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 2016  marzo 01 Martedì calendario

Breve ritratto di Ennio Morricone

I marines gettano pacchetti di sigarette dalle jeep e ad accompagnare lo stupore in bianco e nero di George Wilson e dell’ex fascista Ugo Tognazzi c’è solo il rintocco di campana.
Ora che suonano tutte a festa e l’Oscar arrivato a cinquantacinque anni dal primo di cinquecento film, Il Federale di Luciano Salce, è sempre una questione di America, di perdono e di seconde occasioni, Ennio Morricone può tornare nella casa in faccia all’Ara Coeli, dare aria ai premi, superare le tele rosse e nere di Attardi, i quadri di Guttuso, le pareti azzurre e aggiungere alla collezione l’unico che gli mancasse veramente perché una carriera – anche se si è monumenti, anche se si è nati nel 1928 – si celebra meglio quando è declinata al presente.
Applausi dunque al signor Morricone – già Sor Ennio, figlio di una Roma popolare che all’artigiano sommo ha giustamente riservato la blusa del maestro – e alle note a cui Morricone – mischiando alle sette originarie, clangore di catene, fischi e voci – ha dato nuova vita. Come i marziani musicati per Castellano e Pipolo, smarriti in una via Veneto più caotica della contemporanea, Morricone ha avuto dodici mani.
Ha plasmato i generi, indirizzato i ricordi, dedicato l’esistenza a una missione oscura e riconoscibile: mettere il proprio genio a disposizione di altri geni. Quindi Bertolucci, Leone, Malick, Petri, Pontecorvo, Tarantino e in mezzo, tra sogni, visioni e proiezioni, Ennio. Il ragazzino entrato in Conservatorio a undici anni. Il figlio di un padre jazzista e di una madre di ascendenze anarchiche allevato poi alla scuola del Florida e di Petrassi. Quello che compiva dieci anni proprio nella Notte dei Cristalli e i cristalli poi li ruppe, a modo suo, per disegnare altre atmosfere di persecuzione e caccia all’uomo. Un uomo semplice che andava in vacanza a Cervara di Roma o a Tor San Lorenzo e guardava Amadei inseguire un pallone dai posti poveri dietro le porte del vecchio stadio Testaccio.
Un compositore che in risposta a chi dopo decenni di candidature perseverava nel chiamarlo “Inio Moriconi”, l’altra sera, dialogava con l’Academy in italiano ringraziando Maria.
La moglie siciliana sposata nel nevoso 1956. Un matrimonio celebrato da un prete gaffeur che gelando la platea scambiò la parola ‘chiave’ con ‘chiavare’. Superando imbarazzi legati al carattere schivo e concorrenze tematiche in un settore dominato all’epoca del suo ingresso da Rustichelli, Piccioni, Lavagnino e Trovajoli, Morricone seppe disegnare un proprio mondo. Un microcosmo in cui alla perizia artistica si aggiungessero invenzione e sperimentazione.
Un angolo in cui insieme ai volti che con la sua musica divennero memoria collettiva (l’arpeggio con i sintetizzatori di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto con un sinistro, cattivissimo Volonté, il De Niro di C’era una volta in America, il James Coburn che nel flashback di Giù la testa ascolta Sean, Sean, scionsciòn…) rimanesse uno spazio anche per le sue creazioni preferite. La sconosciuta Mesa Verde dello stesso Giù la testa. I brani cancellati dal regista di turno. Le melodie che non si ricordava nessuno.
Graffi di un uomo severo: “Gentile, simpatico e affettuoso che, al primo approccio, inganna. Sembra un orso, ma sa essere molto generoso”, dice oggi Antonio Monda che conobbe Morricone ai margini di un concerto e poi scrisse Lontano dai sogni, una conversazione a due pubblicata da Mondadori nel 2010. Dentro, tra un aneddoto e l’altro, tutta la biografia del musicista. I rari alterchi: “Flavio Mogherini mi telefonò entusiasta e mi disse: ‘Ennio, mi devi fare un bel Cajkovskij’’. ‘Non ti faccio un bel cazzo di niente’ risposi e poi me ne pentii”.
Le incomprensioni con Bellocchio tempo dopo I pugni in tasca: “Proposi una voce che nei titoli di testa cantava una serie di anagrammi del titolo La Cina è vicina. Volevo dare un senso di grottesco distorto. Marco mi guardò come se fossi un pazzo. Cambiai completamente musica. Ma da allora non mi chiamò più”.
La dialettica: “Di Lina Wertmüller non mi convincevano alcuni atteggiamenti e correzioni che non capivo. Era abituata con Gorni Kramer che evidentemente accettava questo stile, ma con me non funzionava”. Lei lo chiamò per Mimì Metallurgico. Lui rifiutò. Lina reagì da Lina: “‘Ho capito, sei diventato uno stronzo’, mi disse. Oggi siamo ancora ottimi amici”.
Gli scherzi del passato: “Petri mi convocò per assistere alla prima di Indagine su un cittadino e mi fece vedere il film, non con le musiche che avevo preparato, ma con altre composizioni usate per un altro mio vecchio lavoro. Rimasi senza parole. Soffrivo tremendamente, ma ero pronto ad accettare ogni sua decisione”. Dopo qualche minuto si accesero le luci e Petri si rivelò: ‘A Morico’, imbocchi sempre. Hai fatto la più bella musica che potessi scrivere, e me dovresti prenne a schiaffi per ’sto scherzo’.
La sincerità: “Con Sergio Leone andammo a vedere Per un pugno di dollari al cinema Quirinale e uscimmo  pensando ‘Ma che brutto film’”. La consapevolezza che spente le luci, a 87 anni, anche senza poter più affrontare il tapis roulant, la vita continua di corsa. Di nuovo a tavolino. “L’ispirazione non scende dal cielo”, direbbe Morricone. L’ispirazione è lavoro. “L’ispirazione – senza applicazione – non esiste”. La sua teoria. La sua pratica.