Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 01 Martedì calendario

«Gli scrittori non vanno in pensione finché ce la fanno a tenere la penna in mano». Intervista a Ferlinghetti

Di fronte all’impossibilità di riassumere in poche righe i 96 anni dell’intensa vita di Lawrence Ferlinghetti, ci affidiamo a Bob Dylan, che nel suo rimpianto programma radiofonico lo definì così: «Poeta di grande fama e figlio prediletto di San Francisco, ha fondato la libreria e casa editrice City Lights. La sua decisione di pubblicare Urlo, di Allen Ginsberg, gli valse un processo per oscenità nel 1956. È stato un uomo coraggioso e un poeta coraggioso». Con gli acciacchi propri all’età di questa leggenda, Ferlinghetti (New York, 1919) scende dal secondo piano, dove abita con la sola “supervisione” del figlio Lorenzo, per aprirci la porta. È un uomo ancora alto. L’appartamento, in cui abita da quando è morta la moglie, nel 1976, si trova in un edificio di stile georgiano di North Beach, il quartiere italiano dove, come poeta popolare, editore e libraio indipendente e paladino della libertà di espressione, ha contribuito alla nascita della beat generation di Kerouac, Ginsberg, Corso, Snyder e tanti altri.
Nel 1955, la sua prima raccolta di poesie, “Pictures of the Gone World”, inaugurò la collana Pocket Poets e la casa editrice City Lights. Come vede la vita oggi, 60 anni dopo?
«Stranamente, sia la libreria che la casa editrice hanno il vento in poppa, non sono mai andate così bene. Per fortuna, da alcuni anni ci lavorano altre persone».
È in pensione?
«Non mi piace questa parola, scrivo ancora. Gli scrittori non vanno in pensione finché ce la fanno a tenere la penna in mano. Lavoro a qualcosa che somiglia a un romanzo, ma è piuttosto un torrente di pensieri».
Come era San Francisco sei decenni fa?
«Un capoluogo di provincia. Si sentiva ancora un’aria di dopoguerra. C’era solo un posto in tutta la città dove si poteva comprare del vino francese e le librerie erano convenzionali. Chiudevano alle cinque del pomeriggio, né durante il fine settimana. Con City Lights, iniziammo a restare aperti oltre la mezzanotte, sette giorni su sette».
Che cosa la spinse a mettere su quell’attività?
«Volevo aprire un negozio di libri usati, una cosa tranquilla che mi consentisse di sedermi nel retrobottega a leggere. Ma arrivò la rivoluzione dei tascabili. A New York, gli editori cominciarono a pubblicare libri tascabili di qualità. Fino ad allora, si pubblicavano solo i romanzi polizieschi o di fantascienza. A San Francisco non li vendeva nessuno. Diventarono tutti matti. Fummo la prima libreria di libri tascabili negli Stati Uniti».
Qual era lo scenario poetico di San Francisco?
«C’erano alcune piccole case editrici. Pubblicavano 100-200 copie. Erano i tempi prima dell’arrivo dell’offset. C’era un movimento noto come il Rinascimento di Berkeley, con autori provenienti da lì. Quando arrivarono i beat, se li papparono. Noi beatnik, me compreso, eravamo considerati dei carpetbaggers (termine dispregiativo coniato alla fine della guerra di secessione per designare i cittadini degli Stati del nord che migravano al sud, ndt). Eravamo come degli agenti di commercio di New York. Il più bravo a trafficare era Allen Ginsberg. Aveva un quaderno in cui annotava tutti i telefoni e i nomi dei pezzi grossi della stampa dei Paesi più importanti. Così, quando arrivava in una città, prendeva il telefono e diceva: “Sono qui, potete intervistarmi!” [Ride]. Allen è stato probabilmente il miglior amico che abbia mai avuto tra i beats. Andavo d’accordo con Gregory Corso, anche se non era facile. Una volta rapinò la libreria e si portò via i soldi che c’erano in cassa, circa 200 dollari. Dato che non potevamo denunciarlo, li trattenemmo dai suoi diritti d’autore. Senza Ginsberg non ci sarebbe stata una beat generation, ma un sacco di scrittori in un vasto paesaggio. È lui che ha creato tutto».
Più di Jack Kerouac?
«Certamente. Dopo l’uscita di Sulla strada nel 1957, diventò famoso, smise di fare il vagabondo e tornò a casa a prendersi cura di sua madre, cosa che ha fatto fino alla fine dei suoi giorni. Rimase in contatto con Allen, non con gli altri. Si chiuse in casa a bere».
