per dirla con il nostro presidente del Consiglio) è riuscito ancora a piegare. Sono questi capitalisti (e i loro dipendenti) il perno della piccola ripresa.
Molte delle misure che il governo ha preso in questi mesi erano dirette proprio a loro, dalla stessa riforma del mercato del lavoro, al cosiddetto super- ammortamento per incentivare gli investimenti in beni strumentali, fino al credito di imposta per gli investimenti in ricerca. La ripresa degli investimenti complessivi (+0,8 per cento dopo otto anni di segno negativo) risente fortemente del comportamento di questi settori produttivi. Se si investe vuol dire che si ha fiducia nel futuro, che si comincia ad intravedere una prospettiva diversa. Un segnale significativo.
Come è significativo quel che è accaduto sul mercato del lavoro. Da gennaio sono stati ridotti al 40 per cento gli sgravi contributivi rispetto al livello del 2015. Ci si aspettava una caduta delle assunzioni a tempo indeterminato, immaginando che le imprese avrebbero cercato di sfruttare al massimo gli sconti previsti fino a dicembre. Non è accaduto. A gennaio l’occupazione è aumentata di 70 mila unità, grazie proprio al lavoro standard: 99 mila posti in più contro un calo di 28 mila unità dei dipendenti a termine e una sostanziale stabilità dei lavoratori autonomi. A piccoli passi il Jobs act, da questo punto di vista, sta funzionando.
L’occupazione non si sta impennando (con un tasso di disoccupazione dell’11,5 per cento che raggiunge il 39,3 per cento tra i giovani, è difficile poterlo sostenere) ma nel mercato del lavoro comincia ad esserci un po’ meno precarietà, al netto della sospetta diffusione dei voucher soprattutto in alcune aree del Paese.
Manca l’altra gamba del Jobs act, cioè le politiche attive, quelle che consentono a domanda e offerta di lavoro di incontrarsi, rimaste al palo nonostante dovessero partire proprio a gennaio. A conferma che non basta scriverle le riforme perché si realizzino. È una questione di credibilità. La stessa che si rischia di perdere inseguendo un sacrosanto taglio delle tasse senza però adeguata copertura finanziaria. Dopo tanti sacrifici, il voto (quello per le elezioni amministrative, per intendersi) può davvero attendere.