la Repubblica, 1 marzo 2016
Gli Oscar del risarcimento
Ha vinto l’Oscar 2016 Il caso Spotlight, e l’Italia, sempre ansiosa di riconoscimenti stranieri, si è molto agitata per l’Oscar alla miglior colonna sonora originale vinto dal nostro amatissimo Ennio Morricone. Il miglior film questa volta poteva essere uno qualunque degli otto finalisti in lingua inglese in gara. Bastava scegliere non tanto il migliore, quanto quello la cui trama pareva più attuale, più importante, più coraggiosa, più onorevole per una industria cinematografica che ha deciso di riprendersi un pubblico un tempo esigente ma attualmente impigrito. E in questo senso il più degno è sembrato il film (Oscar anche per la sceneggiatura originale, sei nomination), diretto da Tom McCarthy, storia vera di un gruppo di giornalisti del quotidiano Boston Globe, che nel 2001-2002, riuscì a infrangere il muro eretto dalle alte gerarchie cattoliche per proteggere dalla legge e dall’informazione una folla instancabile di preti americani pedofili; un film classico anche nel ridare lustro a una categoria, appunto i giornalisti, eroi negli anni ’70 e attualmente bistrattati.
Gli Oscar più importanti non si sono concentrati sul film vincitore come è capitato in passato, ma hanno cercato di valorizzarne altri: e per esempio, forse non osando scegliere come miglior film il sontuosamente fracassone Mad Max: fury road di George Miller, troppo visionario anche se femminista (Eve Ensler, autrice di I monologhi della vagina era sul set per far capire alle interpreti il diritto femminile alla forza e alla violenza) è quello che di premi ne ha vinti di più: sei su nove nomination non appariscenti ma essenziali per il cinema di immagine, Montaggio, Scenografia, Costumi, Trucco e Acconciature, Sonoro, Montaggio Sonoro. Il settantenne Miller è al suo quarto Mad Max, il primo risale al 1979, e fu aggredito come “ispirato al Mein Kampf”, entrando poi nella classifica dei film “che bisogna assolutamente vedere prima di morire”. Successo enorme ma allora non culturale, mentre quest’ultima versione è diventata imperdibile anche per cinefili anziani.
Il mondo da mesi aveva deciso che l’adorato DiCaprio, anche se un po’ arrotondato, doveva assolutamente vincere quell’Oscar per la miglior interpretazione maschile, che fino ad ora gli era stato negato ben cinque volte, malgrado lo meritasse forse più che adesso, in una trentina di film diretti da Scorsese, Tarantino, Eastwood, Allen, Cameron, Spielberg, Luhrmann e altri. Forse era troppo giovane e carino, praticamente tutti innamorati di lui: adesso, nel grandioso Revenant è sempre sullo schermo ma non gli si vede quasi mai la faccia, coperta da sangue, ferite, croste, fango, ghiaccio, capelli, pelliccia, e trovandosi solo in mezzo a una natura crudelissima (al massimo compaiono un orso, dei pellerossa e altri cattivi), tace o mugola; si può dire che sarà anche bravissimo, ma è appassionante soprattutto il suo ruolo di cacciatore di animali da pelliccia in un’America selvaggia del primo ‘800. Perciò non si sentono forti brontolii anche per i premi alla regia e alla fotografia (su dieci nomination): al messicano Alejandro Gonzáles Iñárritu, adorato a Hollywood, che l’anno scorso, per lo straordinario Birdman, ha vinto l’Oscar al miglior film, alla miglior regia e alla miglior sceneggiatura originale. E a Emmanuel Lubezki che ha reso meravigliosi e paurosi con la sua fotografia la vastità e il vuoto di un mondo incontaminato, il colore del gelo e del vivere desolato.
L’Italia aveva vinto nel 2014 con La grande bellezza di Paolo Sorrentino l’Oscar al miglior film straniero, ma da due anni il nostro candidato (questa volta era Non essere cattivo del defunto Claudio Caligari) non è entrato neppure nella prima selezione di nove film. Per fortuna c’è il nostro Morricone che sempre onora il sempre avido tricolore con la sua genialità musicale: questa volta per la miglior colonna sonora originale dell’antipatico film di Tarantino The hateful eight: a quasi novant’anni, dopo essere stato nominato cinque volte senza vincere, e conquistando nel 2007, quasi dieci anni fa, l’Oscar alla carriera.
Le attrici in gara meritavano un Oscar a testa, tutte bravissime nei loro ruoli: le persone in età puntavano su Charlotte Rampling, vicino ai 70 e ancora bella perché priva di tentativi di ringiovanimento, adorata protagonista di 45 anni e già meritevole di molti premi. Ha vinto una ragazza, Brie Larson, che per Room ha rinunciato alla sua bellezza per essere una giovane donna rapita, imprigionata e abusata da anni, che in quelle condizioni disperate cerca di allevare suo figlio come se fuori ci fosse davvero il mondo che lei riesce a fargli immaginare.
Il film in assoluto più importante e indimenticabile di tutti questi Oscar è il vincitore imbattibile tra i concorrenti al miglior film straniero, Il figlio di Saul: non solo per la tragica realtà che ci ricorda, quella degli ebrei costretti a collaborare al martirio dei loro correligionari nei lager, ma per l’assoluta bravura del suo giovane regista, l’ungherese László Nemes e del suo protagonista, il poeta magiaro Géza Röhrig.