Tanto, come dice la leggenda?
«Non faceva altro che bere. Fumava un po’ di marijuana, ma niente di troppo serio... Alle feste a cui lo portava Gary Snyder, a San Francisco, e che poi Kerouac raccontò nel suo libro I vagabondi del Dharma, finiva sempre col perdere i sensi. Ma anche steso a terra, ascoltava tutto. Aveva una memoria prodigiosa».
Inventava?
«Non credo. Scriveva quello che ricordava».
È soddisfatto di come è stato raffigurato nel suo romanzo “Big Sur”?
«Mi ha dipinto come un uomo d’affari. Non si è sforzato troppo».
Mi parli della San Francisco del ventunesimo secolo.
«È la città più cara degli Stati Uniti. È tutto colonizzato dall’arrogante generazione dei “punto- com”. Avevo una galleria d’arte e ci ho dovuto rinunciare perché si è presentato chi poteva pagare tre volte di più di affitto».
Dipinge ancora?
«Sì, ma non ci vedo quasi più».
Qual è il segreto della sua longevità?
«Non ho mai bevuto troppo. Una sera, a Nerja, bevvi un sacco di cognac. Non ho mai preso una sbornia come quella».
E droghe?
«Molto poche. Un po’ di marijuana. L’acido un paio di volte. Nel mio rifugio nel Big Sur. Ci vuole un buon ambiente per l’Lsd. Non ti consiglio di prenderlo e andare a un concerto rock».
Usa il computer e altri aggeggi tecnologici?
«Sempre meno. Scrivo a mano su dei quaderni e poi qualcuno li trascrive».
Il suo libro “A Coney Island of the Mind” è una delle raccolte di poesie di maggior successo e più lette di tutti i tempi. Si è arricchito con la poesia?
«Nooo. Era un tascabile, si vendeva a un dollaro».
E Ginsberg, ci ha fatto i soldi?
«I tre quarti di quella somma. Ginsberg viveva in un college a Berkeley. Mi mandò il manoscritto di Urlo e fece una lettura in un garage privato che chiamavano galleria d’arte. C’erano solo 35 persone. Dopo l’evento, siccome non lo conoscevo abbastanza, non ebbi il coraggio di dire nulla. Tornai a casa con mia moglie e gli mandai un telegramma. Scrissi: “Ti saluto all’inizio di una grande carriera. Quando mi mandi il manoscritto?”. È il saluto che Emerson scrisse a Walt Whitman, dopo aver letto la prima edizione di Foglie d’erba».
Ebbe paura durante il processo per “Urlo”?
«No. Ero giovane e stupido. Pensai che se mi davano un sacco di anni avrei avuto tempo per leggere. Per fortuna vincemmo noi e questo rappresentò un precedente per l’interpretazione del Primo Emendamento. Molti osarono pubblicare libri proibiti, come L’amante di Lady Chatterley, di D.H. Lawrence, o quelli di Jean Genet e Henry Miller».
Qual è il suo poeta preferito?
«Probabilmente Dylan Thomas. Era gallese. Ha sentito come declamava le sue poesie? Una cosa sensazionale».
Che mi dice di Ezra Pound?
«Con Pound c’è sempre stato il problema delle sue idee politiche. Una volta, feci un grande quadro. Lo intitolai The Palimpsest of Ezra Pound. È una sorta di ripasso per immagini della sua storia. È stato esposto in Italia. Sono andato a trovare Mary de Rachewiltz, sua figlia, nel castello in cui abita. Ho scoperto che era molto dispiaciuta per la svastica che avevo dipinto in un angolo del quadro. Le diede fastidio, perché suo padre non aveva mai avuto nulla a che fare con i nazisti... e aveva ragione. Fu una stupida associazione. Spero di poterla cancellare, un giorno».
Le interessa la politica?
«Ho sempre creduto nell’anarchia non come un’ideologia, ma come un ideale, un ideale per il quale le persone potrebbero organizzarsi senza governo».
Che cosa pensa come libraio della minaccia rappresentata da Amazon?
«Per ora, non sono riusciti a farci fuori. Le librerie indipendenti saranno più utili che mai di fronte all’avanzata del pensiero unico. Anche se questa guerra, temo, non toccherà a me combatterla».
Fa paura la morte a 96 anni?
«Più che la morte in sé, fa paura il dolore e la sofferenza che mi separa da lei».
©El País/LENA, Leading European Newspaper Alliance.
Traduzione di Luis E. Moriones