Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 02 Mercoledì calendario

Petrolio, caccia all’immigrato, culto delle armi ma soprattutto Dio. Trump sarà pure il favorito ma Ted Cruz non molla

Bibbia e petrolio. Caccia all’immigrato e culto delle armi. Se questo è il Fort Alamo da cui deve partire la resistenza al ciclone Donald Trump, attenzione: allacciarsi le cinture. Ted Cruz, il senatore del Texas che si presenta come alternativa al tycoon newyorchese, lo scavalca a destra. Il suo grido di guerra: «Trump non è un vero conservatore, non è un vero cristiano. E non dà garanzie sufficienti che caccerà davvero 12 milioni di stranieri».
Seguo Cruz e il suo popolo di fedelissimi “in casa”, nel Supermartedì che assegna quasi un terzo dei delegati repubblicani per la nomination alla Casa Bianca. Di questi ben 155 delegati sono scelti nella primaria del Texas, il più grosso serbatoio di voti della destra. La prima tappa è alla Baptist University, ateneo alla periferia sud-ovest di Houston, sulla Fondren Road. Ci accoglie all’ingresso dell’università un Museo di Storia del Sud che esalta la battaglia di Galveston (1863), vittoria dei confederati cioè i difensori dello schiavismo. Tra i documenti raccolti nel museo, le prove che il Texas è l’unico Stato ad avere conservato il diritto costituzionale alla secessione: un’opzione che periodicamente torna d’attualità negli ambienti dell’estrema destra, quando a Washington governa un liberal come Barack Obama.
La platea del teatro universitario trabocca di un pubblico entusiasta, sono venuti in massa gli evangelici, zoccolo duro dei militanti pro-Cruz. Sfilano i politici locali, l’ex governatore del Texas Rick Perry e il suo successore Greg Abbott, annunciano Cruz lanciando dal palco la madre di tutte le accuse: «Non si può votare per uno come Trump che dice di non chiedere mai perdono a Dio. Con Obama per sette anni e mezzo le nostre libertà religiose sono state sotto attacco. Cruz ha due guide nella sua vita: la Bibbia e la Costituzione». In quest’ordine, si presume. E quando viene evocata la Costituzione si allude in realtà al Secondo Emendamento, che una Corte suprema controllata dalla destra interpretò come diritto assoluto a girare armati.
Standing ovation, e la star locale appare sul palco. Subito partono gli attacchi a Trump, l’uomo da battere, il Frankenstein che l’establishment repubblicano ha preparato per anni e che ora si rivolta contro le logiche di partito. Ma è chiaro da quale angolatura Cruz lo attacca: da destra. «Trump – accusa il senatore – dice che vuole deportare 12 milioni di clandestini, ma abbiamo scoperto che lui li assume nei suoi cantieri e nei suoi resort. E c’è un’intervista segreta al
New York Times in cui confessa che una volta eletto sarebbe aperto ai compromessi. Io no, io costruirò il Muro con il Messico e funzionerà: così come Israele è riuscito a farne uno al confine coi territori palestinesi». In politica estera Cruz attacca Trump perché «non è abbastanza allineato con Israele». Se Trump ha difeso il “waterboarding” (le torture del semi-annegamento), Cruz dichiara che «i nostri soldati per colpa di Obama hanno le mani legate, io da presidente gli restituirò tutta la libertà di azione che hanno perduto».
I boati di approvazione salgono di parecchi decibel quando parla della riforma sanitaria di Obama, anche qui per denunciare le ambiguità di Trump, «mentre io appena eletto presidente abrogherò ogni singola parola di quella legge». Cruz parla della «disastrosa economia Obama-Clinton», senza mai menzionare l’ultimo presidente repubblicano, sotto il quale l’America precipitò nella più grave crisi dalla Grande Depressione. Ma George W. Bush partì proprio da qui, fu governatore di questo petro-Stato e ancora conserva una base di texani affezionati. Come risolleverebbe l’economia Cruz? «Massiccia riduzione d’imposte su tutti, flat-tax (aliquota unica), e abolendo l’Agenzia delle entrate».
È Cruz a descrivere la sua primaria in Texas come il Fort Alamo, rievocando la battaglia del 1835 durante la guerra d’indipendenza dal Messico che fa parte dei miti dello sciovinismo locale. Oggi questo Stato orgoglioso fino alla superbia naviga nelle contraddizioni: il crollo del prezzo del petrolio colpisce i colossi che nel centro di Houston hanno i loro grattacieli, da Chevron a ConocoPhillips a Halliburton. Malgrado sia il campione del petro-Stato texano, Cruz non è riuscito a catturare l’appoggio e i finanziamenti della più importante famiglia di petrolieri di destra, i Fratelli Koch del vicino Kansas. Uscito di gara Jeb Bush su cui avevano puntato i poteri forti del capitalismo conservatore, l’establishment è turbato dal fenomeno Trump, ma non ha ancora deciso da che parte stare.
Ed è sconcertante ascoltare gli slogan anti-immigrati in una delle metropoli più multietniche d’America, dove al seggio elettorale sulla West Gray mi accolgono istruzioni in quattro lingue: inglese, spagnolo, mandarino e vietnamita.